Lo sviluppo delle neuroscienze ha subito un’enorme accelerazione negli ultimi dieci anni. Sono molte le applicazioni pratiche che hanno beneficiato di queste nuove scoperte scientifiche.
Queste implicazioni hanno avuto l’ulteriore merito di suggerire nuove ipotesi di lavoro, nella riflessione teorica ed epistemologica da una parte e nello sviluppo di nuove tecniche di intervento in medicina e psicologia, dall’altra.
In questo articolo vorrei riassumere l’intuizione geniale di Gerald Edelman, premio Nobel per la medicina nel 1972 per le sue ricerche sugli anticorpi, conosciuta come Teoria della selezione dei gruppi neuronali, e le implicazioni teoriche ed euristiche di questa teoria nell’ambito della ricerca in psicologia. Il primo elemento da analizzare è, senza dubbio, l’approccio che Edelman ha utilizzato nell’affrontare il tema della formazione e del funzionamento dell’attività cerebrale, dall’embrione fino all’età adulta, approccio che lo stesso ha mutuato dalle ricerche nel campo dell’immunologia che gli valsero il premio Nobel per la medicina, come già accennato. In sintesi, egli si oppose all’idea prevalente nel mondo scientifico secondo la quale gli anticorpi del sistema immunitario dei vertebrati si formano come conseguenza e adattamento alle caratteristiche dell’antigene al quale devono rispondere; significherebbe, cioè, assumere che l’antigene contenga le informazioni necessarie alla formazione di un anticorpo corrispondente che si modellerà sulla base proprio delle informazioni contenute nell’antigene stesso. Questo modo di interpretare il meccanismo cellulare della risposta del sistema immunitario viene definito istruzionismo, interpretazione alla quale Edelman oppone l’idea di selezione o selezionismo. Questo secondo modo di vedere consiste proprio in un principio popolazionistico darwiniano, per il quale nello smisurato numero di anticorpi già presenti nell’organismo, alla comparsa di un antigene di qualunque genere e tipo, l’organismo risponde selezionando gli anticorpi più adatti ed efficaci perché vicini alle caratteristiche chimiche della molecola da combattere, come detto anticorpi già presenti nel corpo, i quali prolifereranno e si rafforzeranno proprio in seguito a questo meccanismo di selezione somatica.
L’intuizione di Edelman fu che questo principio potesse valere per ogni sistema biologico, compreso lo sviluppo cerebrale e sinaptico; dunque anche il cervello è un sistema di riconoscimento selettivo? Secondo la Teoria della selezione dei gruppi neuronali certamente sì. Infatti, con buona pace dei positivisti più irriducibili, la selezione somatica, già di natura epigenetica quindi, inizia nella fase embrionale, attraverso la formazione di gruppi neuronali che, scaricando simultaneamente, si cablano insieme costituendo una mappa individuale (repertorio primario), sempre diversa da individuo a individuo, perfino nel caso di gemelli omozigoti. A questo punto è facile comprendere come l’esperienza e l’interazione con l’ambiente produrranno nel neonato configurazioni sinaptiche individuali non riconducibili al dettato genetico, attraverso un lavoro selettivo di rafforzamento o indebolimento dei gruppi neurali funzionali ad una migliore risposta adattiva, rappresentata da modelli operativi interni sani o dissociati a seconda dell’adeguatezza delle cure primarie disponibili (repertorio secondario). Ma vediamo, allora, più da vicino qual è il meccanismo all’opera nella selezione somatica; il concetto ed il termine che riassume questa complessa competenza delle cellule nervose cerebrali utilizzato da Edelman è rientro. Significa qualcosa di diverso e di più rispetto al semplice concetto di retroazione o feedback; si tratta di un meccanismo complesso e sofisticato che più che un mero scambio di segnali che dall’esterno modificano l’interno, consiste nella formazione di circuiti cosiddetti rientranti che rappresentano il modo costruttivo di cui dispone il nostro cervello per comunicare soprattutto con sé stesso. Gli stimoli esterni, quindi, producono una successiva elaborazione a livello neurale, come una sorta di auto-organizzazione (individuale) del cervello stesso, che rafforzerà quegli scambi incessanti di connessioni sinaptiche (cicliche, ad anello piuttosto che lineari) che si affermeranno, attraverso una scarica simultanea, come quelle più adeguate a rispondere all’esigenza di adattamento, selettivamente orientata.
In questo senso il rientro assomiglia ad una proprietà emergente che scaturisce dalle intrinseche qualità auto organizzative del cervello stesso. I nuclei dinamici che si formano dall’attività dei circuiti rientranti, poi, dimostrano come sia la funzionalità in uscita ad orientare l’intero meccanismo e non l’anatomia, poiché le mappe rientranti globali che formano appunto i nuclei dinamici, sempre variabili, connettono neuroni distanti tra loro oltre che differenti per funzione specifica.
Fig .1 (da Edelman G., Più grande del cielo, Torino, Einaudi, 2004, p.38). Tre campi o mappe separati le cui connessioni producono in tempi differenti una risposta in uscita (output) funzionalmente uguale.
Quello che conta maggiormente rispetto a questo traffico di connessioni rientranti che si rafforzano e si indeboliscono a seconda delle necessità adattive che ne condizionano lo scambio reciproco è la conseguenza finale del processo, cioè il fatto che in particolari circuiti ed in particolari configurazioni di mappe, anche lontane anatomicamente tra loro, i neuroni scaricano simultaneamente, sono sincronizzati indipendentemente dalla regione anatomica della loro collocazione.
Il chiasmo consiste quindi nel fatto che cellule diverse (aggregati neurali) possono svolgere ed assolvere la medesima funzione così come un medesimo nucleo dinamico può svolgere funzioni differenti in momenti diversi.
Fig. 2 (da Edelman G., Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana, Cortina, 2007, p. 25). Sono evidenziate le reciproche connessioni tra le regioni talamo-corticali e tra varie regioni della corteccia. Le reciproche connessioni integrano e sincronizzano le attività di diverse specifiche mappe neurali.
Il cervello dimostra di essere un generatore di diversità; il nostro autore ha coniato a proposito un curioso acrostico, appunto God (generator of diversity), per evidenziare la caratteristica strutturale fondamentale alla base della teoria della selezione dei gruppi neuronali.
L’incontro con i segnali che provengono da un mondo sconosciuto, non ancora categorizzato e dunque ambiguo, produce e facilita l’amplificazione differenziale di quelle particolari configurazioni che meglio si adattano a rispondere alla sfida dell’adattamento, a tutti i livelli ed in ogni fase dello sviluppo, per tutta la vita dell’individuo.
Molto interessante in questa descrizione delle proprietà delle mappe rientranti è la constatazione che non esisterebbe alcun centro regolatore superiore che coordini le attività neurali responsabili di una particolare funzione; piuttosto è proprio l’attività stessa di sincronizzazione di gruppi di neuroni di diverse aree e regioni cerebrali che aprono vie e configurazioni determinate sotto la spinta delle connessioni rientranti che produce la conseguente risposta adattiva e funzionale che corrisponderà agli infiniti possibili stati di coscienza e vissuti soggettivi, coscienti appunto, ma anche inconsci, secondo uno schema francamente inesauribile relativamente a qualsiasi criterio normativo quantitativo e tassonomicamente controllabile.
Allora cosa si evince e quali sono le conseguenze di queste nuove conoscenze scientifiche per quanto riguarda la ricerca in psicologia? Se dal versante di una delle scienze considerate dure, hot (rispetto alle scienze umane, soft) arrivano considerazioni di tipo olistico e non causale-riduttivo, secondo quindi una epistemologia non deterministica, cosa dovremmo pensare rispetto alle scienze psicologiche? La ricerca di uno statuto scientifico dignitoso nasce con la psicologia stessa, se pensiamo che la prima cattedra di psicologia in una facoltà scientifica risale all’università di Ginevra nel 1891 con Theodore Flournoy, come ricostruito dal fondamentale lavoro di Sonu Shamdasani nella sua storia sulla nascita della psicologia moderna (in Italia per il primo corso di laurea in psicologia dovremo aspettare il 1978). Un’ambizione legittima e comprensibile che, tuttavia, paradossalmente, insieme alla ricerca (a volte tristemente spasmodica) di validazione oggettiva ed inoppugnabile scientificità, conduce verso l’inevitabile collocazione delle teorie e delle pratiche psicologiche nell’ordine delle scienze umane, lungo quella linea che rappresenta un continuum ininterrotto al cui termine ci sono le scienze naturali. In questo senso l’affondo finale, che chiude la partita definitivamente, arriva proprio dalla scienza più oggettiva e matematicamente coerente possibile, la fisica. Sappiamo come la fisica delle particelle contemporanea, se da una parte produce delle previsioni e delle applicazioni pratiche e tecnologiche mai così precise ed accurate nella storia della conoscenza umana, dall’altra si sottilinea come l’impianto teorico e concettuale della meccanica quantistica è di tipo probabilistico, olistico, non deterministico. Il paradosso è impegnativo dal punto di vista della filosofia della scienza ma, nello stesso tempo, illumina rispetto a quale predisposizione dobbiamo assumere noi psicologi di fronte sia al lavoro di ricerca e di indagine, sia di fronte all’interpretazione ed alla cura dei pazienti. La virata, nell’ultimo decennio, verso una sempre maggiore attenzione agli aspetti relazionali della terapia rispetto alle storiche precedenti guerre di religione tra i vari approcci teorici, nelle psicoanalisi, nelle psichiatrie, nelle psicologie tout court, mi sembra rappresenti un aspetto molto incoraggiante ed euristicamente costruttivo di procedere sulla strada della conoscenza in una materia e disciplina così particolare poiché occupa, unica tra tutte, un posto, al tempo stesso, privilegiato e problematico, nel quale il soggetto e l’oggetto della ricerca, coincidono.
Concludo la riflessione epistemologica, citando le ricerche svolte presso la University College of London (Karmiloff-Smith, Johnson), ricerche che si collocano in quell’area di studi di psicologia evoluzionista che hanno avuto inizio intorno agli anni 90 del secolo scorso e che rappresentano una integrazione e superamento della dicotomia storica tra innatismo e comportamentismo, o, ancora meglio, tra una concezione della mente del neonato come tabula rasa (l’empirismo inglese di John Locke) che attribuisce all’ambiente ed all’esperienza l’intera responsabilità ed incidenza sullo sviluppo del bambino e, viceversa, una concezione della mente del bambino dotata di strutture innate e programmate a svolgere determinati compiti, una volta che l’ambiente e l’esperienza le avessero attivate. Proseguendo gli studi sugli stadi evolutivi di Piaget, la psicologia ad orientamento evoluzionista postula, secondo gli autori, che il contenuto innato della mente infantile consista principalmente in inclinazioni iniziali e predisposizioni attentive, in grado di attivare l’apprendimento.
In questo senso il codice genetico (molto ridotto come numero rispetto alle aspettative iniziali, 30mila geni contro i 100mila attesi) non può contenere l’informazione necessaria a spiegare l’enorme complessità dello sviluppo cognitivo umano, né l’infinita variabilità del comportamento; qualunque predisposizione derivata dal codice genetico non solo necessita dell’interazione con l’ambiente per prendere forma ma, soprattutto, va considerata come la predisposizione a formare rappresentazioni interagendo sia con il mondo esterno che con il mondo interno, e certamente non come l’esistenza di rappresentazioni innate già presenti nel cervello stesso.
Le rappresentazioni allora non sono già presenti nel codice genetico, piuttosto i geni si dimostrano essere dei catalizzatori garanti di un processo più che detentori di un contenuto preesistente, questa è la differenza. Gli psicologi evoluzionisti sottolineano come la componente innata sia limitata al meccanismo di focalizzazione dell’attenzione in un certo modo, sarebbe solo questo il vincolo, un algoritmo privo di contenuto che vincola e direziona semplicemente in che modo emergerà l’attenzione e la percezione a livello precoce e primitivo. Morton e Johnson hanno condotto in questo senso degli esperimenti sui neonati dimostrando come la capacità di riconoscimento del volto umano rispetto ad altri stimoli da parte dei neonati sia innata; hanno denominato questo meccanismo non acquisito Conspec, per sottolineare la caratteristica attribuibile all’intera specie umana che, tuttavia, si limita alla tendenza a prestare attenzione genericamente a volti umani senza riconoscerne peculiarità e differenze; infatti la capacità di discernere e distinguere per esempio il volto della madre da quello del padre dipende dall’apprendimento ed emerge qualche settimana più tardi e dipende dal Conspec solo nella misura in cui rappresenta un ampliamento di ciò che esso assicura, cioè che il bambino presti attenzione ai volti umani.
Non esiste quindi una particolare immagine predeterminata nella mente del neonato ma, come abbiamo visto, la tendenza innata a girarsi ed essere attratto da qualsiasi volto umano rispetto ad altre immagini che si presentino nel campo visivo. Si tratta di un riflesso sensomotorio privo di intenzionalità e di comprensione di significato, il cui substrato biologico risiederebbe nelle strutture sottocorticali che semplicemente vincolerebbero la risposta percettiva e attentiva nel modo che abbiamo visto. A livello corticale, invece, gli autori indicano come le rappresentazioni non siano prespecificate e predeterminate, poiché hanno bisogno ed emergono dalle interazioni complesse tra cervello e ambiente e dal rapporto reciproco tra aree cerebrali interne.
In questo senso i principi di auto organizzazione e di emergenza prevalgono nell’interpretazione dello sviluppo mentale rispetto a concezioni deterministiche e innatiste in senso forte.