In ottica LIBET, Rocketman risulta estremamente interessante per la presenza di tutti gli aspetti del modello: ambiente familiare e costrutti infantili, lo sviluppo e la stabilizzazione di un tema di vita, un evento invalidante che rafforza e irrigidisce i piani, fino ad arrivare allo sviluppo di una motivazione alla terapia, alla flessibilizzazione dei piani e all’accettazione di sé.
La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 16) Rocketman
Parliamo di Rocketman, film del 2019 con uno spettacolare Taron Egerton negli istrionici panni di Elton John. Panni (letteralmente) non facili da indossare: il film autobiografico sull’artista inglese ci offre un ritratto personale – e direi personologico – di Reginald Kenneth Dwight, poi diventato Sir Elton John. Un ritratto davvero profondo e struggente, seppur in chiave leggera e a tratti ironica.
Ma parliamo anche di LIBET (Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment), un recente modello di concettualizzazione del caso clinico sviluppato da Sassaroli, Caselli e Ruggiero (2016) che integra i principi della terapia cognitivo-comportamentale standard, con elementi derivanti dalla psicologia costruttivista ed evolutiva, in un mix di elementi di contenuto cognitivo, processuali e di apprendimento.
Perché uniamo la trama di un film ad un modello terapeutico? Perché Rocketman potrebbe essere un ottimo esempio di primo colloquio, una storia di vita raccontata dal paziente nella stanza di terapia. L’apprendimento di schemi comportamentali, di credenze di base su di sé e sugli altri, la rigidità di strategie di funzionamento che portano inevitabilmente alla patologia e alla sofferenza, sono tutti elementi presenti all’interno della pellicola in modo estremamente limpido e coinvolgente.
La storia di Reggie
Un’infanzia tutto sommato regolare, quella di Elton, con una mamma, un papà, una nonna e un pianoforte. Niente abusi, niente traumi: una “infanzia molto felice”, come la chiama lui.
Eppure non c’è bisogno di un ambiente familiare pericoloso per perdersi nella sofferenza.
Sappiamo infatti che l’emergere di disturbi mentali in età adulta, soprattutto quelli di personalità, non derivano necessariamente da esperienze traumatiche, ma possono trovare radice in quello che Marsha Linean chiama ambiente familiare invalidante (Linean, 2017).
Quello di Reggie è definibile un ambiente invalidante.
La figura del padre è assente, distante, rigida e rifiutante. È evidente che quel bambino proprio non lo voleva. Da lui Reggie impara che gli altri se ne fregano di lui e se ne andranno alla prima occasione. Convinzione che trova conferma nel momento in cui, di fronte al tradimento della moglie, l’uomo ha finalmente una scusa per potersene andare, senza neanche salutare il figlio non voluto. Una cosa buona quel padre sembra averla trasmessa, però: la passione per la musica.
La madre, d’altro canto, è presente, ma svalutante e assorbita dai suoi stessi bisogni non soddisfatti – sessuali, in primis. È lei che dirà, di fronte al coming out del figlio, la frase che porterà un Reggie, ormai diventato Elton, a mollare le redini e anestetizzare le proprie emozioni:
Stai scegliendo di stare da solo per sempre. Nessuno ti amerà mai come si deve.
In questo episodio possiamo sentire la potenza dell’invalidazione kelliana (Sassaroli, Caselli, Ruggiero, 2016): una situazione, un pensiero, una frase che conferma le nostre più profonde sensazioni e credenze che riguardano noi stessi, il nostro valore personale o la nostra posizione nel mondo e che, d’altro canto, rendono le nostre strategie di sopravvivenza finora adottate inutili e non funzionanti.
Per lui, la persona che più dovrebbe proteggerlo, amarlo e farlo sentire al sicuro è la stessa che conferma la sensazione, appresa dalle esperienze dell’infanzia, di non poter essere amato.
Unico raggio di luce per il bambino prodigio è la presenza della nonna, supportiva e amorevole. Sarà lei che nonostante le svalutazioni della madre, porterà il giovane pianista alla Royal Academy of Music.
La carriera che porta alle stelle
Il percorso verso l’accettazione, però, sarà lungo e doloroso. Mentre la sua carriera arriva alle stelle, l’uomo-razzo si sente sempre più solo. La sensazione è di essere perso nel vuoto interstellare, di essere alieno, strano, troppo diverso, per cui profondamente non amabile. La mamma, in fondo, aveva ragione.
Questo dolore è ravvivato in ogni festa – in cui tutti si divertono lasciandolo solo in una stanza – e negli incontri romantici con il produttore John Reid. Incontri in cui però l’intimità sessuale non riesce a colmare la distanza emotiva e il rifiuto a tratti abusante, che ricordano tanto il padre assente. Tutti quelli che lo circondano, poi, gli ricordano con assoluta crudezza che essere omosessuale in quegli anni sarà effettivamente una strada solitaria. Anche quel lato di sé non potrà mai essere apprezzato.
E allora l’unico modo per non sentire quel dolore è coprirlo con ogni mezzo: sesso, droga, alcol, shopping compulsivo e infine anche il cibo, sulla strada della bulimia. Persino gli scoppi di rabbia incontrollabili nascondono e anestetizzano una profonda tristezza. Un dolore che solo un bambino non amato può provare.
Eppure tutte queste strategie non cancellano la primordiale sensazione di essere solo, indegno d’amore. Ed è lì che arriva l’illuminazione, la consapevolezza che qualcuno, in passato, gli ha già fatto conoscere quell’amore incondizionato che tanto desidera: prima la nonna, poi il collega Bernie Taupin, scrittore di testi e fratello che non ha mai avuto.
Così molla tutto, e va in terapia.
In terapia
Gradualmente si spoglia delle vesti della sua personale maschera e da Elton Hercules John torna a essere semplicemente Reggie, il bambino che voleva essere abbracciato dal padre. Dopo un incontro con la sua famiglia interiore, dopo essersi perdonati a vicenda, Elton abbraccia Reggie, accettando che la maschera dell’artista pieno di piume e glitter – che l’ha reso amabile e degno di attenzioni – può convivere con il semplice bambino che voleva la pettinatura alla Elvis Priesley e l’amore dei suoi genitori. Perché in fondo è solo dopo un intenso percorso terapeutico che Elton sarà capace di riconoscere l’amore reale: quello fraterno di Bernie e quello romantico del futuro marito.
Rocketman è una pellicola magistrale all’altezza dei premi ricevuti. È un film che mostra in modo molto chiaro il processo psicoterapeutico di conoscenza, elaborazione e accettazione della propria storia e delle proprie sofferenze, ma anche di cambiamento e impegno quotidiano.
Le scene di narrazione all’interno del gruppo terapeutico mostrano il doloroso percorso che va dalla negazione della sofferenza – l’infanzia “felice”, figlia di un attaccamento insicuro-evitante (De Haas, Bakermans-Kranenburg, & Van Ijzendoorn, 1994) – all’ammissione delle proprie responsabilità e dei circoli viziosi relazionali, che lo portano ad allontanare proprio le persone che più possono dargli affetto e attenzione. La scena finale ripaga di tutto, con un Elton John ormai riunito con la sua parte bambina, sentendosi “like a little kid”, sobrio e finalmente amato.
In ottica LIBET, questo film risulta estremamente interessante per la presenza di tutti gli aspetti del modello: ambiente familiare e costrutti infantili, lo sviluppo e la stabilizzazione di un tema di vita di disamore, e forse a tratti di indegnità, un evento invalidante che rafforza e irrigidisce i piani immunizzanti (sesso, droghe, alcool, shopping, scoppi d’ira) fino ad arrivare allo sviluppo di una motivazione alla terapia, alla flessibilizzazione dei piani e all’accettazione di sé.
Rocketman è la storia di una psicoterapia di successo. Proprio come quello del mitico Elton John.