Attualmente il ruolo scientifico e culturale del silenzio è tornato ad essere soggetto di interesse e di studio. Uno dei silenzi che sta attraendo nuovamente la curiosità, del quale parleremo nell’articolo, è quello nella seduta psicoanalitica
Il silenzio, nella sua definizione di evitamento del rumore superfluo derivato dalle innovazioni delle tecnologie comunicative e lavorative, è tornato di grande interesse nella cultura accademica e di massa (Gross, 2018). Il valore benefico di passare del tempo fisico ed emotivo senza distrazioni e/o sovraccarico di stimoli sensoriali è stato riconfermato sia dal punto di vista psicologico (Price-Mitchell, 2013) che dal punto di vista fisiologico (Novotney, 2011). Assieme alla ricerca di spazi igienicamente silenziosi, la letteratura divulgativa suggerisce che esso sia accompagnato da altre attività ancestrali dell’evoluzione umane, come passare del tempo nella Natura (Schuling, Van Herpen, de Nooij, de Groot e Speckens, 2018) o attuare esercizi fisici (Lieberman, 2012).
Una tipologia di silenzio che ha attirato nuovamente l’attenzione da parte del panorama psicologico e non è quello legato alla seduta psicanalitica (di Diodoro, 2019). L’approccio psicanalitico, che in questi anni ha avuto una riscoperta e una rinnovata popolarità (Burkeman, 2016), ha come assoluto fondamento il flusso di comunicazione verbale da parte del paziente (Ezriel, 1972). Come indica lo psichiatra Fabrizio Asoli (2019), il silenzio all’interno delle terapie psicanalitiche è infatti visto esternamente o a primo impatto come un fatto negativo, come un qualcosa che a prima vista possa inficiare il rapporto terapeutico rallentando così il percorso del paziente o peggio invalidare il percorso di analisi.
In realtà, come specifica sempre Asoli, è il contrario: questo silenzio è l’utilizzo del tempo nel quale lo psicanalista permette al paziente di adattarsi all’ambiente e all’atmosfera terapeutica, creando una relazione costruita sull’empatia e sulla fiducia. Di fatto, anche attraverso l’assenza di parole ed attraverso l’utilizzo della comunicazione para e non verbale, il paziente contestualizza feedback riguardanti l’ambiente e le sue sensazioni sul processo terapeutico (Liegner, 1974).
Permettendo al paziente di stare in silenzio, il terapeuta gli lascia spazio alle riflessioni e alle emozioni, facendo sì che esso possa poi iniziare il suo percorso analitico con più sicurezza: uno degli errori meno preferibili da attuare, se non assolutamente da evitare, da parte dell’analista, è quello di dare l’idea di avere fretta o imporre dei totali limiti di tempo alle sedute e al processo terapeutico, così da rovinarlo (Cicerone, 2019). Al contrario, permettere che ci siano spazi vuoti di parole crea la sensazione che non ci sia inibizione verbale, dando vita ad un percorso più sereno e conciliato fra le due parti, soprattutto se il paziente manifesta sintomatiche nevrotiche (Levy, 1958). L’utilizzo degli spazi vuoti deve così diventare uno strumento di base per i terapeuti, una risorsa preziosa che porti beneficio e fluidità al rapporto analitico col paziente (Sabbadini, 2006).
Come disse Paul Watzlawick “non si può non comunicare” (1971) e il silenzio nella seduta psicanalitica può essere, nei tempi e negli spazi giusti, uno dei migliori tipi di comunicazione terapeutica.