Trovo il commento di Francesco Mancini – al pezzo pubblicato sul NY Times Psychiatry’s identity crisis di Richard Friedman – di rara chiarezza e pieno di cruciali distinzioni, che dovremmo tutti tenere sempre ben presenti.
Questo mi ha stimolato a proporre alcune considerazioni di commento, che convergono fortemente ma ampliano un po’ il discorso; dato che io non sono uno psicoterapeuta ma uno scienziato cognitivo e quindi per me il problema non è solo di “dare più spazio alle psicoterapia” (cosa che condivido).
La ‘crisi di identità’ della psichiatria dovrebbe essere più profonda (non solo relativa allo stato attuale del DSM con le critiche che ha suscitato; o alla superiorità della psicoterapia sull’intervento farmacologico). Dovrebbe riguardare non solo in generale in rapporto tra mente e cervello, processi psichici e processi biologici, ma più radicalmente la ‘medicalizzazione’ dei disturbi e devianze comportamentali; il costrutto di ‘malattia’ mentale e di ‘cura-guarigione’, non solo sfidati negli anni 70 da pensatori e movimenti riformatori, ma oggi messi profondamente in crisi – con esperienze ‘psichiatriche’ molto eloquenti e abbastanza ben documentate – come il movimento della Recovery o come le esperienze dell’ “Open Dialogue”. Ma questo non avverrà; al contrario dato il fortissimo e inarrestabile neuro-trend la psichiatria si barricherà sull’approccio bio-medico riduzionista e considererà gli interventi psicosociali semplice sostegno pratico durante la cura ‘vera’ (farmaci, elettroshock etc.).
Ho molto apprezzato nell’intervento di Mancini le seguenti tesi:
a) L’osservazione finalmente esplicita sul fatto che: “..appare carente la spiegazione del meccanismo d’azione psicologico degli psicofarmaci. Perché e come un farmaco che, ad esempio, aumenta la serotonina disponibile nel cervello, può migliorare il tono dell’umore, far riprendere gli interessi e aumentare i livelli di motivazione? La depressione maggiore è un fenomeno complesso che si manifesta con sintomi numerosi e diversi fra loro. … Su quale di questi fattori e processi incidono le variazioni biochimiche indotte dal farmaco? …. Le conoscenze degli effetti dei farmaci sui meccanismi psicologici alla base dei singoli disturbi, invece, sono a tutt’oggi poco sviluppate e pertanto non si è in grado di rispondere ad alcune domande piuttosto ovvie…”.
b) Questa considerazione si connette, da un lato, con il problema generale e di base della non eliminabilità dei concetti e modelli psicologici, e del loro rapporto con i sottostant processi neurali e loro significato/funzione (vedi sotto). Dall’altro alla tendenza oggi dominante a studi fondati meramente su correlazioni e non su veri ‘modelli’ di processi e meccanismi retrostanti e producenti il fenomeno (‘cause prossimali’). Una scienza zoppa (che esploderà in campo sociale con i Big Data), in grado – con molti dati e usata correttamente – di darci “previsioni probabilistiche ma non spiegazioni”! Quando addirittura la correlazione non venga presentata o equivocata come spiegazione causale.
c) Molto lucido anche lo scetticismo sul cosiddetto approccio o modello biopsicosociale, che ammette concorrenza di cause su vari piani, ma in genere è solo un discorso di comodo. Esso non si traduce mai né in veri modelli di ricerca (come i vari processi e meccanismi si alimentano o correggono tra loro), né in veri interventi integrati nei servizi, anche se è una litania ricorrentemente recitata. Esso non è solo una mossa “diplomatica”, ma una mossa ipocrita, volta proprio a mantenere le vigenti divisioni accademiche e professionali e dei saperi, e le loro gerarchie (ruoli e poteri).
d) Preziose le distinzioni e i chiarimenti sugli equivoci relativi al tema del rapporto cervello-mente, neuroscienze-psicologia: l’eliminabilità dei costrutti e modelli psicologici (dato che la mente è semplicemente funzionamenti e funzioni del cervello). Mentre “La conoscenza del cervello, finalizzata alla spiegazione della mente, dovrebbe essere guidata dalle conoscenze psicologiche”.
e) Le considerazioni molto nitide sugli equivoci relativi alla “natura neurologica o psicologica dei disturbi mentali”. Sotto un comportamento o pensieri ‘malati’ vi è necessariamente un “cervello rotto”? O processi psichici devianti e problematici posso essere frutto di un cervello neurologicamente sano? Con la forte conclusione che: “non è legittimo inferire una neuropatologia solo perché si osserva una diversità, anche se la diversità osservata nel cervello corrisponde a una psicopatologia”.
A sostegno di queste tesi di Mancini, mi permetto di aggiungere alcune mie frammentarie considerazioni su alcuni dei punti menzionati.
A
E’ molto ragionevole l’ipotesi che le psicoterapie ed in genere gli interventi psicologici e di sostegno possano avere impatto sulla regolazione cerebrale, a livello biologico; tuttavia questa validissima tesi non va identificata (come frequentemente avviene) con una tesi più radicale che abbiamo bisogno di esplicitare ancorché sia per molti versi “ovvia”.
Le rappresentazioni mentali ed i processi psichici di per sé sono NEL cervello (e dove se no?) e sono processi DEL cervello. Ogni loro costruzione/acquisizione, ogni loro funzionamento, ogni loro trasformazione è un cambiamento di processi nervosi in cui la mente si implementa e materialmente consiste (Castelfranchi. Neurofondazione dei costrutti psicologici: necessaria purchè non riduttiva, e inoltre non sufficiente. Giornale Italiano di Psicologia, 1-2/2015; pp. 105-110 p. 105-109/ http://www.rivisteweb.it/isni/2718) .
Ma sapere questo non significa:
(a) Non mantenere una possibile autonomia di ricerca: necessariamente i modelli psicologici andranno sempre più neuroscientificamente fondati, ma non “eliminati”; e possibilmente i modelli neuro dovranno trovare il riscontro delle variabili, costituenti e processi identificati dalla psicologia o correggerli con modelli altrettanto sottili e procedurali.
(b) Soprattutto non significa non mantenere uno spirito fortemente critico:
– su COME la neuroscienza comportamentale viene fatta oggi; in modo del tutto semplicistico, con la narcisistica esaltazione di scavalcare la psicologia e i suoi modelli di processo per “spiegare” direttamente le condotte in termini di loro localizzazione cerebrale (neuro-etica, neuro-estetica, neuro-economia, etc.);
– contro le frequenti (e prevedibilmente crescenti) posizioni di riduzionismo biologico (genetico, neuro, e bio-chimico) che hanno un grave impatto sulla opinione pubblica;
– su come una gran parte della psichiatria adotti in teoria ed in pratica una scorciatoia bio-farmacologica, molto problematica sul piano scientifico, sociale, ed etico/politico.
Vi è un non sequitur tra l’idea (ovvia) che il processo psicopatologico/disfunzionale (come per altro quello “sano” o “normale”) sia un processo cerebrale e:
(i) l’idea che quindi il problema di origine, la causa, deve essere un “danno” cerebrale, una disfunzione dei meccanismi nervosi e biochimici di base: la “malattia” è cerebrale non mentale e comportamentale;
(ii) l’idea che quindi (anche indipendentemente da (i)) l’intervento deve essere direttamente sul cervello ed il suo funzionamento; di tipo bio-chimico.
Apprendere è modificare il cervello; ri-apprendere è rimodificare il cervello. Ci può essere stato (per una serie di fattori concorrenti: interni ed esterni, esperienziali e relazionali) un apprendimento disfunzionale (rispetto alla interazione sociale e le sue aspettative; e per i vissuti e la realizzazione della persona) e si tratta – mediante esperienze (non solo emotive) ed elaborazioni mentali – di ristrutturare gli assetti, rappresentazioni, e processi appresi.
Ogni e qualsiasi cambiamento della condotta è/implica un cambiamento della mente; ogni e qualsiasi cambiamento della mente è/implica un cambiamento del cervello. Il nostro cervello è stato “scritto” dalla nostra condotta; nell’intervento terapeutico o rieducativo si tratta di mantenere (anche) questa via, ed un nesso non unidirezionale bensì dialettico.
Quindi:
– anche se la ‘cura’ lavora su e modifica il funzionamento/substrato neuro-chimico NON vuol dire che la causa, l’origine sia stata una alterazione del funzionamento di base del cervello o corpo; come la cura così altri eventi sociali/affettivi/cognitivi hanno modificato il cervello.
– anche se la terapia behav/cogn modica il cervello, NON vuol dire che allora l’intervento più efficace, giusto, sia quello diretto (fisico-chimico) sul cervello.
Anche supponendo che dietro ogni o molti disturbi psichici/comportamentali vi sia un danno o disfunzione corporea, cerebrale, è riduttivo trarne la conseguenza che ‘quindi’ la ‘cura’ è l’intervento somatico, sul cervello, e diretto, mediante ad esempio farmaci per ‘riaggiustare’ quel malfunzionamento. Concordo con Mancini.
A parte che anche le relazioni, le parole, i riforzi, le psicoterapie lavorano su e modificano i processi neurali (ma non riaggiusterebbero il difetto/danno di base?).
B
Sarei più radicale: per me il problema è che il concetto stesso di ‘malattia’ e di cura’ appare alquanto inadeguato.
La malattia (tanto più il disturbo mentale e del comportamento) è un complesso ‘costrutto’; una costruzione multidimensionale nel tempo. Un artefatto storico-culturale ed istituzionale; costruito di rappresentazioni mentali nel soggetto e negli altri; di credenze, interpretazioni aspettative (su di sè e gli altri), progetti e rinuncia a progetti, ‘destini’ , obblighi, divieti, perdite e limitazioni di poteri; un sistema di relazioni con gli altri in quanto ‘malato’, fino a norme giuridiche ed istituzioni destinate (si pensi appunto alle carceri per gli omosessuali (Wilde) o ai farmaci obbligatori che hanno indotto Turing al suicidio).
Si tratta di una struttura multistrato; la guarigione, la recovery è la decostruzione di tale ruolo e relazione (e disvalore); è un lavoro fondamentalmente fisico e relazionale; è restituzione di speranze, capacità, relazioni, progetti, .. Non è banale scomparsa dei ‘sintomi’; è magari permanenza dei sintomi ma capacità di gestirli (psichicamente e relazionalmente) in modo che non mi facciano la vita. “Recuperare” la ‘persona’ che non è i suoi sintomi, e una sua identità di vita.
Questa ‘cura’ della vera malattia come complesso costrutto cognitivo-emotivo-comportamentale, individuale-relazionale-istituzionale è una operazione chiaramente psicologica, di intervento sulla persona (mente), sul sistema in cui è inserita, ed è un intervento anche culturale e sociale.
Alla fin fine sono sempre i cervelli che si modificano, certo, la cultura è nel cervello, come le regole, le aspettative ecc ecc, ma i cervelli, la cognizione distribuita, e i cervelli di noi ‘sani’ e normali’, complici del suo essere ‘malato’.
Non è questione semplicemente di mettere assieme interventi psicoterapeutici, sociali, assistenziali in alcuni casi, economici, ecc ecc; non è un problema banalmente di più tipi di operatori e di interventi. Vi è una sostanziale unitarietà nella efficacia della guarigione-decostruzione. Non si tratta di ‘cura’ + ‘riabilitazione’ + supporti e inserimenti. Solo un approccio cognitivista può dare una visione unitaria di cosa sta succedendo; e legge in modo unitario e coerente (o contraddittorio) gli ‘interventi’.
Quali rappresentazioni e vissuti si stanno modificando (credenze, emozioni, motivazioni, pretese, relazioni) nella persona e nel contesto? Cosa significano e cambiano il farlo andar via di casa, il trovargli un lavoro e un ruolo, il dargli parola e ascolto? Che rivoluzione psichica è e come funziona lo slogan “la libertà è terapeutica!” (chiusura del manicomio di Gorizia), o perchè avere dei soldi non è solo un sussidio ma cambia la mia libertà e i miei rapporti e subordinazioni?
Ogni intervento (che sia capito psicologicamente o meno) cambia la mente e quindi la condotta, la condotta e quindi la mente. Il cognitivismo è l’unica chiave di lettura unificante.
Leggi il commento di Francesco Mancini
Articolo del New York Times: Psychiatry’s identity crisis