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Storie di Terapia #18 – Marino, il Ragazzo Prodigio

Storie di Terapia #18: Marino è uno dei pazienti in cui è più forte la differenza tra aspetto esteriore e quello che si agita dentro di lui.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 17 Dic. 2012

 

Storie di Terapia #18

Marino, il Ragazzo Prodigio

Storie di Terapia #18 - Marino il Ragazzo Prodigio. - Immagine: © kuco Fotolia.com

Marino è uno dei pazienti in cui è più forte la differenza tra aspetto esteriore e quello che si agita dentro di lui.

Marino era un giovane, poi un adulto e ora quasi un anziano che ho visto saltuariamente per quasi trent’anni. Ad accompagnarlo, nel corso della sua dolorosa esistenza, è stato soprattutto un mio carissimo collega cui lo affidai dopo il primo contatto con me, avvenuto in emergenza. Adesso le parti si sono invertite ed è il collega a chiedermi, a distanza di anni, di dare un’ “aggiustatina” alla terapia farmacologica,  che non ha mai sospeso: non lo ha mai guarito, ma ogni volta che è stata interrotta emergono le laceranti angosce deliranti di Marino.

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Marino è uno dei pazienti in cui è più forte la differenza tra l’aspetto esteriore e quello che si agita dentro di lui. Apparentemente si presenta come un ragazzo, poi adulto, infine anziano, di buona famiglia e di ottima educazione, capace di gentilezze di altri tempi fin troppo manierate, una persona di ottima cultura classica, con interessi molteplici su cui intrattiene amabili conversazioni. L’aspetto del rampollo di una famiglia che fu benestante, impegnata da tempo a gestire un declino irreversibile: pettinatura (fin quando ci sono stati i capelli) fuori moda con una riga a destra eredità del nonno, gran cavaliere del lavoro, che aveva costruito le fortune della famiglia costruendo orribili dormitori alla periferia della città, negli anni del boom economico; vestiti sempre eleganti, ma di una taglia più piccola, dall’aspetto vissuto a denunciarne l’origine paterna.

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L’impressione che ho sempre ricavato, sin dal primo incontro con Marino, è che fosse fuori posto. Il guaio è che la stessa profonda sensazione di estraneità al consesso degli esseri umani la provasse lui stesso. Era costantemente imbarazzato e sembrava riuscisse a rapportarsi con me e gli altri solo attraverso un ragionamento interno sempre attivo, in cui si chiedeva cosa fosse opportuno dire o fare in quella circostanza. Quello che a tutti sembra venire assolutamente naturale per lui era frutto della consultazione mentale del codice del galateo. Ciò comportava una marcata lentezza e un assoluta mancanza di spontaneità. Darsi la mano in sincronia, alternarsi nella conversazione con un interlocutore senza sovrapporre parole e silenzi, scambiarsi un cenno di saluto con uno sguardo non erano per lui degli automatismi che non sappiamo dove abbiamo appreso ma guidano automaticamente il comportamento, ma compiti impegnativi e sconosciuti da risolvere con un ragionamento che conducesse ad una decisione.

Autoterapia del delirio. - Immagine: © Lucian Milasan - Fotolia.com
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Mi sono convinto nel tempo che l’essenza del dramma che ha accompagnato Marino per tutta l’esistenza fosse proprio questa estraneità radicale. Certo i deliri, le allucinazioni e gli agiti esplosivi erano l’aspetto più vistoso e inquietante, ma anch’essi mi sembravano radicarsi su questo nucleo di alterità irriducibile. Mi viene da dire che i deliri fossero il tentativo di spiegare e dare un senso a quanto gli fluiva intorno e che a lui appariva estraneo e incomprensibile, mentre per tutti gli altri era ovvio e scontato.

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Per mettermi nei suoi panni ho immaginato di essere in un paese straniero di cui non solo afferro malamente la lingua ma non conosco affatto le usanze, i costumi, le regole fondamentali del comportamento interpersonale. Immagino anche che una guida mi abbia informato sulla facilità e pericolosità di offendere gli abitanti e mi abbia consegnato un manuale con le regole da seguire, da leggere durante il volo aereo. Lasciato l’aeroporto e addentratomi nella città, cammino guardingo e sospettoso con il timore che un mio gesto o una frase inopportuna abbia l’effetto di spingere l’ interlocutore a farmi saltar via la testa con un solo ben assestato fendente.

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Marino viene portato per la prima volta da me intorno ai venticinque anni. Il giorno precedente è stato ricoverato in SPDC dopo aver sequestrato il suo capoufficio, minacciando di ucciderlo con un coltello. Mi spiega che si trattava di autodifesa perché il capoufficio era intenzionato ad ucciderlo. Per capire come si arriva all’episodio che costituisce il debutto psichiatrico di Marino sono necessarie notizie sulla sua storia.

E’ l’unico figlio di Marta e Giovanni. Marta a sua volta è l’unica figlia di una famiglia di artisti e artistoidi con una tendenza alla bizzarria e alla schizotipia. Il padre è violoncellista, la madre pittrice, uno zio poeta e un altro scultore, morto da poco in manicomio. Per la famiglia di Marta tutto ciò che non è arte è volgare e disprezzabile, per questo la famiglia è apertamente contraria al matrimonio con Giovanni, che gira su una fiammante Maserati ma è pur sempre figlio di un palazzinaro di origini abruzzesi. La contrarietà al matrimonio è altrettanto vivace nella famiglia di Giovanni che, radicata sui valori del lavoro e del fare soldi con il sacrificio, guarda con sospetto e disprezzo i sognanti e inconcludenti parenti di Marta.

  I due genitori con le rispettive famiglie schierate alle spalle si battono per la conquista dell’immaginario e del futuro di Marino. La madre riconosce in lui, sin da neonato, le tracce di una sensibilità che ne faranno un grande artista: il modo in cui impugna il biberon le fa intravedere un luminoso futuro da flautista, che lei ha preparato ascoltando musica classica a pancia scoperta per tutta la gravidanza. Giovanni non ha dubbi sul futuro da ingegnere, che un giorno sarà alla guida della azienda fondata dal nonno, la “Calceforte s.r.l.”: la  prova incontrovertibile è la sua passione per le costruzioni con il Lego. Entrambi i genitori sono estremamente di carattere e ciò genera conflitti costanti in ogni ambito della vita domestica, ma il centro della guerra è per la conquista del futuro di Marino.

Durante le elementari e le medie non mostra una particolare propensione allo studio e questo rappresenta un duro colpo per entrambi. Gli insuccessi di Marino rappresentano per loro un fallimento, una diminuzione personale. Lui vorrebbe fare il linguistico, Marta lo vuole al classico e Giovanni, naturalmente, allo scientifico che lui stesso ha frequentato. La disputa si risolve grazie all’apertura proprio in quell’anno di una sezione sperimentale, un ibrido tra classico e scientifico. Il rendimento di Marino è disastroso e non è chiaro se sia la conseguenza o piuttosto la causa di quanto avviene in famiglia. Marta si avvolge in una cupa depressione e cessa ogni rapporto sociale, sostenendo che i risultati del figlio la fanno vergognare  con le sue amiche e li nasconde ai familiari. Giovanni inizia una relazione clandestina con un’ operaia della ditta, di vent’anni più giovane, che gli prosciuga i conti, fino a costringere il padre e i cognati a intervenire, di fatto interdicendolo da ogni attività economica. La coppia è ripetutamente sul punto di separarsi ma resta unita per Marino che invece, in cuor suo, si augura una rapida risoluzione di quel legame falso e malamente ostentato. Prende la maturità per il rotto della cuffia con il minimo dei voti, in un liceo privato. Disorientato sul suo futuro e senza specifici interessi, cambia quattro facoltà in tre anni. A questo punto la famiglia decide che l’Università italiana è troppo scarsa per interessare Marino e valorizzarne gli immensi talenti e decide di indirizzarlo in costosissimi e qualificatissimi master. Nell’ordine, frequenta i seguenti corsi: “Giornalista e critico d’arte”, “Management aziendale e superamento delle congiunture economiche”, “Economia applicata ai mercati dell’arte”, “ Arti nuovi e nuovi mercati”.

Lui propone una laurea breve in fisioterapia ma ciò suscita riprovazione e disgusto. La sola idea che loro figlio tocchi con le mani il corpo deforme e malato di altri esseri umani fa rabbrividire sia Marta che Giovanni.

Tutti questi master, che si concludono con un attestato di frequenza,  non conducono a nessuna prospettiva lavorativa e Marino continua a vivere a casa e sulle spese dei genitori. Gli insuccessi scolastici e professionali non intaccano minimamente l’idea che i genitori hanno di Marino e che sta diventando l’idea che lui ha di se stesso. E’ considerato da loro e da sè come un genio assoluto incompreso ed ostacolato nell’esprimersi dalla mediocrità dell’ambiente in cui è costretto a vivere.

Uno zio paterno, preoccupato della situazione, si accorda con un suo amico sindacalista perché lo assuma in una sede del patronato con mansioni da usciere  tuttofare. Allo stipendio provvederà lui stesso, di nascosto, dando all’amico quanto poi lui consegnerà al nipote. E’ un inganno a fin di bene, lo zio vuole togliere il nipote dallo stato di nullafacente che trascorre in mostre e concerti e che gli consente di passare giornate intere a fantasticare di un futuro grandioso che lo aspetta e gli renderà giustizia.

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Contemporaneamente anche i rapporti sociali e affettivi di Marino sono insoddisfacenti, se non del tutto assenti. La sua difficoltà a rapportarsi in modo naturale e spontaneo con gli esseri umani è probabilmente una sua caratteristica innata aggravata, però, dall’idea di essere superiore a tutti gli altri, indegni e disprezzabili, e dal fatto di non riuscire mai a stare al passo. Di fatto ha al suo fianco compagni sempre nuovi e sconosciuti, resta indietro e gli altri lo sopravanzano, non  ha relazioni con coetanee e perde la verginità a ventisei anni per mano di Anita, una trentacinquenne dipendente della Calceforte s.r.l., che deve accompagnare a Milano per una commissione aziendale. Marino si innamora e continua a cercarla dopo il viaggio a Milano. Per liberarsi delle sue goffe attenzioni ai limiti dello stalking, dopo tre mesi Anita gli mostra l’assegno di mille euro ricevuto dal padre per portare a termine l’iniziazione sessuale del figlio.

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In quell’occasione prende la macchina del padre e la danneggia contro un muro sentendosi certo che, quell’assegno, il padre lo abbia dato ad Anita perché smettesse di frequentarlo, non essendo lei alla sua altezza. La passione per l’opera lirica deve aver facilitato l’utilizzo del tema della Traviata per la costruzione di questo suo primo delirio.

Il secondo episodio delirante è stato quello che lo ha condotto al ricovero e poi da me: il sindacalista presso il quale lavorava, nonostante non fosse lui a pagarlo, si sentiva in dovere di fornire una scuola di vita a quel ragazzo svampito e viziato, per questo lo rimproverava per i ritardi, le frequenti assenze e lo scarso rendimento. Marino rimase colpito dai rimproveri, che non era avvezzo a ricevere, e si chiuse in bagno a riflettere sull’accaduto. Non ci capiva più niente. Come poteva essere che un misero sindacalista potesse non essere soddisfatto di lui, genio multiforme con molteplici master alle spalle?  Doveva pur esserci una spiegazione a tanta stranezza. La spiegazione la trovò nel cassetto del sindacalista: c’era un giornale con cerchiato un titolo riguardante il segretario generale del sindacato ed un coltello che usava per sbucciare la frutta durante la pausa pranzo. Quei due elementi acquisirono per Marino un significato preciso che dava ragione del comportamento strano e dei rimproveri di Settimio, il suo capo. Settimio aspirava a fare carriera nel sindacato e a diventare segretario nazionale, ma quel ragazzo brillante e straordinariamente dotato che si era inserito nel suo ufficio, lo avrebbe scavalcato e sarebbe diventato segretario al suo posto. Per questo, aveva deciso di eliminarlo e cercava di attirarlo in una trappola mortale, lo voleva accoltellare una mattina presto prima dell’arrivo degli altri impiegati. Per questo lo rimproverava dei ritardi e lo sollecitava ad arrivare sempre prima al mattino. Fortunatamente, pensò Marino, la sua straordinaria intelligenza e sensibilità gli avevano permesso di avvedersi del complotto. Aveva perciò sequestrato il suo capo, utilizzando lo stesso coltello. Non voleva fargli del male, si  accontentava che, all’arrivo delle forze dell’ordine che sarebbero certamente accorse, Settimio confessasse le sue intenzioni riconoscendo il suo straordinario talento, che lo avevano fatto da lui invidiare sino a desiderarne la morte. Rimase enormemente disorientato quando gli infermieri scesi dall’ambulanza, invece di occuparsi dei graffi dei polsi di Settimio, provocati dal fil di ferro con cui lo aveva legato, si diressero verso di lui. Ricordava la voce suadente di un dottore che gli parlava all’orecchio con fare complice, poi un ago nel braccio e poi il nulla.

I genitori che presero contatto con me per programmare la presa in carico del figlio dopo la dimissione mi mostrarono, non volendo, l’essenza del problema in poche battute. Non mi dovevo presentare come uno psichiatra, che ciò avrebbe offeso la sensibilità del giovane, ma come uno psicologo ricercatore di un’ Università americana alla ricerca di giovani talenti con caratteristiche geniali, da selezionare per un progetto riservato e segretissimo. Come spesso capita a tutti quelli che fanno questo lavoro mi chiesi chi fosse davvero da curare e capii che tra poco sarei stato io, se non chiarivo immediatamente le cose e mi lasciavo avvolgere in questa trama confusa di menzogne e sotterfugi che, sempre a fin di bene, aveva già fatto ammattire il povero Marino. Raccolti alcuni dati anamnestici dissi loro che il figliolo mi sembrava un ragazzo normale che non aveva mai fatto i conti con la realtà, sospinto dalle loro straordinarie aspettative, elevatissime e inconciliabili. Aveva faticato come una bestia per corrispondervi ma proprio non ce la faceva. Aveva finito per crederci anche lui al mito del ragazzo prodigio e quando la realtà era venuta con le gambe di Settimio a bussare per portargli il conto, non aveva potuto far altro che sbattergli violentemente la porta in faccia. Ho avuto finora nella vita la fortuna di non essere mai stato presente al momento in cui un genitore apprende della morte di un figlio. Quello che vidi doveva però assomigliargli molto: in principio ci fu lo stupore, l’incredulità, quello speciale sconcerto dovuto ad un blocco della possibilità di comprendere che trapassa in una confusione angosciosa, l’opaca oscura matrice da cui emerge l abbagliante luce del delirio. Il viso di Marta si contrasse, preparandosi al singhiozzo disperato, mi parve una nera vedova contadina china sul corpo del figlio spirato. Giovanni venne in soccorso scatenando una tempesta di rabbia, io ero il colpevole messaggero della verità e, come  Settimio, andavo sbattuto fuori, sequestrato, se necessario ucciso pur di non far entrare un’ intollerabile verità.

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Provai una pena infinita e abbozzai un tremolante conforto. La presentazione delle mie condoglianze disattivò la rabbia e permise l’esondazione delle lacrime, un  abbraccio umido li ricompose dopo anni di guerriglia, l’oggetto del contendere non c’era più, il ragazzo straordinario, ingegnere o artista, era morto e restava un figlio da conoscere ed amare.

  Quando lo incontrai la prima volta, Marino era ancora un bel ragazzo dall’evidente passato sportivo, alto un metro e ottanta, magro ma atletico. Accettava volentieri il colloquio, mostrandosi interessato a porre domande su quanto gli fosse accaduto, era critico e stupefatto, l’emozione predominante era la vergogna. Questa emozione, forte e prevalente, non mi permise di cogliere un imbarazzo di base, di cui ho già parlato precedentemente, che costituiva un elemento nucleare dell’esperienza interpersonale di Marino. Seppure non fosse il genio che volevano fosse, era una persona sensibile, intelligente e capace di attenta consapevolezza. Raccontò la sua storia di vita, identificando lui stesso il tema dolente. Evidentemente vi aveva riflettuto già per proprio conto. La narrazione era organizzata intorno al tema metaforico della confluenza dei fiumi. Lui era esattamente nel punto d’incontro di due grandi fiumi rappresentati dalle tradizioni familiari materna, artistica, e paterna, imprenditoriale. Entrambi erano ricche e impetuose, insieme erano incontenibili per gli argini e lui era stato travolto ed aveva esondato.

L’obiettivo che concordammo fu di liberarsi dalle aspettative che altri avevano posto sulle sue spalle, per andare alla ricerca di cosa effettivamente volesse lui. Non fu facile dare la parola a Marino e far tacere “ciò che Marino doveva volere”; perfino la ricerca dei gusti semplici inerenti il cibo e la musica erano smarriti sotto una serie di imperativi su come essere, cosa pensare, come comportarsi. Pensai che in questo martellamento sul dover essere fosse una radice di quel senso di non spontaneità ed estraneità con il genere umano che, cessati i deliri, mi sembrava l’aspetto psicopatologico più rilevante e stabile.

Avevo il pregiudizio che avrei trovato nei genitori dei fieri oppositori e attivi sabotatori del mio lavoro. Non fu così. Quando capirono che il figlio poteva essere più felice, se libero di essere ciò che voleva, accettarono il disinvestimento su di lui.

Marta promosse un gruppetto di musica da camera e iniziò sistematiche fornicazioni con il violoncellista, un elegante mantovano single, nella capitale per motivi di lavoro. 

Giovanni frequentò i master che aveva in progetto per il figlio acquisendo una competenza che gli permise di uscire dall’ombra paterna e diventare il vero e indiscusso capo della Calceforti s.r.l. 

Marino pareva essersi tolto uno zaino pesantissimo dalle spalle, tant’è che sembrava più alto e dritto con la schiena. Fece un corso della Regione Lazio per assistente di fisioterapia e iniziò a lavorare in alcuni centri convenzionati. Non essendo laureato, non poteva trattare direttamente il corpo dei pazienti e si limitava alla gestione delle macchine su delega di un fisioterapista responsabile del procedimento. 

La sua vita procedeva soddisfacente e meditava di andare a vivere per conto proprio quando incontrò Donna. Lei aveva ventisette anni, tre meno di lui, e studiava in Italia proveniente da un paesino sperduto del Wyoming (USA). Galeotto fu un malleolo, distorto sciando durante le vacanze invernali. Donna aveva l’ovale del volto allungato, meditabondo e triste come quello della Madonna del Parto ed esprimeva lo stesso miscuglio di dolcezza infinita e struggente tristezza. Considerate le scarse capacità sociali di Marino credo che fu lei a prenderlo per mano. Iniziarono una convivenza il cui peso economico e organizzativo gravava prevalentemente su di lei.

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Un giorno volle fermarsi a parlare con me dopo aver accompagnato Marino al controllo bimensile e mi accennò alla propria drammatica storia. Forse era il senso di colpa del sopravvissuto ad averla spinta a prendersi cura della situazione di Marino che, anche nell’ottenebramento dell’innamoramento, non doveva essergli apparsa del tutto normale.

La sua era una famiglia di coltivatori, il padre aveva un piccolo allevamento di cavalli da tiro e la madre, quando era sobria, faceva la levatrice nel paesino che distava cinque miglia dalla loro casa isolata. Lei era stata abusata dal padre quando aveva compiuto i dodici anni e immaginava che la stessa sorte fosse toccata alla sorella di due anni più piccola. Poiché aveva anche un fratello di un anno più grande di lei che era schizofrenico, la situazione in famiglia era pesante e connotata dalla violenza e dalla paura. A vent’anni aveva parlato con il vescovo della sua diocesi, manifestando l’intenzione di prendere i voti e, per questo, era stata inviata nel collegio di Firenze dove sarebbe restata fino alla licenza in teologia. Poi il malleolo e Marino. I genitori non sapevano della sua rinuncia agli studi, il  padre non lo avrebbe mai saputo perché, nel frattempo, si era impiccato nel Giorno del Ringraziamento alla trave centrale della stalla, luogo preferito per gli incontri incestuosi.

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Sentita questa storia fui preso da furia eugenetica ed iniziai ad illustrare alla coppia tutti i più efficaci mezzi anticoncezionali. Un carcinoma uterino felicemente asportato l’anno successivo risolse radicalmente il problema.

La vita di Marino è proseguita per anni tra alti e bassi in senso letterale. Progressivamente ho sostituito, al basso dosaggio di mantenimento dei neurolettici, degli stabilizzatori perché si alternavano tre fasi. Una fase di sostanziale benessere in cui si guadagnava da vivere negli studi di fisioterapia e si riteneva un onesto professionista. Una seconda fase era quella che definimmo del “Marino professore”: i genitori gli rimediavano dei cicli di lezioni di anatomofisiologia da tenere in un liceo serale parificato per figli di ricchi somari. Quando entrava nella “fase del professore” era molto agitato e preparava minuziosamente le lezioni perdendo ore di sonno, si mostrava intransigente con sé e con gli allievi, pretendeva moltissimo  e, scherzando, aggiungeva “più o meno la perfezione”, diventava fiero del suo lavoro e ne parlava in continuazione, esaltando le meraviglie dell’insegnamento. Donna lo descriveva come uno che ha tirato la coca, diventando insaziabile di cibo come di sesso.

Poi, bastava che qualcuno lo contrariasse perché si scatenasse come una furia contro tutti e tutto, accusandoli di non comprenderlo e di ostacolare il suo talento. Normalmente finiva licenziato. Due volte tentò di togliersi la vita. I successivi quattro mesi li trascorreva a letto perdendo anche il lavoro di fisioterapista e Donna era la sua amorevole badante. Lo scompenso maniaco-depressivo veniva ciclicamente innescato da una visita dei genitori. Quando il periodo di benessere si protraeva da un po,’ si presentavano per un tè, portando i pasticcini e poi iniziavano: “certo il tuo lavoro va bene e ti puoi accontentare”, “siamo convinti che un secondo stipendio di integrazione non potrebbe che aiutarvi”, “poi noi lo sappiamo quanto sei bravo ad insegnare”, “da piccolo tutti ti chiamavano il professore”, “naturalmente prima di tutto viene la tua salute e se non te la senti…” , “però che peccato il tuo talento sprecato”.  Concordammo con Donna la strategia per respingere questi nefandi attacchi, creando una cintura sanitaria intorno a Marino quando intuiva l’imminenza di una visitina di cortesia dei suoceri.

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L’ultimo incontro con Marino mi ha intristito fino nelle ossa. Lo ha accompagnato Donna. Non è più la Madonna del Parto, ma una badante ingrigita e stanca che aspetta, ansiosa, la fine di tutto. Non riesce ad andare in giro da solo perché si perde in continuazione, anche dentro casa si confonde tra le tre stanze di cui è composta e gli capita di urinare in cucina e addormentarsi nel bagno, un fine tremore costante scuote i suoi oltre 110 kg.

Non ha ancora imparato la sincronia giusta per scambiarsi una stretta di mano, sul suo volto, gonfio da cortisone e sudato, si affacciano gli occhi azzurri porcini come non ricordavo fossero, guardano il nulla e sembrano porre una domanda “perché?” Ma non c’è bisogno di rispondere, non capisce più niente…

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