Depressione maggiore: che cos’è?
La depressione maggiore, conosciuta come disturbo depressivo maggiore (DDM), è uno dei disturbi mentali più diffusi e invalidanti a livello globale, caratterizzata da una compromissione significativa del funzionamento personale, sociale e lavorativo.
Secondo il DSM-5, la diagnosi di depressione maggiore richiede la presenza di almeno cinque dei seguenti sintomi per un periodo di almeno due settimane, durante il quale almeno uno dei sintomi deve essere l’umore depresso o la perdita di interesse o piacere (anedonia):
- Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi tutti i giorni.
- Marcata diminuzione di interesse o piacere in quasi tutte le attività.
- Significativa perdita di peso non intenzionale o aumento di peso, oppure variazioni dell’appetito.
- Insonnia o ipersonnia quasi tutti i giorni.
- Agitazione o rallentamento psicomotorio osservabile da altri.
- Affaticamento o mancanza di energia.
- Sentimenti di autosvalutazione o colpa eccessiva o inappropriata.
- Difficoltà a concentrarsi, pensare o prendere decisioni.
- Pensieri ricorrenti di morte, ideazione suicidaria senza un piano specifico o tentativi di suicidio.
Disturbo depressivo maggiore: quanto è diffuso?
La depressione è una condizione complessa che interessa milioni di individui a livello globale, con conseguenze profonde sulla qualità della vita e sulla capacità lavorativa. In Italia si stima che oltre 3,5 milioni di persone convivono con disturbi depressivi, e negli ultimi anni si è assistito a un notevole incremento delle diagnosi, pari al 30% (Sanità 24).
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la depressione rappresenta oggi la principale causa di disabilità a livello mondiale. Le proiezioni indicano che, entro il 2030, potrebbe diventare il disturbo mentale più comune in assoluto.
I circoli viziosi della depressione maggiore
Clinicamente la depressione maggiore è caratterizzata da circoli viziosi in cui i sintomi cognitivi, emotivi e comportamentali si rinforzano reciprocamente mantenendo e aggravando i sintomi. Ad esempio, i pensieri negativi, tipici della depressione, generano interpretazioni distorte della realtà alimentando il senso di impotenza e abbassando ulteriormente il tono dell’umore. Questo stato emotivo compromette la motivazione, riducendo le attività gratificanti e amplificando il ritiro sociale. Si innesca così un circolo vizioso, in quanto il ritiro sociale limita il supporto percepito, amplificando la sensazione di isolamento e disperazione che contribuiscono a mantenere basso il tono dell’umore.
Ulteriormente, l’apatia e la mancanza di energia tipiche della depressione maggiore rendono difficile persino lo svolgimento delle attività quotidiane più basiche, generando di conseguenza sentimenti di colpa o frustrazione che vanno a rinforzare lo stato depressivo.
Aspetti cognitivi della depressione maggiore
Per comprendere il mantenimento e la manifestazione clinica della depressione maggiore, è fondamentale esaminare i processi cognitivi coinvolti. Secondo la triade cognitiva di Beck (1967), la depressione maggiore è caratterizzata da una visione negativa di sé (autosvalutazione), del mondo (percepito come ostile o privo di supporto) e del futuro (visto come privo di speranza). Questi schemi cognitivi si accompagnano a distorsioni come la tendenza a focalizzarsi sugli eventi negativi e a esagerare il proprio ruolo nelle situazioni difficili. Questo non solo alimenta il disagio emotivo, ma tende a rafforzare ulteriormente il ciclo depressivo.
Un altro elemento centrale nel disturbo depressivo maggiore è la ruminazione, ovvero la tendenza a focalizzarsi ripetutamente su pensieri negativi, emozioni spiacevoli e i loro possibili significati. Questo processo oltre ad amplificare lo stato depressivo, interferisce con la capacità di risolvere problemi. Ad esempio, il paziente potrebbe interpretare una situazione neutra come fallimentare, rafforzando ulteriormente la visione negativa di sé e degli eventi.
L’ereditarietà della depressione maggiore
La depressione maggiore ha una componente genetica significativa, con un ereditabilità stimata intorno al 37% (Belmaker et al., 2008). Le forme precoci, gravi e ricorrenti del disturbo sembrano avere una maggiore componente genetica. Tuttavia, la depressione non è causata da un singolo gene: si tratta di una malattia complessa, con legami a diverse regioni cromosomiche, sebbene nessuna di queste sia stata identificata in modo univoco in tutti gli studi.
Un esempio interessante è il polimorfismo 5-HTTLPR, associato a una minore capacità di assorbimento della serotonina nel cervello (López-Echeverri et al., 2023). Questo gene potrebbe influenzare il rischio di depressione, ma solo in combinazione con eventi stressanti. Inoltre, anche fattori ambientali possono agire epigeneticamente sul genoma, influenzando la predisposizione alla depressione.
Meccanismi neurobiologici del disturbo depressivo maggiore
Tradizionalmente, le ricerche sulla neurobiologia del disturbo depressivo maggiore si sono concentrate sui neurotrasmettitori monoaminici, in particolare serotonina e norepinefrina. L’ipotesi della monoamina suggeriva che la depressione fosse associata a livelli insufficienti di questi neurotrasmettitori, un’idea supportata dal fatto che molti farmaci antidepressivi aumentano rapidamente i loro livelli (Hirschfeld, 2000).
Tuttavia, questa ipotesi presenta alcune limitazioni. Gli antidepressivi monoaminergici, pur essendo il trattamento di prima linea, non producono un miglioramento clinico immediato: occorrono settimane per osservare effetti significativi. Inoltre, una percentuale considerevole di persone non trae alcun beneficio da questi trattamenti, indicando che la depressione è una condizione più complessa rispetto a un semplice squilibrio monoaminico.
Le ricerche più recenti stanno esplorando altre aree della neurobiologia per spiegare meglio questi limiti. Tra i focus emergenti ci sono la disfunzione dei circuiti cerebrali coinvolti nella regolazione delle emozioni, le anomalie nei recettori e nei trasportatori di neurotrasmettitori, e il ruolo del glutammato e del GABA (Marije aan het Rot et al., 2009).
Cambiamenti strutturali nel cervello depresso
Il disturbo depressivo maggiore può presentare anomalie neurobiologiche che persistono anche durante la remissione clinica. Queste anomalie possono peggiorare nel tempo, portando alcuni pazienti a sviluppare una forma cronica della malattia. Il decorso può variare tra una variante recidivante-remittente e una progressiva.
Studi di neuroimaging mostrano che individui con episodi depressivi ricorrenti tendono ad avere ippocampi più piccoli anche durante la remissione (Sheline et al., 2003). Questa riduzione volumetrica, aggravata dalla ricorrenza della malattia e dalla mancanza di trattamento adeguato, potrebbe spiegare problemi di memoria e altri sintomi. Anomalie volumetriche sono state osservate anche in altre aree cerebrali, come l’amigdala, lo striato ventrale e la corteccia prefrontale (Konarski et al., 2008).
Questi cambiamenti possono persistere durante la remissione, contribuendo a una reattività cognitiva elevata verso stimoli minacciosi, che aumenta il rischio di ricadute future.
Quali possibili interventi?
Il trattamento della depressione maggiore si avvale di approcci terapeutici mirati, che prevedono la psicoterapia, oppure anche la combinazione di farmaci e psicoterapia per ottenere i migliori risultati in alcuni casi. Solitamente, gli antidepressivi, come gli SSRI, sono i farmaci di scelta. Questi aiutano a correggere gli squilibri chimici nel cervello, alleviando i sintomi depressivi e migliorando il benessere generale del paziente.
Trattamenti specifici come la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) mirano a spezzare i circoli viziosi e gli schemi di pensiero disfunzionali. Attraverso tecniche di ristrutturazione cognitiva, i pazienti imparano a riconoscere e correggere i pensieri automatici negativi, mentre strategie comportamentali promuovono il graduale coinvolgimento in attività per interrompere la spirale di inattività e autosvalutazione.
Inoltre, negli ultimi anni è emerso un crescente interesse per la Terapia Metacognitiva, che si concentra sui processi di pensiero ripetitivi e autoalimentanti, come la ruminazione, che mantengono la depressione. Questo approccio aiuta i pazienti a gestire meglio i pensieri negativi ripetitivi e a sviluppare modalità più salutari di affrontare le difficoltà emotive.
- American Psychiatric Association (2013): Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Washington, DC, American Psychiatric Assossation (5th ed.). Trad. it. DSM5: manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2014.
- R.H. Belmaker, Galila Agam (2008) Major Depressive Disorder. New England Journal of Medicine. 358 – 1 – 55-68.
- López-Echeverri, Y. P., Cardona-Londoño, K. J., Garcia-Aguirre, J. F., & Orrego-Cardozo, M. (2023). Effects of serotonin transporter and receptor polymorphisms on depression. Revista Colombiana de psiquiatria (English ed.), 52(2), 130–138.
- Hirschfeld RMA. History and evolution of the monoamine hypothesis of depression. J Clin Psychiatry2000;61(Suppl 6):4-6
- Sheline YI, Gado MH, Kraemer HC. Untreated depression and hippocampal volume loss. Am J Psychiatry 2003;160:1516-8.
- Konarski JZ, McIntyre RS, Kennedy SH, et al. Volumetric neuroimaging investigations in mood disorders: bipolar disorder versus major depressive disorder. Bipolar Disord 2008;10:1-37.
- Marije aan het Rot, Sanjay J. Mathew and Dennis S. Charney (2009) Neurobiological mechanisms in major depressive disorder. CMAJ February 03, 2009 180 (3) 305-313;