Ndr – dello stesso autore, su State of Mind, abbiamo precedentemente pubblicato altri due contributi sugli interventi per bambini con ADHD, ovvero: La presa in carico globale della persona con ADHD e Il parent training. La gestione familiare dell’ADHD
Giunti a questo punto della disamina sugli interventi realizzabili per i soggetti ADHD, è necessario –per ragioni di completezza scientifica– far riferimento a importanti dimensioni come quella cognitiva e metacognitiva che, generalmente, nelle persone con ADHD appaiono deficitarie in varia misura (Cornoldi et al. 2001).
La metacognizione e le strategie metacognitive
La metacognizione è la capacità del soggetto di distanziarsi dai processi o stati mentali e porsi in autoriflessione e automonitoraggio. Si tratta, dunque, di una capacità che trascende (meta) la cognizione e ha come scopo quello di rendere edotta la persona sui propri stati mentali. Interventi di didattica metacognitiva hanno il merito di promuovere nello studente con ADHD sia lo sviluppo di competenze trasversali quali l’attenzione, la memoria e il metodo di studio, sia competenze specifiche come la lettura, il calcolo, la comprensione del testo e la scrittura (Cottini, 2017). È ancora Cottini a rilevare che “l’approccio metacognitivo tende a formare la capacità di essere gestori dei propri processi cognitivi, dirigendoli attivamente con valutazioni e indicazioni operative personali” (Cottini, 2017). Si tratta quindi di un approccio assai utile per diverse situazioni di disabilità, rendendo il soggetto una sorta di capitano consapevole del proprio comportamento.
Potrebbe risultare assai utile tenere presenti le dieci caratteristiche distintive della persona che è in grado utilizzare al meglio le strategie cognitive e metacognitive (identificato con l’acronimo inglese “GUS” da Good User Strategy) messo a punto da Borkowski (Borkowski et al., 2011). Secondo l’autore uno studente dovrebbe:
- Disporre di un ampio ventaglio di strategie di apprendimento;
- Comprendere quale sia il momento più idoneo per metterle in atto;
- Saper scegliere le strategie secondo una capacità di pianificazione ben strutturata;
- Avere fiducia nella crescita delle proprie capacità mentali;
- Investire nell’impegno;
- Possedere una forte motivazione, essere orientato sul compito e padroneggiarlo;
- Non avere paura del fallimento;
- Poter disporre di varie “possibili immagini di Sé”;
- Avere una vasta conoscenza approfondita e ben strutturata e poter accedere ad essa in modo rapido;
- Poter contare sul sostegno dei genitori, della scuola e della società.
Come lavorare con alunni ADHD
Si tratta di un modello assai articolato e complesso, che è in grado di offrirci un ottimo quadro di riferimento circa le direzioni che è importante seguire –sotto il profilo pedagogico, didattico e di apprendimento– anche con lo studente con ADHD. In effetti, in questo modello sono contenuti una serie di fattori particolarmente importanti e che spesso risultano deficitari e compromessi nei quadri dell’ADHD come l’autostima, l’autoefficacia, le convinzioni attribuzionali, un’adeguata conoscenza di sé, la gestione ottimale delle proprie risorse e capacità.
Pertanto, dal punto di vista delle facoltà mentali, il lavoro cognitivo e metacognitivo con allievi ADHD deve dispiegarsi su quattro versanti: pianificazione, organizzazione, flessibilità e monitoraggio.
La pianificazione richiede diverse abilità cognitive quali la destrutturazione dell’obiettivo finale in varie componenti più gestibili, una corretta valutazione del tempo richiesto per portare a termine l’attività, la stima delle risorse necessarie per realizzarla (anche in termini di sforzo cognitivo necessario). Alcuni autori suggeriscono la possibilità di usare una simbologia facilmente comprensibile per rendere edotto il bambino della durata delle attività e del grado di difficoltà che si troverà ad affrontare. Un esempio assai utile potrebbe essere quello illustrato nell’immagine seguente. L’organizzazione richiede la strutturazione di un ordine di priorità così da promuovere una corretta esecuzione delle azioni necessarie.
Sulla flessibilità è importante insistere in modo assai particolareggiato tenendo presente che:
“La flessibilità cognitiva e comportamentale è alla base della capacità di spostarsi da un set di risposte a un altro, in relazione alle richieste del compito, e di interpretare le informazioni che provengono da fonti diverse. Questa capacità, denominata anche shifting, viene richiesta nella gran parte delle attività didattiche, per favorire la comprensione e il passaggio rapido da un piano generale a uno specifico o da una strategia a un’altra. Le difficoltà a questo livello sono evidenti in molti allievi con BES e vanno oltre il deficit mentale. Si pensi, ad esempio, all’allievo con deficit di attenzione e iperattività che tende a perseverare in strategie di risoluzione di problemi del tutto inefficaci” (Cottini, 2017, pp. 251-252).
Infine, l’automonitoraggio è una capacità esecutiva preposta all’autovalutazione del proprio operato e all’individuazione degli errori commessi. In questa prospettiva è importante che l’allievo venga aiutato nell’autocomprensione del proprio funzionamento. Si tratta di un passaggio assai complesso che non può non adeguarsi alle capacità di comprensione del soggetto. Educatori e insegnanti, pertanto, devono quindi fornire dei “feedback sulle prestazioni dell’alunno” e stimolarlo ad “indagare aspetti connessi al modo in cui i compiti sono condotti e i processi personali vengono attivati” (Cottini, 2017). Questi feedback servono a “stimolare un’autoanalisi sui processi cognitivi implicati” (Cottini, 2017).
Innanzitutto, è essenziale che educatori e insegnanti lavorino sulle capacità di problem solving del bambino iperattivo e disattento. Il soggetto dovrà acquisire e consolidare man mano le seguenti capacità:
- Riconoscimento del problema;
- Pianificazione e organizzazione del piano di lavoro per la sua risoluzione;
- Verifica finale del lavoro svolto.
Un lavoro sul secondo punto è finalizzato all’ipercompensazione dei deficit delle funzioni esecutive –tipiche, come abbiamo visto, dei soggetti ADHD–; mentre un intervento sul terzo punto è finalizzato al consolidamento delle capacità autoriflessive e attentive, assai carenti in questi quadri neuropsichiatrici.
Al fine di migliorare le capacità metacognitive, invece, particolarmente efficace risulta il training di autoistruzione verbale che è finalizzato all’acquisizione e al consolidamento di un efficace dialogo interno che risulti in grado di orientare e direzionare il comportamento.
È previsto che ogni insegnante, inoltre, si impegni in una sorta di addestramento del bambino alla gratificazione personale e all’auto-valutazione. La persona, cioè, deve progressivamente imparare ad auto-gratificarsi per interrompere la dipendenza dalle gratificazioni degli adulti di riferimento.
È importante che il soggetto rompa l’automatico riconoscimento nell’immagine di se stesso che si è costruito nel tempo, a seguito di reiterati richiami, rimproveri e punizioni. Solitamente il soggetto ADHD si riconosce in questo ruolo e finisce per autopercepirsi come un soggetto destinato irrimediabilmente ai panni –peraltro assai alienanti– “dell’elemento di disturbo, della mina vagante, dell’incapace cronico”.
Non si tratta di un compito facile, e le possibilità di riuscita aumentano se gli interventi in questa direzione vengono realizzati precocemente, quando cioè l’immagine di sé non è ancora così strutturata. Spesso gli aspetti positivi dell’individuo con ADHD sono poco valorizzati. Il compito dell’insegnante, pertanto, è quello di riuscire ad individuare questi elementi positivi, grazie proprio alle accurate osservazioni delle quali si parlava sopra, e a valorizzarli e rinforzarli. È anche vero che nella pratica effettiva per gli insegnanti è complesso riuscire a costruire un buon equilibrio tra l’evitamento dei rinforzi negativi e la promozione dei comportamenti positivi. Nella logica dell’inclusione, infatti, risulterebbe inappropriato estromettere il soggetto con ADHD dall’ambiente della classe. Non soltanto aumenterebbe il senso di alienazione del soggetto stesso, ma si verrebbe meno allo scopo stesso dell’inclusione, tornando ad esacerbare le differenze tra soggetti normali e soggetti pericolosi per la quiete della classe. D’altra parte, però, l’inclusione a tutti i costi potrebbe determinare anche un incremento dello stress dovuto principalmente al fatto di dover riuscire a tenere insieme, nello spazio ridotto dell’aula, uno studente con il resto della classe. Il rischio è ambivalente: da un lato, infatti, i compagni potrebbero fungere da rinforzo negativo dei comportamenti del soggetto con ADHD (ciò vuol dire che i compagni più turbolenti potrebbero rinforzare i comportamenti inadeguati dello studente con ADHD provocando condotte inopportune e disturbanti). Per converso, anche il soggetto in questione potrebbe mettere in atto comportamenti disturbanti in grado di far distogliere l’attenzione ai compagni.
Bisogna perciò che l’insegnante comprenda che ogni qualvolta interrompe innervosito per riprendere il bambino con ADHD in qualche modo agisce da rinforzo negativo, consentendo al bambino stesso di sperimentare una sorta di successo della sua azione disturbante (Marzocchi, 2003).
Ancora: l’insegnante agisce da rinforzo negativo anche quando propone la realizzazione di un desiderio del bambino iperattivo per placarne l’azione di disturbo (ciò accade, ad esempio, se l’insegnante troppo accondiscendente accetta che gli studenti siano impegnati con i propri cellulari, onde evitare chiasso e turbolenze). Si tratta di una concessione che al momento dà l’illusione di raggiungere l’obiettivo (che può essere il silenzio oppure l’ordine della classe, o anche la neutralizzazione di un comportamento potenzialmente pericoloso), ma che dal punto di vista psico-pedagogico risulta controproducente, dal momento che è come se il docente contrattasse (e accontentasse) con la parte patologica del soggetto, ai danni della parte sana. In altri termini: è come se l’insegnante si alleasse con il disturbo del soggetto.
Conclusioni
La trattazione appena conclusa ha mostrato la complessità del disturbo dell’ADHD e soprattutto l’impossibilità di ridurre questa condizione neuropsichiatrica ad un mera e superficiale tendenza alla disattenzione.
Ci troviamo di fronte, invece, un disturbo assai pervasivo in grado di poter ostacolare la vita dell’individuo in tutte le sue dimensioni, se non trattato. Come per ogni disturbo neuropsichiatrico, anche per l’ADHD risolutivo è l’approccio multimodale, fondato, come abbiamo visto, sul principio ontologico ed epistemologico della complessità.
Più è pervasivo il disturbo arrivando ad intaccare più aree della vita di una persona, più è necessario che la rete di interventi sia adeguata ad affrontare situazioni così prismatiche e articolate. È quindi importante costruire una rete di interventi in grado di arginare i comportamenti problema, di riorganizzare la vita del soggetto, di impedire la realizzazione di atteggiamenti pericolosi e di donargli la percezione di essere un soggetto capace di padroneggiare le proprie scelte e la propria vita (nella misura del possibile e considerando i limiti e le capacità relative all’età anagrafica del soggetto di cui ci si prenda cura).
Nessun approccio eccessivamente analitico e selettivo, da solo, è in grado di giungere all’obiettivo sperato. Ad oggi, ad esempio, i farmaci più utilizzati per l’ADHD sono l’atomoxetina e il metilfenidato, entrambi autorizzati in Italia fin dal 2007. Questi farmaci (inibitori e stimolanti) possono essere prescritti dal neuropsichiatra solo dopo un’accurata anamnesi, dopo aver consultato i genitori, valutato attentamente e scrupolosamente tutto il quadro ed escluso la presenza di altre malattie potenzialmente pericolose (come quelle a carico del sistema cardiocircolatorio). Per questi farmaci anche gli effetti collaterali sono molto limitati, alla sola condizione però che il loro dosaggio sia perfettamente stabilito tenendo conto di tutti gli altri parametri. Tuttavia, l’azione psicofarmacologica da sola risulterebbe insufficiente se intorno al bambino iperattivo non si creasse una rete di interventi educativi, psicosociali e terapeutici in grado di lavorare su ogni aspetto dimensionale del soggetto (Taylor et al., 1996). In particolare, ricapitolando quanto già è emerso nel corso dell’articolo, è su questi aspetti specifici che bisogna intervenire in modo continuo, sinergico e perseverante:
- Problem solving: riconoscere il problema, generare soluzioni alternative, pianificare la procedura per risolvere il problema;
- Autoistruzioni verbali: questo è target assai importante degli interventi psicoeducativi, finalizzato all’acquisizione di un dialogo interno che guidi alla soluzione delle situazioni problematiche;
- Stress inoculation training: indurre il bambino/adolescente ad auto-osservare le proprie esperienze e le proprie emozioni, soprattutto in coincidenza di eventi stressanti e, successivamente, aiutarlo ad attuare una serie di risposte alternative adeguate al contesto. L’acquisizione di queste risposte alternative ha l’obiettivo di sostituire gradualmente gli atteggiamenti impulsivi e aggressivi (tratto da Linee guida SINPIA, 2002, 24 giugno 2002, p. 19).
È essenziale, dunque, che intorno al bambino si crei una pluralità di interventi che, nel pieno rispetto della sua persona, lo aiutino a iper-compensare le deficienze che il disturbo neuropsichiatrico in questione ha creato in termini di attenzione, controllo degli impulsi, padronanza della condotta, pianificazione e realizzazione delle attività. Per questo è assai importante che nessun intervento abbia la supremazia, ma che ognuno di essi si incastri con gli altri in un’ottica di sinergia profonda positivamente rinforzante. Ad esempio è stato sottolineato come l’efficacia della terapia cognitivo comportamentale (CBT) nei bambini iperattivi può essere incrementata qualora sia associata con altre tecniche “come la ripetizione di nuove abilità dentro e fuori il setting clinico”, grazie “al sistema di rinforzo” degli adulti “dei comportamenti socialmente appropriati” (Linee guida Sinpia, p. 8).
Non si può ignorare, infine, anche l’importanza di reti di intervento più vaste nelle quali i genitori di bambini con ADHD possono trovare aiuto, supporto e orientamento. Per ragioni di completezza riporto qui le più importanti, con la ferma consapevolezza che tali associazioni rivestano un ruolo di primo piano nell’economia complessiva della presa in carico del soggetto con questo disturbo. Innanzitutto, è importante menzionare L’associazione italiana famiglie ADHD (Aifa Onlus) che è nata il 5 ottobre 2002 per iniziativa del pediatra Raffaele D’Errico e sua moglie Giulia D’Errico. È un’associazione costituita da psicologi, medici, psicopedagogisti, insegnanti, educatori e operatori. Le finalità di Aifa Onlus sono assai nobili: solidarietà sociale, aiuto, sostegno e divulgazione scientifica. E ancora, tra gli scopi vanno annoverati il coordinamento tra le figure professionali e tra le famiglie con problemi di ADHD, oltre alla ricerca di coinvolgimenti con gli Enti locali e statali. Vale la pena menzionare anche L’associazione italiana disturbi di attenzione/iperattività (Aidai), che è nata in Italia nel 1998 proprio come supporto delle persone con ADHD. L’idea è nata da un’intuizione di Cesare Cornoldi e dal Servizio di neuropsichiatria dell’Asl di San Donà di Piave. Nel tempo questa associazione si è estesa, e dal 2005 ha modificato il proprio statuto per costituire due distinti comitati: il Comitato scientifico e il Comitato scolastico, formato da Dirigenti e operatori scolastici. Tra i suoi scopi compaiono la divulgazione scientifica in materia di ADHD e la promozione di ricerche in sinergia con le università interessate. Inoltre, l’associazione svolge un ruolo di supporto fornendo informazioni a genitori, insegnanti e adulti che si relazionano con soggetti con ADHD e organizzando congressi e incontri formativi (cfr. Marzocchi e Borganzone, 2019, pp. 147-149).
Nessuna persona con ADHD è dunque sola e soprattutto nessuna è destinata a vivere per sempre nel ruolo sociale assai alienante di “elemento di disturbo”. Il disturbo, per quanto pervasivo e limitante, si può –e si deve– gestire con accorgimenti e interventi che coinvolgano la persona nella sua interezza e che rispettino le sue caratteristiche trovando la soluzione migliore per un’adeguata compensazione dei deficit attentivi e dei comportamenti disfunzionali.