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Esperienza artistica e mente incarnata – Il dare forma in Terapia espressiva

Le terapie espressive, attraverso l'uso dell'arte e del movimento, permettono alle persone si sentirsi rispecchiate e di avvicinarsi a vissuti dolorosi

Di Guest

Pubblicato il 31 Mag. 2019

Nella pratica delle Terapie Espressive la creazione artistica aiuta a dare forma e parola all’esperienza interna, facilitando l’incontro e il confronto con la realtà affettiva, incarnata, della propria e altrui mente.

Lorena Garzotto

 

Un intervento integrato di Arte Terapia e Danzamovimento Terapia sostiene i pazienti con difficoltà di regolazione emotiva a contattare stati emotivo-sensoriali perturbati e frammentati, a oggettivarli, tollerarli, e infine a modularli, rinforzando il senso di sé e la capacità di pensare e sentire allo stesso tempo.

Keywords: terapia espressiva, gruppo, mente, disregolazione, borderline

 

Terapie espressive e mente incarnata

Certo, ciò che palpita così in fondo a me dev’essere l’immagine, il ricordo visivo, che, legato a quel sapore, tenta di seguirlo fino a me. Ma si agita in modo troppo confuso; percepisco appena il riflesso neutro in cui si confonde l’inafferrabile turbinio dei colori smossi; ma non so distinguere la forma… (Proust, Alla ricerca del tempo perduto. La strada di Swann: Combray)

Le parole dei poeti sanno comunicare l’intensità e le sfumature dell’esperienza interiore. Perché è talvolta difficile descrivere l’inafferrabile turbinio dei colori smossi, dare voce e forma a ciò che accade internamente: immagini, frammenti di pensiero, sensazioni, stati fisici e mentali, non sono sempre facili da districare e definire. Ciò è particolarmente problematico per le persone emotivamente disregolate (che possono avere una diagnosi di disturbo borderline, disturbo post-traumatico, disturbo dissociativo), ma le loro reazioni estreme ci aiuteranno a chiarire e comprendere i processi attivi in ognuno di noi. Sostengo qui che le forme estetiche della creazione artistica, legate al corpo e ai sensi, alle forme primitive del mentale, all’esperire in prima persona (Varela et al., 1991), possono costituire un mezzo privilegiato di accesso alla mente e al sentire, per trovare una maggiore distanza e capacità di pensare, per organizzare e comunicare la propria esperienza interiore in modi più articolati e mentalizzati. I linguaggi espressivi, ricchi di sensorialità ma anche di ‘senso’, rispecchiano l’incerto, lo sfumato, e aiutano a connettere il sentire e il pensare; contemporaneamente offrono materiale per la narrazione di sé (Robbins, 1998; Della Cagnoletta, 1998) e sostengono quindi la capacità riflessiva.

Benchè ci proviamo da lungo tempo è infatti complicato capire cosa c’è nella mente (Allen e Fonagy, 2006): poiché la conosciamo attraverso la nostra stessa mente, essa non può essere “oggettivo” oggetto di studio, ma porta sempre tracce della nostra soggettività. Conosciamo allo stesso modo le menti altrui, di cui dobbiamo inferire intenzioni e convinzioni, soprattutto quando funzionano in modo molto diverso dalle nostre:

in quanto clinici a orientamento psicodinamico noi mentalizziamo continuamente […]. Questo rende particolarmente difficile la comprensione di quelle persone che hanno una capacità di mentalizzazione limitata, che non utilizzano la loro capacità per comprendere gli altri in quanto entità mentali distinte, o che costruiscono rappresentazioni distorte, confuse e che confondono gli stati mentali propri e degli altri (Bateman e Fonagy, 2004, p. 73).

La mente qui non viene intesa come funzione meramente cognitiva ma come realtà incarnata, emergente dalla sensorialità, dall’affettività intersoggettiva. E se partiamo dal presupposto che essa è

il risultato delle esperienze evolutive del corpo (Allen e Fonagy, 2006, p. 14)

incorporata nell’intero organismo e radicata nel mondo (Damasio, 1999), il corpo ci può aiutare a trovare una strada per conoscerla, rinsaldarla, e per riacquistare fiducia nelle sue capacità. Le neuroscienze usano la bella espressione psiche incarnata, embodied, e mettono in risalto la centralità del corpo nell’esistere e nel pensare, come anche la sua funzione regolatrice dell’esperienza sensomotoria, delle emozioni, e della cognizione (Gallese, 2009; Schore, 2003).

Conosciamo e riconosciamo bottom up: sensazioni, percezioni, ritmi, gesti precedono il pensiero e il linguaggio e li fondano (Iacoboni, 2008), informandoci rispetto a un modo possibile di intendere il mondo e attribuire significati e valori (Macagno, 2013, p. 9).

Gesti come l’afferrare (un oggetto, un concetto) ci mettono in rapporto al mondo prima del pensiero e della parola, permettendoci di incorporarlo.

Terapie espressive psicodinamiche e processo del dare forma

In questa prospettiva le Terapie Espressive (TE) (2) offrono strumenti preziosi per contattare l’esperienza del paziente, e per ripercorrere o ricreare quel passaggio così indefinito tra esperienza e pensiero, tra corpo e mente: esse facilitano il processo di creazione attraverso linguaggi che appartengono a quel limitare, che sono in contatto con l’informe, il disorganizzato, il vuoto, ma hanno anche la capacità di organizzare, attraverso il corpo e le immagini, il flusso di impressioni, di stati indifferenziati, impulsi, verso una forma significativa e condivisa. Le parole di Proust raccontano mirabilmente quegli stati intermedi, i percorsi sensoriali del nostro essere-nel-mondo, carico di memorie, percezioni, emozioni: percorrere quei sentieri è un modo di lasciare che qualcosa emerga, “tocchi la superficie” e arrivi alla coscienza. L’arte espressiva, integrando esperienza e sua rappresentazione e comprensione, tiene insieme diverse modalità di pensiero. Perché ogni linguaggio, come la danza, la pittura, il teatro, la musica, la poesia, ha un doppio registro, quello cognitivo-conoscitivo, più verbale, narrativo, e quello più immaginativo, sensoriale, emotivo, collegato all’inconscio corporeo. Un atto artistico-creativo può dare accesso a livelli profondi, intuitivi, a forme di conoscenza di sé, della propria storia e anche della propria sofferenza psichica (Alessandrini, 2010), una conoscenza incarnata, quindi integrata. Schore (2011) sottolinea come “l’intuizione è collegata all’inconscio, ed è spesso affidabile ed accurata. Deriva da rappresentazioni implicite immagazzinate, come immagini, sentimenti, sensazioni fisiche, metafore (notare la somiglianza con cognizione del processo primario). L’intuizione è espressa non in linguaggio letterale, è incarnata in un ‘sentire di pancia’” (p. 88, mia trad.).

Terapie espressive: il valore dell’integrazione

Questa integrazione di diversi livelli di esperienza è da sempre patrimonio delle Terapie Espressive (TE). Arte terapia, Danzamovimento Terapia, Teatroterapia, Musicoterapia, ecc., mettono insieme il creare con il sentire, il riflettere, l’ascoltare. Affondano le radici nel bisogno antichissimo dell’essere umano di conoscere il mondo e di crearne di nuovi, di parlare di sé, di creare bellezza e di goderne, e di condividere nel gruppo. Nelle danze tribali e nelle caverne, nel grezzo contenitore decorato di piccoli segni belli la mente umana ha sempre creato e rappresentato se stessa e la propria visione del mondo prima ancora del linguaggio (Boccalon, 2010). Questo bisogno di esprimere e creare è stato integrato nella pratica teorico-clinica delle Terapie Espressive come potenziale terapeutico e riabilitativo, e il mezzo artistico-espressivo è diventato strumento di relazione terapeutica, di analisi e intervento. L’espressione grafico-pittorica, corporea, sonora, permette di esprimere qualcosa senza averla già chiara in mente (Waller, 1993), e aggirando le difese del codice verbale, offre una forma a contenuti mentali ancora privi di lessico. E’ quindi un oggetto esterno, di cui si può parlare in quanto accessibile ai sensi e alla coscienza. La creazione, osservata insieme, interrogata nella concretezza della sua estetica (forma, energia, intensità, colore, tratto, spazialità), è un polo che sollecita risonanze, pensieri, ulteriori esplorazioni e possibili trasformazioni: l’immagine, come la danza, ha infatti caratteristiche del reale, ma è anche non reale, e può essere modificata (Luzzatto, 2009, p. 138). Stando dove i pazienti si trovano, cercando di sentire, accogliere, contenere il paesaggio sovraccarico, o apparentemente vuoto, il terapeuta espressivo esplora insieme a loro la possibilità di esprimere creativamente in modo essenziale e tollerabile ciò che sentono, delineandone così i confini. Perché in fondo, anzi in principio,

dare e prendere forma è un bisogno primario del Sé in quanto espressione della sua tensione alla permanenza e della sua personale ricerca di equilibrio tra essere e divenire, tra stabilità e cambiamento (Belfiore, 1998, p. 19).

Il fare delle Terapie Espressive comporta il muoversi nello spazio, il dare origine a qualcosa, comporta il sentire, il pensare, l’emozionarsi: l’offerta di esperienze, di materiali artistici, di oggetti, porta attenzione al sentire attraverso il creare, piuttosto che al prodotto, è al servizio del processo di sperimentazione di sé e di autoconoscenza. Il fare esperienze, siano esse quotidiane, o spirituali, emotive, cognitive, fisiche, interpersonali, avviene nel corpo, col corpo, ed ha a che fare col qui e ora. Il corpo è il luogo in cui tutto avviene, è una trama sottesa a tutte le interazioni e le creazioni: anche l’utilizzo di materiali artistici, o materiali usati “artisticamente”, di suoni, permette di “danzare”, di esprimere una certa attitudine, di parlare di sé, nel guardarli, nello sceglierli, nel raggiungerli, nel lasciare tracce, nel manipolarli, nel respingerli, nel passarli ad altri. Gesti e ritmi, il modo in cui il paziente si rapporta allo spazio della stanza e del foglio, ai materiali, agli altri, a sé, costituiscono già una narrazione, un’informazione. La metodologia delle Terapie Espressive si può sintetizzare con: fare esperienza sentita attraverso il corpo-movimento, i materiali, osservare/osservarsi, riflettere, interrogarsi condividendo. In un ambiente “sufficientemente buono”, che accoglie e contiene, il creare forme estetiche attiva la sensazione di esistere radicata nel corpo che precede il senso di sé (Winnicott, 1965), e rinforza il sé agente (Stern, 1985, Allen e Fonagy, 2006). Il processo creativo può essere trasformativo in modo subliminale, preconscio, in quanto le forme che emergono aprono di per sé possibilità espressive nuove; ma qui mi soffermerò in particolare sulla funzione mentalizzante (come capacità di accedere alla propria e altrui mente) delle Terapie Espressive con pazienti che presentano dei deficit in questa capacità. Presenterò esperienze di gruppo (3), che cercano di integrare la visione psicodinamica attenta agli stati primitivi, al simbolico, alla consapevolezza, e alla relazione, con apporti cognitivisti.

Terapie espressive: uno degli obiettivi è la mentalizzazione

Come osserva Gabbard, uno dei compiti della psicoterapia è creare un senso della mente nel paziente (2006): da questo punto di vista le Terapie Espressive a indirizzo psicodinamico hanno una posizione speciale, per la loro capacità di muoversi tra processi inconsci e consapevolezza, tra corporeità e pensiero, e di facilitare l’incontro col mentale, non solo osservandolo, ma ‘vedendolo all’opera’. La consapevolezza è il sentire, o riconoscere, che qualcosa sta succedendo dentro il proprio corpo, quella che Damasio chiama “the feeling of what happens” (1999), capacità che chiede un testimone interno per osservarsi. Mentalizzare ha a che fare con

una comprensione ‘vissuta’ dei propri sentimenti, che includa e superi la consapevolezza intellettiva (Allen e Fonagy, 2008, p. 8)

un’attitudine non puramente “mentalista”, perché coltiva l’essere presenti, essere osservatori e agenti del processo di creazione, stando contemporaneamente nel flusso dell’esperienza.

Terapie espressive: esperienze vissute

Una giovane paziente, Michela, comunica sia verbalmente sia col corpo (piedi incrociati, gambe chiuse, braccia davanti all’addome, kinesfera 4 ristretta) il suo grande disagio rispetto allo stare in gruppo e a muoversi. Dopo aver parlato brevemente di come il corpo racconti le nostre storie, i nostri blocchi, e dopo che le altre hanno espresso difficoltà nella sua accettazione, e hanno nominato il chiudersi, proviamo a fare un (apparentemente) semplice lavoro di ascoltare e sentire il corpo nella sua fisicità: prestando grande attenzione alla tollerabilità di questa esperienza diretta propongo prima di percepire la propria postura da seduti, poi una camminata per sentire piedi, ginocchia, lo spostamento del peso, delle anche. Lavoriamo quindi sul chiudere-aprire della testa, delle spalle, della spina dorsale, e chiedo di associare a stati d’animo, pensieri, immagini. Infine metto una musica su cui possibilmente a occhi chiusi, per evitare sguardi facilmente percepiti come giudicanti, i pazienti possono creare individualmente i propri movimenti di chiusura-apertura. Notando la bella intensità della loro danza chiedo se si sentono di guidare il gruppo scegliendo una piccola sequenza, questa volta naturalmente guardandosi, quindi esponendosi. Nel dover scegliere un pezzo e riproporlo si attiva la loro capacità di creare e osservarsi, di stare dentro all’esperienza ma anche di mentalizzarla. Nel guidare le danze nel gruppo si crea uno scambio sentito, di movimenti autentici, che mi emozionano. Ma una cosa interessante è che Michela esprime solo la polarità dell’estrema chiusura, si accuccia a terra e nasconde la testa tra le ginocchia. Senza sofferenza, ma con intenzione consapevole, come vedremo poi nella riflessione finale, quando validata su questa scelta, dirà che aveva paura che fosse sbagliato quello che faceva, ma era quello che sentiva. Sentire di che cosa il nostro corpo-mente ha bisogno è un grande passaggio di consapevolezza, permettersi di seguirlo è una grande validazione di sé, nel segno della fiducia. La danza di Michela, il suo gioco, hanno chiarito un suo bisogno, e hanno dato occasione al gruppo di riflettere sull’importanza di concedersi ascolto, accettazione, e scelta.

Terapie espressive: dalla concretezza dell’esperienza al pensare.

In un tempo di feconde connessioni tra diverse branche del sapere, tra neuroscienze e psicologia, corpo e mente, filosofia e scienze sociali, questo articolo nasce dal fascino che esercita su di me il tema del confine, delle trasformazioni, dei passaggi tra sensorialità e mente, delle diverse forme che può assumere il mondo interno nel suo rappresentarsi artistico. Ma definire il modo in cui avviene il passaggio al simbolico nel lavoro con le Terapie Espressive, inciampa in enormi difficoltà linguistiche. Il linguaggio, pur generato

da memorie procedurali di esperienze radicate nell’esperienza corporea (Fonagy e Target, 2007, p.19)

reifica infatti l’immediatezza del sentire e se ne distanzia necessariamente: dalle strutture corticali, più ‘alte’ ed elaborate, stenta a rendere la vaghezza dell’esperienza soggettiva, balbetta nel dare parola all’ineffabile/sfuggente del protomentale, alle esperienze sensomotorie, alle variazioni degli stati di coscienza di cui è fatto il vivere, in normalità e in patologia. Nell’indagare il passaggio tra corpo vissuto e mente, il pensiero logico astratto forse aiuta poco, il racconto dell’esperienza offre un sentiero. Tratto quindi il tema della funzione dei linguaggi espressivi come accesso al mentale anche attraverso esempi di lavoro integrato di Arte e Danzamovimento terapia con gruppi di pazienti che presentano gravi deficit nella capacità di riconoscere gli stati mentali, di stare in contatto con sé, con gli altri, con il corpo, e utilizzano modalità disadattive per gestire stati estremi di attivazione emotiva, come già raccontato con Michela.

In una proposta in cui i pazienti potevano creare una forma (senza altre indicazioni) a partire da materiali di vario genere, una paziente, che mi colpiva per certe sue attitudini corporee sconnesse, frammentate, prive di un centro corporeo organizzatore, scelse del filo di ferro per realizzare una matassa aggrovigliata, su cui poi a fatica cercava di applicare dei fermagli aperti con la punta rivolta all’esterno. Disse che la matassa doveva difendersi dal mondo. Mi sembrava la metafora di un sé che cercava una forma che lo organizzasse e un materiale che lo proteggesse, ma che nell’avvilupparsi si manifestava pieno di aperture, impossibile da difendere. Era probabilmente la rappresentazione di una difesa da vissuti di intrusione legati ad abusi precoci, subiti in una relazione primaria di tipo neglect e abusante, con cui la paziente stava entrando in contatto a frammenti. Non è stato possibile affrontare il tema portato in quel momento per la brevità del ricovero e la mancanza di sufficienti continuità e fiducia per lavorarci, ma osservo che una rappresentazione sintetica e significativa come questa può aprire molte possibilità di riflessione e di consapevolezza, vicine al ‘senso’ del paziente. Nel rappresentare qualcosa che neppure lei conosceva, la paziente aveva dato vita ad una forte immagine personale, perché, come dicono Allen e Fonagy (2006), la mente è fondamentalmente immaginativa […] e il mentalizzare è una forma di attività immaginativa, […] che ci introduce in un regno che sta tra la realtà oggettiva e la fantasia” (p. 51).

Terapie espressive: disregolazione emotiva e funzione riflessiva

Mi dondolavo chiusa
come conchiglia.
Dovettero chiamare e chiamare
e staccarmi via i vermi come perle appiccicose.
Morire
è un’arte, come ogni altra cosa

(Sylvia Plath, Lady Lazarus 1981)

Vivere, e sentire, può essere così intenso da fare male a chi è senza “pelle emotiva” (Linehan, 1993). Possono bruciare uno sguardo, una parola, o la loro mancanza. Rapidamente travolti dagli stati emotivi e dall’incandescenza delle sensazioni, i pazienti con grave disregolazione emotiva, spesso diagnosticati come borderline, non riescono a rappresentare e comunicare verbalmente gli stati mentali, e li gestiscono con comportamenti impulsivi, autolesivi o disorganizzati. Anche modalità di funzionamento più evolute possono regredire verso reazioni più disadattive nei momenti accesi. I pazienti con PTSD (disturbo da stress post-traumatico) possono passare dall’evitamento più totale di emozioni, ricordi, sensazioni, legati a eventi traumatici, per paura di tornare a riviverli, all’esserne completamente travolti al punto da non riconoscere che sono avvenuti nel passato. E’ molto importante per loro acquisire abilità di riconoscimento, distanza, gestione, come anche accettazione e non giudizio, perché la loro reazione è stata adattiva, la migliore che hanno saputo trovare allora. L’espressione artistica che non è valutata per il prodotto ma per quello che racconta di sé, ha una grande valenza da questo punto di vista.

Regolare le emozioni, in particolare gestire affetti intensi, è fondamentale per avere accesso alla funzione riflessiva (Garzotto, 2016). Questo implica concepire se stessi e gli altri come dotati di stati mentali, cioè credenze, bisogni, desideri, sentimenti: compito complesso per gli esseri umani, ma necessario per coltivare l’attenzione, l’autoregolazione e la competenza sociale (Bateman e Fonagy, 2004), per comprendere il comportamento proprio e altrui e vivere in modo adattivo. La mente è una costruzione intersoggettiva, una conquista evolutiva, che coinvolge profondamente il corpo nei suoi aspetti simbolici e presimbolici. La prima tappa della sua formazione è già nel neonato: la capacità di discriminare per somiglianze e differenze, di costruire schemi sensomotori, scoprendo, attraverso la risposta contingente del care giver, l’effetto delle proprie azioni sul mondo fisico. Attraverso vie transmodali (sensorialità tattile, gestuale, visiva cinestesica) (Stern, 1985), che sono anche neuronali (Gallese, 2009), all’interno della relazione primaria emerge l’embrione del sé corporeo separato, dell’intenzionalità, e della mente (Stern, 1985; Bateman e Fonagy, 2004). Il bambino inizia precocemente a fare ipotesi su di essa sulla base sicura di un care giver che tiene a mente (Allen e Fonagy, 2006). La storia di accudimento carente o disorganizzato che troviamo spesso nell’anamnesi dei pazienti disregolati, si correla a gravi deficit nella capacità riflessiva. Per Bateman e Fonagy (2004) la

presenza latente di un’espressione più primitiva della soggettività governata da modalità di rappresentazione di stati interni e da un tipo di relazione tra l’interno e l’esterno che è possibile osservare normalmente nel funzionamento mentale dei bambini piccoli, […] insieme a una disorganizzazione profonda della struttura del Sé, spiegano molte caratteristiche della personalità borderline (p. 133).

La mancanza o la labilità di un filtro che consenta di contenere ed elaborare le esperienze spiega a loro avviso l’intenso transfert, la forte impulsività, soprattutto autodiretta, gli stati di disforia, la disregolazione, e il fallimento della mentalizzazione: tutti aspetti che costituiscono un problema per il paziente e una sfida per i clinici. Per le neuroscienze in tale fallimento è coinvolta la disconnessione della corteccia prefrontale, che presiede alla valutazione, alla decisione, al controllo, per cui i pazienti restano in balia di attivazioni sensoriali e di sequestri emozionali. La capacità di prestare attenzione in modo intenzionale è una delle funzioni colpite dal trauma interpersonale, per cui i pazienti perdono la capacità di stare nel corpo, vivono solo nell’esterno, in uno stato di sovraeccitazione, oppure si perdono dentro, si isolano, si deprimono (A. Grey, comunicazione personale).

Ma superando una visione strettamente psicopatologica, possiamo dire che il disturbo borderline non rappresenta solo una patologia individuale: le sue manifestazioni disregolate e impulsive rispecchiano un profondo disagio sociale delle cosidette civiltà avanzate, che si esprime nell’ “isterizzazione” del vivere contemporaneo, dei legami, del comunicare, in cui la ricerca di eccitazione, di riempimento, prevale su ascolto, tenerezza, relazione, sul vuoto buono che permette di soffermarsi e pensare (Correale, 2007).

Nella clinica, il vissuto del vuoto che spesso caratterizza i pazienti borderline richiama la mancanza di buoni oggetti interni, la carente funzione di simbolizzare, di sentire se stessi come dotati di una mente che con-tiene. Un lavoro sensomotorio, in direzione bottom-up, in questi ultimi anni viene sempre più considerato necessario per accedere a funzionamenti primitivi, difficilmente raggiungibili dalla parola (Ogden, 2006). Nel vuoto di un lessico smarrito o mai nato, in Terapia Espressiva portare attenzione alla sensorialità, lasciare un segno, o far parlare il proprio corpo in una danza, una forma, attiva uno spazio mentale per sentire, sentirsi, pensare, prestare attenzione. Il fare della creazione artistica è una dimensione potente, perché coinvolge tutte le aree della persona.

Terapie espressive: il potere delle relazioni e del rispecchiamento

Nella relazione terapeutica il rispecchiamento e il gioco hanno una parte fondamentale, costituiscono materiale di ‘prima mano’ nel lavoro in TE: nel rispecchiare attraverso la sintonizzazione intermodale (Stern, 1985) il terapeuta intenzionalmente ma anche attraverso intuizioni della sensibilità somatica incontra l’altro nel luogo in cui si trova, nei materiali, nei segni e nei gesti, nella postura, nello sguardo, nel silenzio, nel respiro, nella direzione del corpo nello spazio, nella qualità del movimento, nella parola incarnata, che diventano potente validazione emotiva. E’ la presenza di una mente che dà credito alla mente dell’altro:

Possiamo considerare la sensibilità a espressioni facciali comunicative come una forma prototipica di mentalizzazione implicita (Bateman e Fonagy, 2004, p. 98).

Il rispecchiamento, pratica elettiva delle Terapie Espressive confermata dalle scoperte delle neuroscienze (Berrol, 2006), offre l’esperienza di essere visti e ascoltati, da una distanza che rispetta la separatezza, e un modello per gestire e modulare stati potenzialmente destabilizzanti. La sintonizzazione affettiva in terapia e nello sviluppo modula le emozioni negative, ma ha anche l’importante funzione di generare e amplificare emozioni positive (Schore, 2003). Fiducia ed empatia si basano su sistemi di autoregolazione basilari nelle relazioni, il flusso di forma e di tensione5, usati in Danzamovimento terapia per sintonizzarsi attraverso le variazioni della forma del corpo (adjustment), che sostiene la fiducia reciproca (Kestenberg, 1990), e del tono muscolare (attunement) che sostiene l’empatia. Dal proporsi “simile a te” vengono poi introdotte eventualmente variazioni, che portano possibilità nuove di movimento ed espressione.

Il fare arte è un’attività profondamente legata al gioco, attività umana primaria nel processo di dare origine alla mente; la dialettica tra mondo interno ed esterno (Stern, 1985; Belfiore e Colli, 1998) che prende forma nell’area transizionale (Winnicott, 1971) permette nel corso dello sviluppo di arrivare a differenziare la realtà dal fare finta (Bateman e Fonagy, 2004). Ma c’è qualcosa di più, che avviene a livello neuronale e ci accompagna in tutta la nostra vita di relazione. Il neuroscienziato Stephen Porges (2013) nella teoria polivagale parla di funzione sociale e regolatoria del gioco, “esercizio neurale” di co-regolazione dello stato fisiologico e dell’ingaggio sociale, caratterizzato da reciprocità, vocalizzazioni prosodiche, vicinanza e contatto fisico, dall’alternarsi di movimento e immobilità, dalla presenza di pause dinamiche caratteristiche degli scambi madre-neonato ma anche della danza. In particolare la sua dimensione “faccia a faccia” ha la capacità di ridurre le primitive reazioni difensive attacco-fuga, o lo spegnimento (che ci accomunano agli altri animali nell’ancestrale cervello rettiliano), e di rassicurarci di essere al sicuro, di poter entrare nella dimensione sociale dell’immobilità senza paura. La muscolatura del viso, dell’orecchio, lo sguardo, ci permettono di comunicare e di ricevere informazioni sulla sicurezza dell’ambiente umano che ci circonda. La capacità di giocare appare molto ridotta nelle persone con patologia psichica, e la relazione terapeutica, per le sue caratteristiche simili a quelle del gioco, può aiutare a riattivarla (Porges, 2013): la Terapia Espressiva ha una carta in più nel recupero del come se, nel creare forme, danze, suoni, nell’offerta di uno spazio per sperimentare, per mettersi in gioco creando cambi di prospettiva, nuovi collegamenti, possibilità espressive, aperture di senso, trasformazioni. E possibilità di riconoscere e validare i propri bisogni adattivi.

Terapie espressive: dare un posto alle emozioni

I pazienti si mettono in gioco, sperimentano, con tutta l’incertezza del non conosciuto, ma con il senso di creare. Le Terapie Espressive (TE) rispetto al solo codice verbale offrono strumenti attivi per affrontare tematiche relazionali e blocchi, come la difficoltà ad esporsi, a esprimere e gestire emozioni, a organizzare le azioni, a prendere iniziative. Nel cerchio iniziale di un gruppo, che è un momento di accoglienza, di raccolta e definizione di stati d’animo, Petra, Laura, Carla, Giovanna, nominano stanchezza, chiusura, fatica, stati confermati dall’ascolto-osservazione del linguaggio corporeo da parte della terapeuta. Francesca racconta del proprio abuso di sostanze, e osserva con disinvolta leggerezza, e un atteggiamento di negazione, che le altre sono molto giù, mentre lei non prova mai tristezza, è dipendente, passa da una dipendenza all’altra. Non si identifica nella sofferenza delle compagne:

Forse in questo ricovero sono nel posto sbagliato, mi sento inadeguata, sono euforica. Io non mi sento mai triste, piango perché mi sono abbuffata, non per un vero motivo.

Ha una storia durissima: nata dopo due sorelline morte, si è fatta carico della madre depressa, senza trovare una sponda sicura di sostegno e accudimento per sé, con la loro ombra sulle spalle e la richiesta implicita di riparare il lutto materno. Questo suo scenario interiore lo porta nel gruppo e in reparto, dove è molto sensibile agli stati altrui, e se ne prende cura. Dopo essere stata una bravissima bambina, a quattordici anni ha iniziato ad assumere sostanze e a fare vita sregolata. Le compagne, dai labili confini interpersonali, per contagio emotivo si irrigidiscono e si chiudono (flusso di forma e della tensione bloccati, sguardi fissi; v. nota 5) di fronte alle uscite della ragazza, che richiamano dolorose storie personali. Appare subito evidente che non sono per nulla disposte ad aprirsi alla sperimentazione, a coinvolgersi su una minima proposta di lavoro, come succede spesso con questo tipo di pazienti di fronte a temi sofferti e attivanti, né sono in grado di riflettere su quanto sta accadendo nella propria mente o nel corpo. Invitate a farlo, con fatica riescono a rintracciare e nominare, tra tanti stati emotivi indefiniti, il fastidio, la rabbia, la voglia di tagliarsi, l’ansia e il dolore che in loro si sono risvegliati. E già il nominare questi stati le attiva ancora di più. Il freezing è una delle reazioni tipiche di questi pazienti, insieme all’attacco, alla fuga, o allo spegnimento (Ogden, 2006), che comunque sono reazioni fisio-psicologiche che accomunano tutti gli esseri umani con diverse gradazioni.

Nella congelata e rabbiosa immobilità del gruppo sento e penso che un lavoro corporeo attivo possa entrare in sintonia con i loro stati mentali, e nello stesso tempo possa aiutare a trasformarli, riducendo lo stato di attivazione e rimettendo in circolazione energia costretta. Forse può anche riaprire lo scambio tra le persone e creare spazio riflessivo. Ricorro a un oggetto che faccia da tramite, che permetta di restare separati ma metta anche in relazione, a un gioco che in questo sovraccarico non chieda impegno mentale, e che possa esprimere l’aggressività sottostante in modo ludico: opto per i lanci tra le partecipanti di un elenco telefonico, uno degli “strumenti” che ogni tanto mi capita di proporre. So che con il suo peso sollecita trasformazioni nell’uso pieno del corpo, nell’adattamento della postura, del tono muscolare, del respiro, crea movimento nell’immobilità e dinamiche comunicative e reazioni. E in effetti si aprono gesti, corpi, sorrisi, intenzioni. Gli oggetti sono importanti in interazioni come queste, perché distolgono l’attenzione diretta dal corpo, fonte spesso di disagio, e la portano fuori, allo scambio con gli altri, e alla concretezza dei sensi.

Oltre al gioco, alla vitalità, alla relazione (ma Petra quando ci siamo alzate in piedi se n’era andata: nella seduta successiva riuscirà a collegare la postura eretta alla rabbia provata poco prima al bar rispetto al cibo, suo grande problema di gestione emotiva. Per lei, bambina abusata, è molto difficile esporsi, esserci, agire in modo aggressivo, diretto, come nel lanciare, e tende a ritirarsi, a rivolgersi contro di sé), l’esperienza suscita in Carla anche un’inaspettata reazione emotiva nell’essere sfiorata sul viso dalle pagine dell’elenco, come noto da una sua sospensione del corpo e in un’espressione sorpresa e incuriosita. Nella condivisione finale si dice stupefatta dal piacere e dal desiderio di essere colpita ancora, che collega onestamente al sesso. Anche Francesca fa un suo collegamento spontaneo, il ricordo delle botte da parte del fratello quando si comporta male, come anche dai suoi fidanzati: su questa considerazione scoppia in pianto. Ha bisogno di essere picchiata, afferma tristemente, è l’unico modo che ha di sentire che uno la ama, ne combina di tutti i colori e vuole essere punita per essere sicura che uno ci tiene a lei. Ora piange su di sé, su questa cosa che la sua mente sa essere sbagliata, perché non difende il diritto delle donne, dice, perché è sottomessa, ma non può farne a meno. Singhiozza desolata, la testa china, con un dolore che si tocca, la tristezza non più negata. Un’emozione viva, pulsante, e nel gruppo l’accogliamo in silenzio. Mi lancia solo uno sguardo tra le lacrime e i lunghi capelli, un contatto cercato, che sento importante, e che ricambio. Uno scambio esperienziale in uno spazio gruppale protetto ha attivato ricordi ed emozioni, ha offerto occasione di espressione consapevole e di trasformazione dei vissuti, e di incontro tra diverse menti. L’azione creativa, spontanea e non pensata, rimanda ad altri livelli di realtà, a motivazioni, desideri, pensieri emozioni e sensazioni, che da automatici e impliciti diventano così oggetto di riflessione e di conoscenza. Creando collegamenti, l’esperienza estetica (come forma, sensorialità, come sentire) attraverso la mediazione terapeutica, apre la porta all’affettività mentalizzata.

Terapie espressive: riparare con il corpo

Come dicevo la capacità di giocare sostiene la funzione riflessiva, perché permette di stare dentro all’azione, alla relazione, anche divertendosi a volte, e di regolare nelle interazioni gli stati di attivazione fisica, i comportamenti e le emozioni (Skarderug, 2009). L’autoregolazione è la capacità di controllare gli impulsi, di rimandare l’azione o iniziarla, ma anche di modulare, calmare le risposte sensomotorie, somatiche, emotive, che influiscono sul funzionamento affettivo e cognitivo (Schore, 2009). I processi attentivi giocano un ruolo cruciale fin dai primi anni di vita, quando il care giver aiuta a controllare lo stress eccessivo, ad es. distogliendo il bambino dal proprio disagio e spostando l’attenzione su altro (Bateman e Fonagy, 2004). Una buona sintonizzazione nella relazione primaria permette lo sviluppo della capacità di controllo volontario, necessario per la vita sociale.

Le esperienze sensomotorie e grafiche utilizzate nelle Terapie Espressive possono essere usate per distrarre l’attenzione dall’incandescenza del troppo sentire per riorientarla sul concreto del foglio, del corpo, dell’azione, del colore e del materiale: toccare, prendere, dirigere il pennarello, premere, sentire il foglio in mano, spostarsi nello spazio, fare un’azione con uno scopo in mente, possono creare momenti meno accesi per fare spazio ad esperienze nuove ed al pensare. I materiali, le immagini, la danza, come elemento esterno, aiutano a organizzare e trasformare gli stati mentali, rinforzandone la consapevolezza, la capacità di osservarli e gestirli. In Danzamovimento terapia, pratica olistica e integrata, cercare una posizione piacevole, di autoaccudimento, invece di lasciarsi pervadere dalla passività dolente e ritirata, trasformare la tensione rabbiosa e inibita in movimenti che portino fuori, come lo scuotere insieme un grande telo, o ‘danzare la rabbia’ quando è possibile e tollerabile, oppure trovare modi diversi di attraversare la stanza, offrono la possibilità di nuove espressioni, a volte consapevoli e controllate, a volte più spontanee, che permettono di sottrarsi alla trappola del silenzio, dell’isolamento, della paura, della ripetizione, del congelamento emotivo, dell’informe incomunicabile. Usare il colore, immaginare e rappresentare un paesaggio, dare forma grafica alle emozioni sentendole-ricordandole prima nel corpo, sono potenti mezzi per diventare consapevoli della propria interiorità-mente. Le pratiche (immaginative, artistiche, corporee) che si muovono tra interno ed esterno sono profondamente riparative, aiutano a incuriosirsi di sé, a validare la propria esperienza superando il giudizio, l’autosvalutazione, che sempre tormentano questi pazienti.

Il lavoro sui processi corporei bottom up è di fondamentale importanza per aiutare a stabilizzare le reazioni, per restare all’interno della finestra di tolleranza (Ogden, 2006)6. L’obiettivo delle Terapie Espressive con questi pazienti non è quindi la libera espressione catartica, quanto ristabilire una forma di fiducia e controllo sulle espressioni-reazioni del corpo, un senso di sicurezza e di autocura (Herman 1992), che in seguito permetteranno di sperimentare gli stati di arousal evitando di ricorrere a modalità autodistruttive (Ogden, 2006). Il movimento può abbassare l’arousal, raffreddare l’attivazione, per riprendere poi a pensare su quanto accaduto nel corpo-mente (Allen e Fonagy, 2006): non si riesce a pensare o a prendere decisioni quando si è troppo attivati emotivamente. Movimenti intensi o tranquillizzanti possono aiutare a regolare in modi diversi la tensione e l’agitazione, mentre movimenti attivanti permettono di uscire dall’ottundimento dell’ipoarousal; pratiche di respirazione e radicamento, camminate consapevoli sono utili per ricentrarsi e stare nel presente. Danzare con una musica aiuta a stare con se stessi, a essere spontanei, a non rimuginare, a lasciar fluire, a permettersi piccoli assaggi di spontaneità; proporre una breve sequenza agli altri permette di acquisire consapevolezza degli stati legati all’esporsi, al giudizio, all’immagine corporea, all’autostima. Esperienze che i pazienti vengono invitati ad ascoltare e gestire tollerando i disagi.

La capacità riflessiva e regolativa di ognuno di noi si modifica nel contesto, diminuisce con un sovraccarico emozionale, o con l’attivazione del sistema di attaccamento; in Terapia Espressiva la stessa espressione artistica, e soprattutto il movimento spontaneo, la danza, possono attivare stati vicini all’inconscio corporeo (Robbins, 1998; Boccalon, 2010), talvolta unheimlich, perturbanti. Come già detto può essere utile spostare l’attenzione dal corpo, spesso investito negativamente, attraverso l’utilizzo di attività grafiche, oltre che di oggetti. Ma anche questo può essere destabilizzante per la tipica labilità emotiva di questi pazienti, che possono fare un disegno e poi esserne turbati, oppure come è successo con una foto di radici che spuntavano dalla terra, scelta da una ragazza, che ha suscitato forti emozioni di dolore e rabbia associate al passato, alle radici che sentiva di non aver avuto. Quindi per il terapeuta espressivo è importante riconoscere, accogliere, monitorare e modulare continuamente le reazioni del gruppo. Nei momenti in cui i gravi pazienti borderline perdono la capacità di prestare attenzione agli stati mentali come difesa da uno stato di sofferenza, invitarli a osservare e sentire insieme il linguaggio del corpo (quando è possibile, quando c’è lo spazio mentale per farlo) aiuta a cogliere le reazioni di disagio, a non lasciarle inosservate nell’implicito, quindi a mentalizzarle e regolarle (Schore, 2008; Gallese, 2009). Focalizzare sulle sensazioni aiuta a uscire dal pensiero catastrofico e giudicante. E’ diverso infatti dirsi “sento una pressione, calore al petto, un tremito”, da “sono in ansia, sono terrorizzata, non finirà più”. Un lavoro esperienziale aiuta anche ad essere consapevoli dei piccoli momenti di piacere sensoriale, che spesso ci sfuggono, orientati come siamo a cogliere il negativo, la difficoltà. Con pazienti disregolati è quindi utile un holding attivo (v. Migone, 1991; Allen e Fonagy, 2006) che incoraggia a stare dentro l’esperienza, a tollerarla, a focalizzare, a prendere le distanze, definire, nominare; che amplia o restringe i temi di ricerca, propone alternative, sostiene il fragile sé nel reggere la sofferenza, o pensa per i pazienti raccontando cosa succede (Correale, 2009). O che aiuta a risvegliare dall’ottundimento, fungendo da ‘compagno vivo’ nel richiamare a vita, come bene descrive Anne Alvarez (1999). Una modalità attiva e recettiva (Robbins, 1987), flessibile alle situazioni cangianti ed emotivamente cariche, all’alternanza rapida degli stati di incandescenza, frammentazione, e pervasivo senso di vuoto, è fondamentale nel lavoro con questi pazienti. Il radicarsi, pensare col corpo (Laban, 1950) aiuta il terapeuta espressivo a reggere le forti emozioni senza perdersi, a tenere uno spazio in modo molto fisico; attraverso l’attitudine corporea e la rappresentazione interna di uno spazio mentale contenitivo, gli consente di mantenere aperto il contatto tollerando il non conosciuto e l’incertezza, come pure i fallimenti comunicativi e di sintonizzazione. La riparazione delle rotture è ancora più importante del mantenimento di un continuo livello di comunicazione-interazione, sostiene Tronick (2007), sia nello sviluppo che in terapia: esperienze di recupero dal disagio costruiscono fiducia nell’altro e nella propria efficacia di regolazione. Gli strumenti del terapeuta espressivo sono l’empatia somatica e il rispecchiamento, la familiarità con le immagini, con stati psico-corporei primitivi, col testimone interno (J. Adler, 2006), con l’osservazione dei parametri di movimento Laban-Kestenberg per cogliere livelli di competenza, difficoltà, bisogni dei pazienti, e tollerabilità dell’esperienza. Nell’accogliere e sostenere, regolare gli stati debordanti, la sofferenza, le oscillazioni emotive dei pazienti, è fondamentale che il terapeuta si prenda cura di sé, del proprio benessere, della propria integrità, della proprio disagio o impotenza.

Terapie espressive: regolare le emozioni attraverso il corpo

Da notare che a causa dei gravi disordini nell’attaccamento di questi pazienti (v. Liotti, 2006) nello spazio gruppale è ridotta la valenza carica di aspettative e possibili minacce di una relazione diadica. Nel cerchio finale quando si osservano, si interrogano le cose create, il momento di attenzione congiunta muove spesso un’attitudine quasi rituale di ascolto, rispetto, curiosità, di interesse per la mente dell’altro: punti di vista e alternative e possibili (“Io pensavo che lei fosse agitata, ma ho capito che era in pena”), sguardi che si orientano insieme. Il semplice stare nel cerchio finale sul pavimento, a condividere osservazioni, immagini, pensieri, è un’esperienza di scambio, ascolto, di menti in contatto. Il messaggio è che si possono vivere le proprie reazioni senza esserne travolti, che

le parole, i pensieri e il dialogo sono strumenti di comunicazione notevolmente più efficaci dell’azione”, e che la relazione è un luogo in cui “è possibile giocare con le idee (Bateman e Fonagy, 2004, p. 253);

che si può reggere il dolore, la tristezza, la rabbia. Un atteggiamento terapeutico di curiosità, ascolto, scoperta, che costruisce ipotesi e le modifica insieme ai pazienti, è di fondamentale importanza per sostenere la funzione esplorativa, riflessiva, regolativa.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Note presenti nel testo
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  2. La Terapia Espressiva a orientamento psicodinamico usa specifici strumenti e metodologie che derivano dall'Arte Terapia e dalla Danzamovimento Terapia, nate negli anni '40 negli Usa da M. Naumburg, M. Chace, M. Whitehouse (v. Luzzatto, 2009). In questo contesto mi riferisco a un lavoro integrato di Danzamovimento terapia e Arte terapia di gruppo. Il modello di riferimento è Art Therapy italiana
  3. Le esperienze riportate provengono dai gruppi di Terapia Espressiva che l’autrice conduce all’interno dell’equipe della casa Cura Villa Margherita, Arcugnano-Vicenza, servizio residenziale Diagnosi e cura per Disturbi di personalità, in cui si applica il modello cognitivo comportamentale DBT (Dialectical Behavioral Therapy).
  4. Kinesfera: nella Laban-Kestenberg analysis è lo spazio che utilizzano le persone senza spostarsi, va da molto vicino al corpo al medio, al lontano, e ha a che fare con l’agio o disagio nel rapporto col mondo e con sé. Il sistema Laban-Kestenberg è un modello sistematico di osservazione e codifica degli aspetti qualitativi del movimento, mutuato da Laban (1960), Bartenieff (1980), Lamb (1965), Kestenberg (1977), che tiene insieme il livello fisico-muscolare e sentire, pensare, agire, attraverso gli elementi Corpo, Intenzioni di movimento (Effort), e Spazio.
  5. Il Flusso di Forma nel sistema Laban-Kestenberg, connesso al respiro (allargarsi e restringersi sul piano orizzontale), segnala il livello di agio/disagio nella relazione, sensazioni piacevoli (andare verso) e spiacevoli (ritirarsi) Tale struttura rivela caratteristiche relative al tipo di cure primarie ricevute e a eventi relazionali. Il flusso di tensione (fattore emozionale) è il modo in cui si alterna la tensione nei muscoli (libera-tenuta), ed è la base di tutte le espressioni emotive e del temperamento: permette spontaneità e controllo. (Kestenberg, 1975).
  6. La finestra di tolleranza è una funzione descritta da Siegel (v. Tagliavini, 2011), è l’area dell’esperienza entro cui gli stati sensoriali/emotivi possono non destabilizzare il funzionamento della persona e l’elaborazione delle informazioni.
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