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Il Narcisismo digitale e le patologie da iperconnessione

Tra selfie e post anche il nostro assetto psicologico sta cambiando: possiamo parlare di patologie da iperconnessione? Quali sono le più preoccupanti?

Di Marco Lazzeri

Pubblicato il 21 Mar. 2019

La cognizione di una diffusione di tratti narcisistici nella popolazione occidentale ha portato diversi autori a indagarne i motivi, c’è chi ha parlato di cultura del narcisismo e addirittura di un’epidemia del narcisismo.

Che cos’è il narcisismo? Secondo Wikipedia il narcisismo è spesso sinonimo di egoismo, vanità, presunzione. Applicato a un gruppo sociale, il narcisismo a volte indica elitarismo o indifferenza nei confronti della condizione altrui. In psicologia invece il termine è utilizzato per descrivere un concetto centrale della teoria psicoanalitica, il normale amore per se stessi o per indicare l’insano egocentrismo causato da un disturbo del senso di sé.

Tuttavia, in merito all’ambito psicologico, occorre precisare come il narcisismo sia un tratto della personalità e può essere considerato, secondo la logica di un continuum, uno stato normale. Il narcisismo ha di per sé un’accezione positiva: indica l’amore sano e legittimo per se stessi (Behary, 2013). Perde tale connotazione quando si lega ad un bisogno abnorme di attenzione, affermazione, apprezzamento, gratificazione esterna. Se quest’atteggiamento psicologico interferisce seriamente con i rapporti interpersonali, gli impegni quotidiani e la qualità della vita, può assumere una dimensione patologica culminante nel disturbo narcisistico di personalità.

I criteri diagnostici per fare diagnosi di Disturbo Narcisistico di Personalità secondo la quinta edizione del Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM 5) ruotano attorno al concetto di grandiosità, nonché al costante bisogno di ammirazione e la mancanza di empatia. Rispetto alla precedente edizione, il DSM 5 compie però un passo in avanti. Per la prima volta vengono indicati i paradossi del narcisismo: l’enorme vulnerabilità dietro la facciata grandiosa e la solitudine profonda dietro l’auto-esaltazione.

Il narcisismo digitale

Con l’arrivo del Web, ed in modo particolare dei social network, si è assistito ad una proliferazione del narcisismo sotto forma di narcisismo digitale. Con l’espressione di “narcisismo digitale” alcuni filoni di ricerca indicano un insieme di pratiche comunicative tipiche dell’universo 2.0 e fondate su un egocentrismo così accentuato da apparire patologico (Zona, 2015). Secondo la Teoria degli usi e gratificazioni (Katz, Blumler, Gurevitch, 1974; Papacharissi, Mendelson, 2011), più l’individuo percepisce che un medium soddisfa alcuni suoi bisogni, più lo userà proprio per quello scopo, in particolare se l’individuo non si sente capace di farlo nell’ambiente reale.

La cognizione di una diffusione di tratti narcisistici nella popolazione occidentale ha portato diversi autori a indagarne i motivi: c’è chi ha parlato di cultura del narcisismo (Lasch, 1979), e addirittura di un’epidemia del narcisismo (Twenge, Campbell, 2009). In un articolo di Erica Benedetto scritto per l’occasione su State of Mind, ci viene mostrato uno studio condotto tra gli atenei di Swansea e Milano (Reed, Bircek, Osborne, Viganò, Truzoli, 2018) in cui si afferma che farsi più selfie rinforzerebbe i tratti narcisitici di personalità. I ricercatori hanno preso in esame 74 individui di età compresa dai 18 ai 34 anni, durante un periodo di quattro mesi. Un altro elemento preso in considerazione è stata l’assiduità con cui i partecipanti hanno utilizzato i social media (Twitter, Facebook, Instagram e Snapchat) durante il corso della ricerca. In media, durante l’arco temporale dello studio, i partecipanti hanno usato i social per tre ore al giorno, nonostante qualcuno abbia riportato un utilizzo di ben 8 ore circa. In percentuale, Facebook si è rivelato essere la community digitale più utilizzata (60%), a seguire Instagram (25%) e infine, Twitter e Snapchat (13%). I due terzi dei soggetti coinvolti adoperavano i social principalmente per postare selfie. I social network quindi funzionavano da moltiplicatori del loro desiderio di essere al centro dell’attenzione. Soprattutto perché agiscono principalmente sull’immagine. Inoltre, è stato dimostrato che i partecipanti allo studio che erano soliti postare un numero eccessivo di selfie, in accordo con la scala di misurazione utilizzata, presentavano il 25% dei tratti narcisistici oltre il cut-off clinico per il Disturbo Narcisistico di Personalità. Per la prima volta, grazie a questa ricerca, si è giunti dunque a dimostrare l’esistenza di una correlazione tra la frequenza di utilizzo dei social media e narcisismo in relazione alla pubblicazione dei selfie.

Ed ancora, una collega italiana in forza all’University of Georgia, in uno studio condotto su 130 profili di facebooker, ha evidenziato come il numero di amici, il tipo di immagini, e i commenti associati a un profilo costituiscano una misura attendibile del grado di narcisismo dell’utente. I narcisisti, secondo quanto emerso dallo studio della Dott.ssa Buffardi, pubblicano sulle loro pagine le foto in cui compaiono più belli e trendy mentre i “normali” utilizzano preferenzialmente foto banali, magari scattate al volo con un telefonino o una webcam (Buffardi, 2008). I siti di social networking sembrerebbero quindi offrire l’ambiente ideale per la proliferazione di alcuni tipi di personalità narcisistiche che hanno l’intento di promuovere se stesse e cercare l’ammirazione degli altri su larga scala.

Questo è quello che emerge da uno studio pubblicato sulla rivista CyberPsychology, Behavior and Social Network. Lo studio, tutto italiano di studiosi dell’Università di Firenze, dal titolo Narcisisti grandiosi e vulnerabili: chi è a maggior rischio di dipendenza da Social Network? (Casale, Fioravanti, Rugai, 2016) è stato svolto su un campione di 535 studenti europei. La conclusione della ricerca ci ha mostrato come i narcisisti vulnerabili, che tendono ad essere insicuri e hanno una minore autostima, sono più propensi a sentirsi più sicuri in un ambiente online rispetto ad un’interazione reale tanto che sono indotti a preferire il social network come mezzo per ottenere approvazione e ammirazione. Al contrario i narcisisti grandiosi, che tendono verso l’arroganza e l’esibizionismo, è probabile che cerchino l’ammirazione più apertamente, piuttosto che attraverso i social media.

Sul versante opposto di quanto accennato finora, vi sono però coloro che nei social network trovano terreno fertile per la propria disistima, se confrontata con quella degli altri attraverso i loro contenuti postati. Il fenomeno è noto a tutti come Image Crafting.

Narcisimo digitale e stato di “flow”

L’attrazione da parte dei narcisisti digitali verso i social network non si spiega solamente con la loro capacità di fungere da cassa di risonanza per il loro Sé. Una ricerca condotta dagli psicologi della IULM e della Cattolica di Milano (Cipresso et al., 2010; Mauri et al., 2010) hanno mostrato la capacità dei social network di produrre delle “esperienze ottimali”, definite di “flusso” (flow), in grado di fornire una ricompensa intrinseca ai propri utenti.

Lo stato di Flow o di flusso è uno stato emotivo positivo sviluppato da Mihály Csíkszentmihályi, uno degli psicologi più famosi nell’indagine della psicologia positiva. Quando si è in questo stato, la persona si trova totalmente assorta in un’attività di suo gradimento in cui il tempo vola e azioni, pensieri e movimenti si succedono l’un l’altro senza fermarsi. Questo stato emotivo positivo è caratterizzato dal coinvolgimento totale nell’attività che si sta realizzando mantenendo un livello di concentrazione assoluto. Tuttavia, tale livello di assorbimento nell’attività che stiamo svolgendo, porta ad uno stato di “mancanza di autocoscienza” in cui viene a mancare la concezione egocentrica di sé come attore, tanto è vero che la soddisfazione di alcuni bisogni, come ad esempio mangiare o andare in bagno, potrebbero passare in secondo piano. Come effetto collaterale dell’intensa presenza, lo stato di flow porta ad una alterazione del tempo: si perde la cognizione del tempo che passa senza che ce ne rendiamo conto.

Come si genera lo stato di flow? Lo stato di flow è connesso al nostro livello d’intenzione. Csíkszentmihályi definisce come “intenzione” l’atto di concentrare la nostra attenzione in un’azione o su un obiettivo. Sempre a proposito della Flow experience, in un articolo di State of Mind di Angelica Gandolfi, veniamo a conoscenza di innumerevoli studi che confermano l’occasione di vivere lo stato di flusso psicologico in campi come la scienza, la scrittura letteraria, nell’esperienza estetica ed infine nello sport.

L’oversharing e il selfie: due fenomeni tipici del narcisismo digitale

Il narcisismo digitale si esprime attraverso una serie di azioni “estremizzate” molto diffuse come ad esempio scattarsi dei selfie (pratica che caratterizza maggiormente gli adolescenti, ma ove innumerevoli adulti non fanno eccezione) o condividere momenti, a volte fin troppo intimi, della propria vita quotidiana. Lo share o meglio l’oversharing, vale dire l’eccesso di condivisione di informazioni, fa parte del loro modo di stare nel mondo, diventa un gesto istantaneo… una naturale estensione del Sé. Il mettersi in mostra, talvolta in modo spettacolare, è diventata una maniera di esistere affermata: esistiamo soltanto se possiamo “essere visti” e riconosciuti. Tutto quello che facciamo e che postiamo, personale o pubblico che sia, viene sottoposto alla severa valutazione dei “mi piace” e non “mi piace”. Spazio e tempo nella Rete vengono completamente annullati, per cui ognuno ha la possibilità di negare la propria storia personale e scegliersi di volta in volta nuove biografie in base alle mode.

Diana I. Tamir e Jason P. Mitchell, studiosi di Harvard e autori dello studio Disclosing information about the self is intrinsically rewarding si sono chiesti cosa spinge l’essere umano a cercare di condividere le proprie esperienze con gli altri. Tramite un’indagine effettuata con risonanza magnetica funzionale i due studiosi hanno avuto modo di constatare come le regioni più reattive, nel momento in cui i soggetti si soffermavano a narrare le proprie esperienze, pensieri, emozioni, riflessioni, è correlato fortemente con l’attivazione di aree cerebrali deputate alla percezione di un senso di gratificazione e di piacere. Il che fa sì che il comportamento si possa ripetere. La considerazione finale degli autori li conduce ad affermare che il piacere di parlare di sé agli altri è simile a quello, definito primario, che è intrinseco al cibo ed al sesso. (Tamir, Mitchell, 2012).

Si definisce selfie (dall’inglese “self”, letteralmente sé) una fotografia scattata a se stessi, in genere con uno smartphone, successivamente condivisa sui social network o in rete. Essi testimoniano il desiderio ed il piacere di apparire, di mostrarsi e dimostrare qualcosa di sé valutato come positivo e “degno” di essere condiviso. La loro funzione è quella di ricostruire un racconto delle nostre vite, della nostra quotidianità, sotto la luce migliore. Attraverso la condivisione dei selfie, l’utente è alla ricerca di approvazione che viene espressa attraverso il numero dei ‘mi piace’ ottenuti per ogni autoscatto, condivisione e complimenti che possano confermare l’immagine e l’idea che si vuole dare di sé.

La consapevolezza di ciò spinge la persone che si trova di fronte ad una fotocamera, a preoccuparsi della sua apparizione e quindi a scattare continuamente finché non ottiene l’immagine migliore. Tuttavia, dai semplici autoscatti riguardanti il proprio viso, si è passati a fotografare anche parti di sé o momenti sempre più “intimi”. Legato al concetto di “intimità” è il costrutto di “estimità” fondato nel 2001 dallo psichiatra francese Serge Tisseron. Anche se la paternità di tale neologismo (usato in maniera diversa rispetto a Tisseron) si debba a Jacques Lacan, filosofo francese nonché psichiatra e psicoanalista. Quando Tisseron usò la prima volta il costrutto di “estimità” non si riferiva principalmente ai social media, tant’è che considerava la nascita di tale fenomeno il giorno in cui, negli anni ’80, una donna aveva rivelato in una trasmissione tv di non avere mai avuto un orgasmo con il marito. Soltanto più tardi lo psichiatra francese ne ha circoscritto l’uso alle abitudini digitali e intendendolo come atto pensato per rendere pubblici elementi della vita intima al fine di valorizzarli grazie ai commenti. Per Tisseron:

… il desiderio d’estimità consiste nel mostrare dei frammenti della propria intimità di cui noi stessi ignoriamo il valore, a rischio di provocare il disinteresse od anche il rigetto negli interlocutori, ma con la speranza che il loro sguardo ne riconosca il valore e lo renda tale ai nostri occhi.

L’estimità on line possiede quindi uno scopo specifico: ricavarne autostima, verificando il consenso dei destinatari poiché i contenuti personali sono l’asso nella manica di chi cerca attenzione. Sui social media chi pratica la strada dell’estimità tende a reiterarla, specialmente quando ha un riscontro positivo.

In merito all’uso dei selfie l’Osservatorio Nazionale Adolescenza Onlus presieduto dalla Dott.ssa Maria Manca nonché membro dell’Advisory Board nazionale del progetto Generazioni Connesse, attraverso un comunicato stampa del 2017 intitolato: Adolescenti iperconnessi. Like addiction, Vamping e Challenge sono le nuove patologie ci offre un interessante quadro della situazione adolescenziale italiana. Su un campione di oltre 8.000 adolescenti di circa 18 regioni italiane, di età compresa tra gli 11 e i 19 anni, possiamo notare come i ragazzi della fascia 14-19 anni mediamente fanno circa 5 selfie al giorno, con punte massime di 100, contro i 2 selfie al giorno dei più piccoli che preferiscono utilizzare maggiormente i video e i messaggi audio. Pur di ottenere più like (fondamentali per il manifestarsi del Like addiction o dipendenza dai like) il 13% ha seguito addirittura una dieta per piacersi di più nei selfie. Tanti like e tante approvazioni accrescono l’autostima, la popolarità e quindi la sicurezza personale. Ovviamente, vale anche il contrario, ovvero commenti dispregiativi e pochi like condizionano l’umore e l’autostima in negativo, tanto che il 34% ci rimane molto male e si arrabbia quando non si sente apprezzato. Come continua a riportare l’Osservatorio Nazionale Adolescenza Onlus, circa 2 adolescenti su 10 condividono tutti i selfie che fanno sui social network e su WhatsApp, andando a ledere completamente il concetto di privacy e di intimità che ormai si è trasformata in un’intimità condivisa. Rispetto al 2015, anno in cui tale problema riguardava appena il 15%, questo dato è cresciuto. Tralasciando per un momento questi dati occorre però farsi una domanda… E l’Altro? Che compito ha? Quale ruolo svolge? Nell’epoca segnata dai social network l’Altro esiste solo come proiezione di tutto ciò che può rispondere ad un ritorno di ammirazione (in questo caso l’Altro è considerato bello ed è ricercato) oppure come proiezione di parti del Sé negative e frustranti ed in quel caso viene eliminato senza esitazione. Se nel primo caso esso è bello e ricercato, nel secondo caso invece viene “eliminato”. (Faimberg, 2006; Nardulli, 2006).

Siamo sempre più connessi, più informati, più stimolati ma esistenzialmente sempre più soli (Tonino Cantelmi).

Le “patologie” da iperconnessione

Come già affermato all’inizio dell’articolo, secondo alcuni autori il web 2.0 incoraggia lo sviluppo della cultura narcisistica attraverso l’esibizione di identità digitali seducenti e molto spesso fittizie. L’uomo non è più concentrato sul costruirsi per com’è davvero, ma per convincere gli altri a credere chi finge di essere (Cantelmi, 2013). L’iperconnessione caratterizzante il narcisismo digitale ha portato alla nascita di nuovi “disturbi” in qualche maniera legati ad esso, ma non ancora ufficialmente riconosciuti in manuali come l’ICD-11 o il DSM V. Queste “patologie”, se proprio così le vogliamo chiamare, sono note come F.O.M.O (Fear Of Missing Out), Nomofobia, Phubbing e Vamping.

F.O.M.O

L’acronimo F.O.M.O, dall’inglese “Fear of missing out” ovvero “Paura di essere tagliati fuori”, indica una forma di ansia sociale, caratterizzata dal desiderio di rimanere continuamente in contatto con gli eventi nel cyber mondo o con le attività che fanno i nostri amici o parenti, per paura di rimanere esclusi da qualunque avvenimento o situazione che ci offra un’opportunità di interazione sociale. La teoria dell’autodeterminazione o SDT, Self-determination theory (Deci e Ryan, 1985) afferma che il sentimento di parentela o di connessione con gli altri è difatti uno dei tre bisogni psicologici di base che influenza la salute psicologica delle persone.

La F.O.M.O è quella sensazione di agitazione, pentimento e invidia che, precisa Turkle (2012), “crea un turbinio emozionale e un risentimento verso noi stessi o gli altri, insoddisfazione, ansia e sentimento di incapacità” quando ci rendiamo conto di non essere dove vorremmo. Non è una patologia riconosciuta a livello clinico, ma la sua presenza può peggiorare una condizione preesistente di ansia e depressione. La paura di perdersi qualcosa di interessante costringe i “malati” di F.O.M.O a stare costantemente collegati allo smartphone controllando i loro account Facebook, Instagram o gli aggiornamenti degli stati dei propri contatti presenti su Whatsapp. Chi è “afflitto” da F.O. M.O cade in un circolo vizioso senza rendersene conto: egli cerca di riempire la solitudine che prova attraverso i social che solo apparentemente gli danno compagnia, facendolo cadere invece in un senso di solitudine ancora maggiore che cerca di colmare sempre attraverso i social.

Vi è un collegamento importante, difatti, tra F.O.M.O e dipendenza da smartphone: a livello questo costrutto che nasce con l’avvento dei social, è considerato un segnale predittivo dell’insorgenza di dipendenza da smartphone e sofferenza emotiva.

La F.O.M.O in Italia è un fenomeno ancora poco esplorato e non esistono oggigiorno degli studi in merito. Lo psicologo e ricercatore Andrew Przybilski è stato il primo che nel 2013, assieme a ricercatori dell’Università della California, di Rochester e di Essex ha condotto una ricerca empirica su questo costrutto sociale per fornire informazioni su come valutarla in modo affidabile e su come si correli con fattori legati al benessere, al comportamento, a fattori sociali e motivazionali. Dai risultati è emerso che
la F.O.M.O è legata ad un rapporto ambiguo con i social media dove ogni giorno veniamo bombardati da tormentoni, meme, video strani o semplicemente dagli eventi che accadono nel mondo o a cui partecipano i nostri amici. La F.O.M.O È una “forza stimolante” in grado di influenzare il modo di utilizzare i social network.

Il livello di F.O.M.O è più alto negli utenti di giovane età, in particolare di sesso maschile. La F.O.M.O si identifica in maggior livello negli studenti che sono soliti consultare i social network durante le lezioni scolastiche. Inoltre, i livelli di F.O.M.O sono influenzati dalle circostanze sociali. Bassi livelli di soddisfazione della propria vita e dei propri bisogni personali coincidono con alti livelli di F.O.M.O. La F.O.M.O è più alta in chi è spesso distratto e questo può interferire con le attività quotidiane.

Un importante studio pubblicato sulla rivista scientifica Computer in Human Behaviour dal titolo I don’t want to miss a thing: Adolescents’ fear of missing out and its relationship to adolescents’ social needs, Facebook use, and Facebook related stress (Beyens, Frison, Eggermeont, 2016) ha esaminato più di 400 adolescenti, analizzando le loro modalità di utilizzo dei social media, la loro interazione e la possibile presenza di F.O.M.O. Da tale studio si evince che gli adolescenti, più sono connessi è sintonizzati con gli altri, tramite l’utilizzo delle nuove tecnologie e dei social network, più percepiscono lo stress e la paura di essere esclusi e respinti dalla propria rete sociale. I soggetti più a rischio e che sono colpiti da stati di ansia, solitudine e abbandono sono in particolare adolescenti con bassa autostima e maggiore insicurezza, che spesso rischiano di confondere la vita reale con quelle create virtualmente nei social network. Ne consegue che per rimanere sempre “a passo con gli altri” gli adolescenti, e non solo, esibiscano nelle varie piattaforme sociali in cui sono iscritti una vita che non è reale ma “costruita”.

Nel 2018, un’altra interessante ricerca straniera intitolata Fear of Missing Out and its Link with Social Media and Problematic Internet Use Among Filipinos (Reyes, Marasingan, Gonzales, Hernandez, Medios, Cayubit, 2018) ha esplorato come ci sia una correlazione significativa tra la F.O.M.O con l’uso dei social media (SMU) e l’utilizzo problematico di Internet (PIU) tra i filippini. Un totale di 1.060 filippini ha completato una batteria di prova composta da tre scale per misurare le suddette variabili: Scala FoMO (Fear of Missing Out), Social Networking Time Use Scale (SONTUS) e Internet Addiction Test (IAT). Le analisi statistiche emerse dai risultati finali hanno comprovato come sia presente un’effettiva correlazione tra la F.O.M.O con l’utilizzo dei social network e l’uso preoccupante del Web.

Nomofobia

La Nomofobia è una patologia ancora scarsamente indagata e ancora troppo poco definita. Il termine Nomofobia, la cui etimologia deriva dalla contrazione di “no-mobilephobia”, è un neologismo che si riferisce all’eccessiva paura/terrore di rimanere senza telefono o senza connessione ad internet o al 4G. La comparsa di questo nuovo vocabolo risale per la prima volta nel 2008 in Gran Bretagna; in occasione di un sondaggio organizzato da un organismo di ricerca con sede nel Regno Unito su un campione di 2.163 persone, era emerso che oltre la metà degli utenti di telefonia mobile (quasi il 53%) tendeva a manifestare stati d’ansia quando era a corto di batteria, credito, senza alcun tipo di copertura oppure senza il cellulare stesso. La ricerca evidenziava inoltre che più di sei ragazzi su dieci tra i 18 e i 29 anni andavano letteralmente a letto in compagnia del telefono.

A quattro anni di distanza, vale a dire nel 2012, una ricerca commissionata dalla società californiana Securenvoy su un campione di 1000 intervistati, ha evidenziato come ben il 66% ha paura di perdere il proprio cellulare. Un aumento del 13% rispetto alla medesima indagine condotta da YouGov’plc del 13%. Secondo il Ceo di SecurEnvoy, Andy Kemshall, le persone intervistate arrivano a controllare circa 34 volte al giorno il proprio cellulare, per assicurarsi che sia sempre presente e connesso.

Recentemente, presso il liceo Cairoli di Pavia, è stato condotto un esperimento dallo psichiatra Maurizio Fea con la collaborazione della professoressa Lucia Durigo. Questa interessante sperimentazione dal semplice scopo, ovvero rimanere 5 giorni senza social, era rivolto a un gruppo di 503 studenti. Di questi, 43 studenti hanno aderito alla sperimentazione, ma soltanto 8 di loro l’hanno portata a termine. Sul portale web del Corriere della Sera, con data 15 febbraio 2019, vi sono riportate le riflessioni a posteriore di una dei partecipanti, Carola Valsecchi. Eccone uno stralcio.

È stato come premere un bottone e ritrovarsi indietro nel tempo… Il primo giorno è filato liscio, è stato dal secondo che tutto è cominciato a sembrarmi così difficile… dal non poter inviare i soliti messaggi ai miei compagni a quella tentazione di controllare i “mi piace” su Instagram. È stata dura prima di andare a letto. Niente foto da commentare, fissavo il soffitto e mi sembrava di essere così sola…

Leggendo le considerazioni della giovane studentessa sorge però spontanea una domanda. È giusto continuare a considerare la nomofobia come semplice fobia? La risposta è negativa poiché i dati a supporti delle precedenti ricerche non collimano con questa “erronea” valutazione. La nomofobia va piuttosto considerata come una dipendenza comportamentale. Tuttavia, si può parlare di dipendenza vera e propria quando la maggior parte del tempo e delle energie vengono spesi nell’utilizzo dello strumento, al punto che insorgono disfunzioni significative nelle principali aree esistenziali, come quella personale, relazionale, scolastica, familiare, affettiva.

Ad avvalorare l’ipotesi secondo cui sia più opportuno considerare la nomofobia come dipendenza piuttosto che una fobia, è l’opinione del professore di psichiatria David Greenfield dell’Università del Connecticut. Secondo Greenfield l’attaccamento allo smartphone causa delle interferenze nella produzione della dopamina, il neurotrasmettitore che regola il circuito celebrale della ricompensa. Così ogni volta che vediamo apparire una notifica sul cellulare sale il livello di dopamina, perché pensiamo che ci sia in serbo per noi qualche cosa di nuovo e interessante. Il problema però è che non possiamo sapere in anticipo se accadrà davvero qualche cosa di bello e piacevole, così si ha l’impulso di controllare in continuazione innescando lo stesso meccanismo che si attiva in un giocatore di azzardo (Greenfield D.N. e Davis R.A., 2002).

Successivamente Walsh e White nel loro studio dal titolo Over-connected? A qualitative exploration of the relationship between Australian youth and their mobile phones (Walsh, White, 2007) affermano che in alcune giovani persone emerge un attaccamento estremo al cellulare con sintomi di dipendenza comportamentale. I sintomi evidenziati sono: salienza (cognitiva e comportamentale), conflitto, euforia o conforto, tolleranza, ritiro sociale, ricaduta e ripristino della dipendenza. Di notevole interesse sono i sintomi relativi alla salienza cognitiva, all’euforia e al ritiro sociale o impotenza. La salienza cognitiva si presenta quando il pensiero del cellulare esclude, ovvero “distrae” da altri processi di pensiero così da non potersi focalizzare su altre attività. L’euforia (o conforto) associata all’uso del cellulare si riferisce alle sensazioni in cui ci sentiamo amati e/o ben considerati quando riceviamo telefonate o messaggi. Infine il ritiro sociale o impotenza riguarda la spiacevole sensazione di sentirsi incapace di fare determinate cose senza l’ausilio del proprio mobile phone. La maggior parte degli aderenti allo studio inoltre riferiva di percepire, nel momento in cui non poteva essere usare o essere contattata dal proprio cellulare, elevati livelli di disagio personale che derivano dalla sensazione di essere disconnessi dalle altre persone.

Nel 2010, un ulteriore studio condotto dai dei ricercatori brasiliani dell’Università Federale di Rio de Janeiro denominato Nomophobia: the mobile phone in panic disorder with agoraphobia: reducing phobias or worsening of dependance? (King, Valença, Nardi, 2010) dà un ennesimo slancio verso la conferma della nomofobia in quanto dipendenza. I ricercatori brasiliani avrebbero infatti sperimentato che un approccio terapeutico mirato a ridurre l’ansia non sia efficace nel trattamento di tale “malattia”.

Un interessante parallelismo che possiamo fare, parlando ancora di Nomofobia, consiste nel considerare lo smartphone in quanto strumento tecnologico strettamente persuasivo. A tal proposito, la Captologia di Fogg ci dà un enorme contributo. Questa recente area d’indagine esplora lo spazio di confine tra persuasione (influenza, motivazione, cambio di comportamento e così via) e tecnologia del computer. Il campo della captologia cresce rapidamente: ogni giorno nuovi prodotti informatici, inclusi siti web, applicazioni mobili o social network, sono progettati per cambiare ciò che le persone pensano e fanno. Dei 42 diversi principi captologici teorizzati da Fogg per spiegare come le tecnologie attuano la persuasione ve ne sono alcuni che in misura maggiore degli altri, ma senza per questo tralasciare gli altri, possono spiegare come mai il mobile phone sia uno strumento così persuasivo. Gli assiomi di cui vi voglio parlare sono gli stessi che avevo già citato in un mio vecchio articolo pubblicato su State of Mind a proposito di Pokémon Go, ovvero il fattore kairos, il fattore comodità e il principio della semplicità mobile. Senza stare a dilungarmi troppo vi invito a leggere il brano “Oltre l’aspetto ludico: Pokémon Go tra captologia, tecnologia positiva e intelligenza emotiva”.

Phubbing

Il termine phubbing è un neologismo sincretico, coniato nel 2012 presso l’Universitàdi Sidney dall’australiano Alex Haig. Questo termine, nato dalla fusione delle parole phone e snubbing (snobbare) e descrive l’atteggiamento di chi, in compagnia di qualcuno, lo ignora a favore del proprio smartphone (o tablet). Nel 2016, il termine phubbing è stato accettato nell’Oxford English Dictionary.

Nato per mettere in contatto, il cellulare sta diventando una sorta di barriera virtuale e psicologica. In uno studio del 2016, condotto dall’Università di Baylor nel Texas (Roberts, David, 2016), era stata indagata la presenza di questo fenomeno in relazione ai livelli di insoddisfazione e conflitto all’interno di 145 coppie. Gli autori avevano somministrato un questionario in cui si chiedeva di individuare una serie di comportamenti come il tenere il cellulare in mano da parte del partner quando in vicinanza del compagno/a oppure lanciare spesso occhiate al telefono mentre parla con lui/lei. Dai risultati evidenziati dai due ricercatori era emerso che:

a) il 46% ha dichiarato di aver subito phubbing dal partner;
b) il 67% ha provato, di fronte a tale atteggiamento, frustrazione, insoddisfazione e malessere;
c) il 23% ha riportato come questa abitudine abbia provocato un aumento del conflitto nella relazione di coppia.

L’uso eccessivo e in alcuni casi ossessivo dello smartphone, oltre a creare dipendenza, può dunque condurre a conflitti interpersonali, minando il benessere personale e relazionale. Dalla ricerca è emerso che tale effetto è più evidente nelle persone che di per sé presentano ansia e insicurezza nelle relazioni. Gli stessi autori, in un altro studio condotto nel 2017 dal titolo Phubbed and Alone: Phone Snubbing, Social Exclusion, and Attachment to Social Media sostengono che le vittime di tale mania, a loro volta, si rifugiano nel phubbing. Secondo i due ricercatori:

Quando un individuo subisce phubbing si sente socialmente escluso, e questo conduce ad un bisogno molto forte di attenzione. I partecipanti all’indagine – continuano gli studiosi – invece di recuperare l’interazione faccia a faccia, e così ricostruire un senso di inclusione, preferiscono rivolgersi ai social network per riguadagnare quel senso di appartenenza che viene a mancare.

Si viene a creare così un circolo vizioso e deleterio che annichilisce i rapporti.

Un’altra ricerca dell’Università del Kent (Chotpitayasunondh, Douglas, 2018) ha esaminato l’effetto del phubbing nelle situazioni sociali one to one evidenziando come tale fenomeno influisca in maniera negativa sul modo in cui la persona che subisce il phubbing si senta rispetto all’interazione con l’altra persona. 153 partecipanti sono stati invitati a seguire lo svolgersi di una conversazione tra due persone, identificandosi nella coppia. Ad ogni partecipante è stata assegnata una delle tre situazioni in cui immaginarsi: nessun phubbing, phubbing parziale o “ampio phubbing”. I risultati? Più il livello di phubbing aumentava, più i soggetti percepivano che la qualità della relazione era povera e insoddisfacente. I ricercatori hanno così descritto il phubbing come una forma specifica di esclusione sociale che minaccia i bisogni umani fondamentali delle persone come l’autostima, il senso di realizzazione, il controllo e il senso di apparteneza… un fattore importante per la felicità umana. A differenza di altre forme di esclusione sociale il phubbing, secondo gli autori della ricerca, può avvenire ovunque e in qualsiasi momento. Basta solo usare il proprio smartphone ignorando il proprio interlocutore.

Vamping

Il vamping, ovvero la tendenza a restare connessi sui social per l’intera notte, è un fenomeno nato negli Stati Uniti che si sta rapidamente diffondendo anche in Italia. Si tratta di ragazzi che sembrano vivere la propria vita sociale e social nelle ore notturne, sentendosi poi stanchi, fiacchi e inconcludenti nelle ore diurne, nelle quali dovrebbe espletarsi la vera vita adolescenziale. Secondo l’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, Gap e Cyberbullismo i segni clinici che contraddistinguono questo fenomeno sono:

  • frequentare e navigare sui social e sui messanger tutta la notte
  • dormire poche ore per notte
  • irritabilità e nervosismo
  • scarsa attenzione
  • scarso rendimento a scuola

Quali sono le cause che scatenano questo fenomeno tra i giovani? E soprattutto, quali sono gli effetti negativi che provoca? L’adolescenza è una delle fasi più delicate e problematiche della vita di una persona: questo periodo segna il passaggio da una fase infantile ad una fase “pre-adulta”. Le cause del vamping si collegano principalmente ad una tendenza di ribellione caratterizzante la fase adolescenziale e alla mancanza di socializzazione con i pari per il solo piacere di farlo. Il bisogno di ribellione spinge i giovani ad aspettare la quiete notturna per collegarsi ed effettuare ciò che non è concesso durante la giornata (ad esempio fare binge watching, chattare su Facebook o postare contemporaneamente foto e selfie su Instagram) liberandosi così dal controllo genitoriale. I ragazzi sperimentano così una sensazione di libertà e un piacevole senso di autonomia, sentendosi padroni della propria vita. Inoltre, l’essere coinvolto in multichat notturne, come nel caso dei gruppi di Whatsapp o Telegram, fa sperimentare al ragazzo la soddisfacente percezione di essere parte di un gruppo unico, sentendosi così speciale.

A proposito delle conseguenze dannose provocate dal vamping troviamo: il disturbo del sonno, un basso rendimento scolastico, una “dipendenza” dalla tecnologia dovuta dalla tendenza a preferire la vita virtuale piuttosto che quella reale, irritabilità, disturbi dell’umore, stanchezza, debolezza cronica, episodi di cybersickness ovvero nausea, vertigine, mal di testa, senso di confusione causati dalla lunga esposizione all’ausilio elettronico (Hui Chang, Wen Pan, Tseng, Stoffreg, 2012). Quando con il touchscreen si sposta lo schermo su e giù, il cervello rivela difatti un movimento ma la confusione provocata dal fatto che il corpo resta fermo genera un senso di nausea. Infine, tra i tanti effetti negativi sopra citati, troviamo un affaticamento oculare scatenato dalla cosiddetta luce blu presente nei dispositivi elettronici che, oltre a portare con sé vari problemi alla vista, altera la secrezione della melatonina che regola il ciclo sonno-veglia, e quindi impedisce l’addormentamento. Inoltre, la carenza stessa di sonno, a lungo andare può portare a evidenti stati di allucinazione che portano i ragazzi a confondere la realtà dalla fantasia. Uno studio intitolato Sleep, Emotional and Behavioural Difficulties in Children and Adolescents (Gregory, Sadeh, 2015) conferma come i bambini che dormono male e poco rischiano di sviluppare problemi come depressione, ansia e disordini alimentari nonché comportamenti antisociali o predisposizione a sviluppare dipendenze da sostanze come alcol e droghe. A spingerli a questa correlazione è stata l’analisi di cinque anni di disturbi e problemi nel sonno dei giovani.

È davvero il vamping una patologia da curare? Siamo di fronte ad una patologia da curare? In un’intervista rilasciata sul portale Sanità Informazione Lino Nobili, neurofisiopatologo e neuropsichiatra responsabile del centro di Medicina del Sonno dell’ospedale Niguarda di Milano, dice:

Piuttosto lo definirei un aspetto sociale importante, da non sottovalutare. Questo disturbo del ritmo del sonno, causato dal Vamping, può creare anche un’alterazione dell’umore. Ma allo stesso tempo, può essere un disturbo dell’umore, già presente, a creare la necessità di un rifugio notturno nel web. Ogni adolescente ha una storia a sé. Per aiutarlo a superare questo attaccamento ad Internet bisogna scoprire quale sia l’origine del circolo vizioso che si è instaurato. È davvero il Vamping a causare l’insonnia, o piuttosto l’insonnia è la conseguenza di un disagio sociale?.

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