Nati a perdere è un libro che propone una sequenza rapida, implosiva, di personaggi-racconti.
Chi fa lo psicoterapeuta come me sceglie di bere dolore più volte a settimana. Se è condito di speranza non avvelena. Un dolore curabile, che può recedere. A fine giornata lo abbiamo ridotto di una tacca, torniamo a casa pacificati. Chi fa lo psicoterapeuta e diventa scrittore spilla veleno umano.
Nati a perdere è questo: storie del Sud dove “troneggiante, moribondo, c’era Gesù inchiodato a una croce di legno spesso”. E si fa i fatti suoi, non offre antidoto.
Al suo cospetto Giorgio, timido da stare appiccicato con l’adesivo alle pareti della chiesa. Unica gloria della sua vita i cross perfetti per Carmine che segnava in mezza rovesciata. Careca passa a Maradona. Quello che fa Giorgio il parroco non lo sa.
Alice mena mazzate tremende a Jenny, Carlotta e Alice piccola. Fossimo a El Paso e non a Salerno sarebbe Alice junior. Figlie? No, le sue bambole. Che però si comportano bene, sanno evitare la furia di Alice grande. Una bambina così, che mamma ha alle spalle?
Uno psicoterapeuta che diventa scrittore sa che Gesù non risponde, e racconta sconfitte. Senza redenzione. Noi possiamo ingoiare dolore perché nelle nostre vene scorre una sorta di onnipotenza curativa, noi quella pena la facciamo passare.
Ma non è vero. Siamo utili solo a chi entra nel nostro studio con la speranza accesa. Se proviamo ad ascoltare le stesse storie lì fuori usciamo pazzi, finiamo nella terra perfida di Céline, Palahnuk, Di Monopoli. La speranza appare in un calcio circolare. Giovanni lo impara dal maestro di karate, per puro assorbimento. Di nascosto dalla madre mediterranea paralizzante e onnipresente, capace di invadere lo spazio sacro del tatami esegue il calcio insieme al kiai, l’urlo rituale: “Un kiai vero, fatto di vita e di morte”