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Fallire è morire: il rischio che porta in sé la scomparsa

Il fallimento e la crisi sono concetti psicologici, pilastro di una visione del mondo che aveva in sé il senso della morte e della resurrezione

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 17 Giu. 2016

Il fallimento, anche in psicologia, dovrebbe essere l’esito di un rischio e portare in sé la figura della scomparsa, l’indugio della fine. E invece no, non accade mai nulla di davvero definitivo.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 11/06/2016

 

Fallire è un po’ morire, ma da un po’ non si fallisce e non si muore da queste parti. Si, d’accordo, l’Italia –che dico?- l’occidente intero è  (accidenti!) in perenne crisi. Crisi morale, crisi intellettuale, crisi economica. Eppure queste eterne crisi non portano mai ad alcun decesso, non dico di civiltà ma almeno di mentalità. Semmai si sopravvive, permanentemente malaticci e mai davvero malati e nemmeno sani.

Il fallimento, anche in psicologia, dovrebbe essere l’esito di un rischio e portare in sé la figura della scomparsa, l’indugio della fine. E invece no, non accade mai nulla di davvero definitivo. Si sa da anni: non c’è mai una vera ripresa, mai un vero boom, le culle vuote sono sempre più vuote e più frequenti, un giorno ci saranno più novantenni che bambini di dieci anni, non si investe più sul futuro e non si crede più nel passato (se mai c’è stato), i barbari sono alle porte e insieme a loro ci sono gli extracomunitari, i rifugiati, i richiedenti asilo, i mille vinti e disperati della terra pronti a sottrarre il pane agli immeritevoli viziati figli del corrotto occidente.

Eppure non accade nulla, la tavola è imbandita e tutto procede al suo immutevole meglio, banale come al solito. Siamo così noiosi da non essere nemmeno degni delle sferzate di una vera crisi?

 

Il fallimento e la crisi in psicologia

Il fallimento e la crisi come opportunità sono concetti economici ma anche psicologici, sono un pilastro di una certa visione del mondo, una visione che aveva in sé il senso della morte e della resurrezione, dell’immersione che è una rinascita; ma quel dio è morto e neppure noi, incapaci di andare davvero in crisi pur essendolo sempre e quindi incapaci di morire, stiamo troppo bene, immortali e indeboliti dal nostro eterno presente.

È come se alla nostra longeva immortalità non fosse stato unito il dono della giovinezza e quindi invecchiamo, indecisi a scomparire. Come Titone antico, consorte dell’Aurora che chiese a Zeus per il suo sposo il dono di non morire ma –per dimenticanza- non quello di non invecchiare, deperiamo in un esasperante infiacchirsi delle forze incapace di ucciderci. E, come accadde a Titone, ci ridurremo a diventare cicale, un piccolo insetto simbolo di imprevidenza? Il sistema previdenziale dell’intero occidente per la verità borbotta e muggisce, ma c’è sempre un ma, un’incollatura che ci salva, una legge Fornero che rimanda il destino. Finora è andata così.

 

Fallimento e autostima

Forse l’eterno sfuggirci del vero fallimento è frutto di un cambiamento di visione, per cui al posto della crisi che rigenera vi è una moderna preferenza per l’autostima che ci sostiene. L’autostima, sempre sostenuta per non dire pompata, ci rende ormai incapaci di fallire e quindi di morire e ripartire.

Tutti gli studi sull’autostima finiscono per rendere intollerabile l’idea del fallimento e quindi ci obbligano a non morire mai. Ma non c’è chirurgia plastica che tenga: non si muore ma s’invecchia e le rughe appiattite si vendicano condannandoci a una maschera inespressiva. Dagli studi di Bandura in poi abbiamo scavato a fondo nella nostra stima di sé, e lo scavo ci ha resi più forti e più resistenti al fallimento, ma anche storti, prezzo da pagare perché non siamo nemmeno ai morti.

Si potrebbe ripiegare in oriente, altrimenti. Pare che in Cina si possa vivere con un’autostima più bassa che nel gonfio occidente.  Il risultato più interessante di questi studi di esotismo psicologico è che pare che in Cina la bassa autostima non sia in relazione con la depressione. Difficile dire che se questo sia segno di una società in realtà contenta della sua immobilità oppure di una capacità di essere davvero in crisi che noi avremmo perduto.

Speculazioni nelle quali la mente vaga senza poter trovare risposte definitive. È un po’ il tratto di questa modernità, l’assenza di svolte definitive, che forse non ci sono mai davvero state nella storia. Ci sono state però nei racconti che ci siamo fatti, della storia. Chissà se oggi siamo capaci di raccontarla davvero, una crisi.

Forse il Trono di Spade è una nuova tragedia che la racconta o forse è un’opera barocca che mostra il teatro del mondo dove tutto è finzione, anche la crisi in cui ci dibattiamo a ogni estate della nostra vita, prima del lungo inverno che non è mai così grande come dicono. Per ora.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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