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Le scelte e il timore di sbagliare – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Fare delle scelte può comportare delle paralisi decisionali prima di decidere per il timore di sbagliare o dei rimpianti e rimorsi dopo aver deciso. 

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 25 Feb. 2016

Molteplici sofferenze più o meno nosograficamente psicopatologiche ruotano intorno alle scelte. Mi sembra di poterne distinguere tre tipi secondo una dimensione cronologica. Quelle precedenti alla scelta o paralisi decisionali che la fanno da padrone nel mondo ossessivo ma si infiltrano nella vita quotidiana appena la posta in palio diventa importante. Quelle del momento della scelta evidenti nei disturbi dell’umore nei due sensi di impulsività e di blocco. Quelle del dopo scelta caratterizzate dal rimpianto o dal rimorso.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE RUBRICA – LEGGI L’INTRODUZIONE

Nel 6° ciottolo abbiamo parlato dell’ abitudine. Ora soffermiamoci sul suo esatto contrario: la scelta. Essa è, temo, la vera condanna per aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza che ci accompagna dal momento della cacciata dal paradiso terrestre. Al suo confronto il sudore della fronte per il lavoro e i dolori del parto (già sento le colleghe furiose gridare vorrei vedere te) sono quisquilie, pinzillacchere. Il Padreterno, è tanto buono e caro ma su certe prerogative solo sue lo devi lasciar stare perché perde il senso dell’umorismo di cui, invece, aveva dato ampia prova nella creazione dell’universo. Lo vedo sull’uscio ghirlandato dell’Eden che ci scaglia dietro il libero arbitrio. Adamo prudente avverte la compagnia di lasciarlo a terra, non toccarlo. Possiamo pur sempre non usarlo, pensa, allontanandosi ma Eva che aveva letto di recente Watzlavich ed era rimasta colpita dalla sua frase sull’impossibilità di non comunicare, per fare la colta afferma decisa “ non si può non decidere”.

Da allora abbiamo fatto di tutto per toglierci di dosso questo fardello. Inventando storie incredibili di uno o più che prendono le decisioni per noi. A proposito la narrazione precedente non è vera e appartiene proprio ad una di queste storielle, la più vicina a noi che tuttora ha molti adepti. Se non erano dei allora era il destino, il fato, le congiunture astrali. Poi passano i secoli l’umanità diventa grande e fa fatica a continuare a credere alle storielle soprannaturali. Così dopo l’illuminismo occorre sostituire le spiegazioni celesti con qualcosa di più terreno come le grandi ideologie deterministiche che tutto spiegano e predicono. Da lì è un passo affidarsi ad un uomo forte, semidio o supereroe che ci conduce a cui affidare la procura generale per le nostre decisioni. Noi siamo brava gente che eseguiva solo gli ordini, semmai impiccate lui a testa in giù.

Tutto pur di non scegliere. Perché? Intanto perché è un lavoro impegnativo che se fatto a modino non sulle suggestioni immediate del sistema intuitivo, ottime salva-vita ma piuttosto raffazzonate sulle questioni complesse, richiede una bella sudata meningea. Poi perché si può sbagliare rischiando un danno e, forse peggio, la colpa e il rimorso per esserne la causa. Molteplici sofferenze più o meno nosograficamente psicopatologiche ruotano intorno alle scelte. Mi sembra di poterne distinguere tre tipi secondo una dimensione cronologica. Quelle precedenti alla scelta o paralisi decisionali che la fanno da padrone nel mondo ossessivo ma si infiltrano nella vita quotidiana appena la posta in palio diventa importante. Quelle del momento della scelta evidenti nei disturbi dell’umore nei due sensi di impulsività e di blocco. Quelle del dopo scelta caratterizzate dal rimpianto o dal rimorso. Procediamo con ordine.

Le paralisi decisionali sono generate dal timore di sbagliare e sono direttamente proporzionali all’importanza della posta in palio e al riverbero temuto sul proprio valore personale in caso di errore per cui le persone con scarsa autostima e i perfezionisti saranno più facilmente a rischio di questi blocchi che saranno a loro volta un vulnus proprio per il valore personale “ non decido per non sbagliare e considerarmi sbagliato, ma siccome non decido sono sbagliato”. Questi soggetti saranno preda delle sofferenze post-scelta come il rimpianto e il rimorso infilandosi in una spirale di autosvalutazione. Quello che potremmo chiamare il bias perfezionistico, oltre al timore dell’errore porta a ritenere, infatti, che ad un certo problema esista una soluzione perfetta, esente da difetti e che vada trovata. Un altro aspetto più generale del bias perfezionistico è l’aspettativa di essere in un mondo ideale in cui sia disponibile tutto, subito, senza fatica e soprattutto senza rinunce. Ne segue un senso di ingiustizia e di rabbia all’idea di dover scegliere e rinunciare con conseguente sdegnato ritiro sull’Aventino come un bambino capriccioso che non gioca più se non vince facile.

Torniamo ai meccanismi di paralisi da timore dell’errore. Il soggetto esamina le varie possibili alternative e sceglie provvisoriamente quella che gli appare come la migliore. A questo punto la scannerizza in dettaglio per scoprirne i possibili difetti e trovatone uno la rigetta. Ripete il processo su un’altra alternativa ma nessuna supera l’esame del bias perfezionistico. L’errore sta nel fatto che non cerca la soluzione migliore con un bilancio pro-contro favorevole ma una soluzione senza alcun contro. Ciò è ovviamente impossibile, altrimenti non si tratterebbe di una scelta. Ho visto massicciamente questo processo in persone che dicevano di non avere idee e addirittura pensavano di essere stupide. In verità qualsiasi idea si affacciasse alla loro mente era processata immediatamente e scartata come imperfetta senza neppure dargli il tempo di crescere e definirsi Si comportavano come un Erode iperprudente o un falsificazionista popperiano militante che fa strage di tutte le idee neonate. Per queste persone terrorizzate dall’errore, i pro o i cosiddetti guadagni contano poco, ciò che è importante sono i contro per evitare le perdite. In terapia nel cimentarsi con loro in un processo di “decision making” si possono trascurare i guadagni e concentrarsi esclusivamente sui contro assegnando loro un peso.

Soprattutto il problema va impostato come la ricerca della soluzione meno peggiore che è la stessa cosa del ricercare la soluzione migliore ma, detto così, attiva meccanismi di selezione delle alternative diversi. In sintesi vanno abbandonate le illusioni di perfezione e di onnipotenza.
Nei blocchi decisionali da timore di fallimento per evitare la colpa sarà molto utile evidenziare l’impossibilità di non scegliere che già Eva aveva intuito per trasposizione da Watzlavick, e focalizzarsi sul possibile rimpianto che si abbatterà inevitabile su chi non ha vissuto per evitare la colpa come sui resti smagriti dell’asino di Buridano.

Le paralisi decisionali hanno potente radice nella ben nota avversione alle perdite che è un automatismo del sistema intuitivo efficace nella protezione della sopravvivenza immediata ma costituisce di contro una vera e propria forza conservatrice che muove intense emozioni tanto che il rapporto del peso emotivo tra perdite e guadagni è 2 a 1: una perdita dà il doppio del dolore del piacere di un guadagno di pari entità.
Ciò costituisce un pericolosissimo fattore di perseverazione in situazioni fallimentari. Pur di non accettare una perdita si scommette il tutto per tutto e si finisce peggio. In guerra non ci si arrende. Una situazione paradigmatica è la ludopatia ma vale anche per certe imprese o relazioni disastrose dove si persevera per non ammettere la perdita. Terapeuticamente in questi casi è opportuno non accanirsi per una decisione immediata ma chiedere al soggetto di definire criteri di attivazione di una exit strategy: quando deciderei di rinunciare? Cosa dovrebbe succedere per farmi dire basta? Per poi ripresentarglieli una volta raggiunto tale livello.

Di fronte alla perseverazione e alla resistenza al cambiamento da un punto di vista terapeutico oltre a evidenziare la follia del bias “dei costi sommersi” di cui ho trattato nel ciottolo “6 sull’abitudine” è opportuno costruire in termini di perdita il mantenimento dello status quo piuttosto che come guadagno il cambiamento. Quindi confrontare due perdite: una possibile ( il cambiamento) ed una certa ( lo status quo) piuttosto che una perdita con un possibile guadagno.

Il senso di colpa che la paralisi decisionale tenta di prevenire è maggiore se ci riteniamo responsabili di errori di commissione molto più che di errori di omissione. Modificare il corso naturale degli eventi è sentito come più colpevole che lasciarli andare come vengono. Anche questo bias facilità il conservatorismo e si può tentare di superarlo rileggendo come errore di commissione una omissione dopo che si ha consapevolezza dei possibili esiti.

A volte la sofferenza non è generata da una vera e propria paralisi decisionale ma dal fatto che il soggetto ritiene di averla mentre invece dovrebbe cambiare vita. Si tratta di quelle persone insoddisfatte e annoiate delle situazioni che vivono e che si sono scelti e si rimproverano di non dare una svolta all’esistenza. A loro è opportuno spiegare il fenomeno cosiddetto “della curva dell’indifferenza ( pag. 320 e seg. ) per cui più si ha una cosa meno diventa importante accrescerla e anche possederla. Sto pensando al disinvestimento sulle storie stabili e al non godersi ciò che si ha finchè non lo si perde o si rischia di perderlo (che sia la salute, la ricchezza, un lavoro o una relazione). In tali casi è utile immaginare scenari in cui il bene scontato è stato perduto e storie plausibili che possano condurre a ciò. Ciò è applicabile in tutte le situazioni anche già abbastanza disastrate. Ricordate il “potrebbe piovere” di Frankestein Junior.

 

Esiste anche l’opposto delle paralisi decisionali. Chi appare onnipotente e sceglie senza difficoltà, talvolta impulsivamente. Sono gli ottimisti che all’estremo sconfinano con il disturbo maniacale. Ma mentre quest’ultimi sono facilmente identificabili ed in fase acuta generalmente ricoverati, i primi si nascondono tra noi, a volte lo siamo noi stessi, guidano aziende e istituzioni che possono portare al disastro. Kahneman ( pag 282 e seg.) dimostra che il bias ottimistico che è in gran parte genetico rende ciechi ai rischi e fa sopravvalutare se stessi. Se da un lato fa campare più a lungo, rende leader e decisori per gli altri, dall’altro può essere molto dannoso facendo sottovalutare il ruolo del caso e della fortuna a vantaggio della propria onnipotenza conducendo a progetti fallimentari e disastri. Sistematicamente quando si fa un progetto guardando all’obiettivo si sottovalutano le difficoltà e gli imprevisti che sono appunto tali e si ritengono necessari tempi più brevi e risorse minori di quanto in realtà necessiteranno ( insomma non fidatevi dei preventivi anche di operai in buona fede, non è colpa loro è la genetica umana). Sembra essere nella nostra natura vedere solo l’obiettivo trascurando le interferenze.

Una procedura ideata per le aziende ma utilizzabile anche in terapia è la cosiddetta “strategia post mortem” in cui si ribalta il punto di vista dal quale si osserva il progetto. Funziona così. Immaginiamo che tutto sia andato male (l’impresa è fallita, il paziente è morto, mia moglie se n’è andata), il disastro avvenuto e cerchiamo a posteriori di individuare tutti i possibili fattori imprevisti che lo hanno potuto causare. Si chiede al soggetto di non mettersi nei panni del costruttore ma del guastatore per scoprire le falle bisogna indossare gli occhiali del ladro non quelli del costruttore di antifurti.

Tuttavia la maggior parte delle sofferenze legate alle scelte è riferito al dopo quando non si realizzano i risultati attesi e si è assaliti da colpa, rammarico e autosvalutazione. Spesso alla sofferenza per aver fallito lo scopo reale sul quale era incentrata la scelta si sommerà quella per il giudizio negativo su di sé come cattivo decisore. Nel compiere questa operazione di svalutazione di sé vengono normalmente compiuti due errori di ragionamento.

In primo luogo si valutano le proprie abilità di decisore sull’esito effettivo della scelta e non sulla correttezza stessa del processo decisionale, è l’errore “del senno di poi”. Quando conosciamo l’esito di una vicenda ci sembra, erroneamente, che ci fossero già prima gli indizi sufficienti per prevederlo ma non è così. Gli storici hanno un compito più facile dei profeti. Un conto è spiegare, altro è prevedere . Basterà pensare alla “strategia post mortem” descritta sopra.

In secondo luogo quando valutiamo a posteriori una scelta fatta ( ad esempio tra due opzioni “A” e “B”) commettiamo due errori che ci inducono a ritenere di avere sbagliato. Il primo: gli svantaggi temuti che ci avevano fatto rifiutare l’opzione “A” non si sono effettivamente realizzati per cui non ne avvertiamo più la negatività. Il secondo: i vantaggi che ci hanno fatto scegliere l’opzione “B”, se si escludono i primissimi tempi, vengono considerati acquisiti, scontati, mentre gli eventuali svantaggi (ovviamente presenti) essendo causa di disagio attuale, richiamano costantemente l’attenzione.

Chiarisco con un esempio immaginando che un signore decida di rinunciare al 20% dello stipendio pur di non viaggiare per cento chilometri partendo alle 6,00 da casa tutte le mattine per raggiungere il posto di lavoro. Aveva messo sul piatto della bilancia la sua stanchezza, i costi e i rischi degli spostamenti, e aveva scelto di rinunciare a quel 20% in nome della qualità della vita. Però dopo i primi giorni della nuova vita inizia a pentirsi e ad autoaccusarsi erroneamente. Analizziamone gli errori: essendo decisamente più riposato lo scopo di non essere stanco e dunque di non svegliarsi ogni mattina alle 6,00 perde di importanza (pesa meno). Il fatto di non correre il rischio di un possibile incidente non è avvertito perché l’incidente, non si è verificato, ma anche nell’altra situazione avrebbe potuto non verificarsi comunque e dunque non c’è una differenza significativa. Il risparmio sui consumi dell’auto è spalmato nel tempo perché l’acquisto di una nuova auto è ammortizzato in parecchi anni e dunque non si ha la sensazione di un risparmio immediato. Ciò che resta invece assolutamente evidente e tangibile è quella riduzione del 20% di stipendio in busta paga che alla fine di ogni settimana ricorda al signore l’errore di scelta compiuto.

Più in generale gli svantaggi che vengono contabilizzati sono solo quelli dell’alternativa prescelta. Se si decide di fare il centro invece della tangenziale si vedrà solo il traffico del centro fantasticando una tangenziale libera. La volta successiva sulla tangenziale succederà assolutamente il contrario.
Riassumendo le sofferenze del dopo scelta: già sbagliare e perdere la posta in palio è motivo di rincrescimento in sè, ma si può peggiorare la situazione rimproverandosi di essere stati degli stupidi. Non tenendo conto che al momento della scelta non si avevano tutti i dati che si hanno in seguito e quindi un conto è che si sia fallito rispetto all’obiettivo, altro che si sia scelto malamente. Per questo terapeuticamente è utile analizzare i passi decisionali e giudicare il processo in sé distinguendolo dal suo esito reale, tenendo conto dell’esistenza del caso ed epurandolo dal bias del senno di poi.

Lo si può ripercorrere considerando le ragioni di ogni singolo bivio decisionale ovviamente con i dati di conoscenza a disposizione del momento e la consapevolezza che i bisogni, le preferenze e i gusti cambiano. Dopo la scelta, inoltre, non si tiene più conto dei criteri che avevano fatto preferire l’opzione A e scartare la B e dati per acquisiti i vantaggi di A ci si sofferma solo sui suoi difetti. Si decide di partire da un certo assetto motivazionale e la si valuta poi da uno diverso.

 

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