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Il pluralismo degli Stati Uniti, l’Italia e la fine di Berlusconi.

Berlusconi - Licenza d'uso: Creative COmmons - Proprietario: http://www.flickr.com/photos/spiritolibero85/Siamo forse giunti all’epilogo della carriera politica di Berlusconi, per alcuni un’epopea per altri un incubo lungo 17 anni. Tralascio molti altri aspetti di questa parabola e mi dedico all’analisi del sogno italiano di copiare i modelli sociali americani. Un’analisi poco freudiana e molto personale.

Tra i vari ambiti nei quali cerchiamo da molto tempo di avvicinarci alla cultura d’oltreoceano, appare in tutta la sua complessità l’esercizio della democrazia. Berlusconi si è sempre dichiarato fedele ammiratore della civiltà americana, e con lui molti nostri compatrioti, eppure qualcosa sfugge. Ad esempio come si possa paragonare il livello di pluralismo della società americana con il nostro. Parliamo infatti di una nazione in cui una scrittrice gay, di cui purtroppo non ricordo il nome, può presentarsi da David Letterman (noi abbiamo Vespa) affermando senza esitazione che la guerra in Iraq è stata un artificio costruito sulla menzogna di armi chimiche che nessuno ha mai trovato. A circa 7000 km di distanza uno scrittore gay e anche un illetterato gay, non possono ricevere l’aiuto dello Stato per una casa destinata alle giovani coppie, e nemmeno una coppia eterosessuale non sposata può riceverlo, figuriamoci andare da Letterman.

Quanto a Vespa, le dieci domande di Repubblica a Berlusconi hanno trovato risposta in un suo libro. Ossia non hanno trovato alcuna risposta dignitosa. Come descrivere poi la differenza tra un sistema nel quale non possono accumularsi più di due mandati presidenziali di quattro anni, ed uno in cui il potere di un uomo dura finché esala l’ultimo respiro politico? O la distanza tra chi impone confronti televisivi tra i candidati e chi consente ad un premier di sopravvivere 17 anni unicamente con proclami ai propri adepti, concedendosi in due sole occasioni al confronto diretto di un dibattito televisivo dopo il quale gli esperti di comunicazione non ebbero difficoltà a decretare la vittoria di Prodi? Comunicare si fa in due o più soggetti; parlare da soli non è comunicare, eccezion fatta per i deliri, ne conviene qualunque approccio delle scienze umane.

Ecco, tutto ciò e molto altro negli Stati Uniti sarebbe impensabile. E’ mia opinione che negli States non esistano sostanziali segreti di Stato, perché un segreto di Stato è veramente tale quando non è possibile affrontare nella società civile la discussione su come siano andate le cose. Un segreto di Stato è il giudice Paolo Borsellino che in un’intervista spiega chiaramente chi è Silvio Berlusconi ma viene mandato in onda in piena notte, affinché buona parte di un popolo rimanga per vent’anni nell’ignoranza più oscura. Gli Stati Uniti hanno perso un Presidente fornendo una versione dell’accaduto piuttosto curiosa, considerato il numero di testimoni che hanno visto dei fucili sparare senza essere imbracciati dall’uomo accusato in seguito di aver fatto tutto da solo. Da tempo però è possibile vedere e rivedere in tutti e cinque i continenti film, documentari, trasmissioni che parlano di un complotto, di una differente verità. E allora, che fine fa il potere della Casa Bianca? Rimane immutato, il pluralismo delle voci non è una lotta di potere. Non in questo caso.

Il pluralismo è una nazione che mentre fa la guerra in Vietnam viene sferzata ogni giorno da movimenti pacifisti sempre più forti, o che durante l’inquisizione di McCarthy contro i presunti comunisti assiste alla nascita della letteratura beat, dissacrante inno di libertà. Il pluralismo è una nazione che elegge un Presidente, un buon Presidente per molti aspetti, e lo caccia scoprendolo poco trasparente. Ve lo immaginate in Italia? E se l’America esporta una democrazia che spesso non è tale, noi siamo qui a dirlo. Perché è più noto al mondo l’operato di Kissinger a favore del golpe cileno rispetto alla verità sulle stragi di mafia nel Paese di Leonardo e Raffello. La cultura americana della libertà, caro Silvio Berlusconi, è cibo a noi indigesto. Possiamo spiegare anche in questo modo il palese fastidio dei coniugi Obama nell’incontrarla. Il pluralismo è sinonimo di flessibilità dei costrutti, ne parlava un certo Kelly. Americano? Yes!

 

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Il potere analgesico della bestemmia

Potere terapeutico bestemmia - © olly - Fotolia.com Non si tratta del delirio florido di uno psicotico, ma è il risultato di studio della Keele University’s School of Psychology (Gran Bretagna), secondo cui le persone che imprecano riescono a tollerare il dolore fisico più a lungo rispetto a quelli che non dicono parolacce, in risposta ad un forte trauma o ad una disavventura.

Nell’immaginario collettivo si è soliti pensare che chi pronuncia imprecazioni, dopo aver rotto un oggetto o essersi causato un danno fisico, abbia poca tolleranza alla sopportazione del dolore. Invece questo studio dimostra esattamente il contrario. Un gruppo di volontari si è sottoposto a una serie di curiosi esperimenti. I ricercatori hanno fatto loro immergere le mani in una vaschetta con acqua gelata: in una prima fase ognuno era libero di sfogarsi con parolacce e imprecazioni a piacere, in una seconda fase, invece, le esclamazioni di dolore andavano controllate utilizzando solo parole neutre, accuratamente selezionate.

 

I risultati indicano che il pronunciare le parolacce aiutava a sopportare per 2 minuti il dolore provocato dall’acqua ghiacciata. Senza bestemmiare, invece, si resisteva solo per 1 minuto e 15 secondi. I’esito è stato sorprendente! Il motivo che scatena l’effetto antidolorifico della parolaccia non è, comunque, ancora del tutto chiaro ai ricercatori.

Una delle ipotesi più accreditate è che si tratti di una sorta di riflesso psicologico “fight or flight”: gli improperi rappresentano una risposta che permette di aumentare il battito cardiaco e di sopportare più a lungo il dolore fisico. E’ possibile che inneschino reazioni fisiche oltre che emotive, che aiutano a sopportare il dolore.

Tutto questo potrebbe spiegare perché dire parolacce e imprecazioni è una pratica universalmente diffusa e vecchia di secoli e secoli. Probabilmente, le reazioni ‘aggressive’ portano il soggetto a scaricare parte del dolore provato. Quindi, imprecare in reazione al dolore per i motivi esposti è diventata una pratica comune anche tra le persone più educate. Per concludere, se ci capitasse di sentire una persona imprecare non ci dovremmo indignare, ma dovremmo pensare che lo sta facendo perché soffre e sta male. Allora, una parolaccia al giorno, toglie il dolore di torno!

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Berlusconi ha perso il controllo. Colpa della psicologia da venditore

Berlusconi psicologia da venditore- Licenza d'uso: Creative Commons - Proprietario: http://www.flickr.com/photos/spiritolibero85/Chiusa, o quasi, la lenta agonia di Berlusconi, ci si chiede perché un uomo che sulla carta dominava Parlamento, Esecutivo e Comunicazioni, primo, secondo e quarto potere, si sia dimostrato così poco incisivo nel muovere le leve del potere. Capace di conquistarlo e di conservarlo,  ma poco di usarlo, questo potere. La spiegazione più semplice è che non gli interessasse, in fondo, fare politica. A Berlusconi non interessava governare, ma controllare il potere per proteggere i propri interessi. È la spiegazione più feroce e becera, ma per ora mettiamola da parte…Leggi il resto dell’articolo su Affaritaliani.it

Melancholia, di Lars Von Trier

Melancholia (2011) di Lars Von Trier. Solenne, luminoso, bellissimo, l’astro azzurrino accende il buio dello spazio. Lento e inesorabile muove nel cielo nero la sua danza di morte. Attimo dopo attimo, sempre più vicino alla Terra, attratto dal nostro pianeta come un amante dalla sua bella. L’impatto sarà ineluttabile e devastante. Uno scontro cosmico-sessuale sulle note della musica più erotica e straziante mai scritta, il preludio del “Tristan und Isolde” di Wagner diretto da Furtwangler.

 

Inizia così Melancholia, apocalittico, dolente film di Lars von Trier oggetto dello scandalo allo scorso Cannes per via di certe dichiarazioni un po’ folli e molto fuorviate del regista danese, tacciato dai media di filo-nazismo, cacciato dal Festival come “persona non grata”. A farne le spese anche il suo film, subito escluso dalla Palma d’oro ma risarcito a furor di giuria con il premio per la miglior attrice a Kirsten Dunst, che è Justine, una delle due sorelle della storia. L’altra, Claire, è Charlotte Gainsbourg.

E mentre la Terra s’infrange, esplode nel fatale orgasmo cosmico, compaiono le ultime immagini di quel che è accaduto poco prima in un ameno luogo del nostro ex pianeta: un castello, un giardino, una sposa che fluttua sul fiume con il velo bianco e i mughetti in mano, simile all’Ofelia di Dante Gabriel Rossetti… Istantanee di vita già passata, disintegrata con tutto il resto.

Prologo incantatore, cinematograficamente scorretto. Contro ogni regola, Lars von Trier racconta subito come andrà a finire. Niente e nessuno potrà fermare quel corpo celeste che punta dritto su di noi. E dopotutto, come dice lui «Quello è il vero happy end. La soluzione migliore. Di certo non mancheremo a nessuno”. Tanto a Melancholia non si sfugge. Il Pianeta Lars lo sa bene.

“Non è un film sulla fine del mondo ma su uno stato d’animo che conosco”, ha confessato. Umor nero, depressione, ipocondria, attrazione per l’apocalisse: i suoi prediletti compagni di vita. Psicoanalisi, cure del sonno, farmaci, poveri rimedi. Buoni per illuderti ogni tanto di essere guarito. Come Justine, la sorella depressa, che nel tentativo di trovare una “normalità” decide di sposarsi nel più fastoso e tradizionale dei modi. Quasi che il rito potesse sopperire al vuoto spaventoso che l’attanaglia. “L’ho modellata su di me. Justine mi somiglia”, racconta lui.

 

Melancholia (2011) di Lars von Trier – TRAILER:

Fin dal nome. Justine, l’eroina di De Sade, la vittima di tutte le “disavventure della virtù”. Traversie della sorte che non hanno risparmiato neanche von Trier. Infanzia problematica, la madre Inger comunista-femminista dura e pura, lo cresce nel mito della verità ma gli nasconde l’unica cosa davvero importante. Solo sul letto di morte gli svelerà il nome del suo vero padre. Non l’ebreo signor Trier che l’ha cresciuto con affetto, ma tale Hartmann, di origine tedesca, scelto da lei per concepire un figlio per via dei “geni artistici” della sua famiglia. “Ho creduto di essere finito dentro “Dallas”, commenta Lars. Che a 33 anni deve rivedere tutta la sua storia. Quello che credeva suo padre è ormai morto, il genitore biologico gli manda a dire tramite avvocato che non vuol saper niente di lui. «Di colpo – raccontò a Cannes – non ero più il figlio di un ebreo ma di un uomo di origini tedesche. Forse sono un po’ nazi anch’io».

Apriti cielo. Insensibile al cupo senso dello humor del regista danese, la stampa fiuta lo scandalo, butta benzina sul fuoco. Cosa pensa di Hitler? Masochista più di Justine, Lars non arretra. «Lo capisco. È un uomo, ha il male dentro come tutti. Non è certo un bravo ragazzo, ma se lo penso nel suo bunker, solo… Provo simpatia per lui”. Perché anche Hitler, alla fine, si trasforma in vittima. E per Lars le vittime sono qualcosa di irresistibile. Kirsten Dunst intuisce lo schianto e sussurra: «È entrato in un buco nero». Troppo tardi. Nulla valgono i successivi “mea culpa” né l’aver fatto film contro la pena di morte come “Dancer in the Dark”, o l’aver salito la scalinata del Palais di Cannes con il pugno chiuso sulle note rosse dell’Internazionale.

Bollato ipso facto di apologia di nazismo, Lars von Trier si porterà dietro questa accusa infamante chissà per quanto ancora. Pochi giorni fa, dopo un nuovo interrogatorio della polizia danese, decide: “Visto che non riesco ad esprimermi in modo chiaro in pubblico, d’ora in poi mi asterrò da ogni dichiarazione e intervista”.
Voto del silenzio. Radicale come sempre Lars si ritira a Zentropa, il quartier generale della sua casa di produzione, appena fuori Copenhagen, dove divide con pochi e fidati collaboratori vita e cinema. Una sorta di comune utopica, regno anarchico dell”anarchico Lars von Trier.

Che lì ora sta scrivendo il nuovo film, Nymphomaniac. “Un porno”, annuncia provocatore come sempre. Un’esplorazione senza veli né tabù della “vita erotica di una donna da zero a 50 anni”. Già scelti i protagonisti maschili, Stellan Skarsgard e Willem Dafoe, entrambi già più volte suoi interpreti. Più difficile trovare la protagonista. Che, secondo Lars, deve essere pronta a tutto. “Anche a girare vere scene di sesso”. Ancora più complesso sarà trovare l’adolescente necessaria per la prima parte della storia. Peter Aalbek Jensen, storico produttore e amico di Lars, fiuta il pericolo: “Ci saranno due versioni. Una destinata alle sale e una più “spinta”. Ma, conclude cercando di sdrammatizzare, “Forse sarà anche un film divertente. Un po’ buffo e un po’ filosofico”. Vedremo. Già il titolo da solo promette di suscitare in qualsiasi festival dovesse approdare, levate di scudi e polemiche a iosa. Per la gioia masochistica di Lars-Justine.

 

Melancholia, una scena del film:

La vescica piena influenza le vostre decisioni?

Toilette - Vescica Piena - © piai - Fotolia.com - Se la vostra risposta fosse positiva, allora concordate su quanto ottenuto nella seguente ricerca in cui si dimostra che l’urgente bisogno di urinare può farvi prendere decisioni migliori in certi campi, e peggiori in altri.

Questo è il risultato di uno studio nato per indagare se esista una relazione tra la necessità di autocontrollo, imposta dalla vescica piena, e lo sviluppo di un maggiore autocontrollo anche in altre sfere della vita.

Tutti gli stimoli primari come la fame, la sete, il desiderio sessuale, una volta attivati tendono a innescare il desiderio di poter ricevere anche altre gratificazioni. Sono stati realizzati degli esperimenti per verificare l’ipotesi che i segnali inibitori non sono dominio-specifici, ma possono essere estesi a settori non correlati, aventi come conseguenza un maggiore controllo degli impulsi nel dominio comportamentale.

Da qui la domanda: se si frenasse, controllasse, uno di questi istinti primari si riuscirebbe a frenare anche gli altri non immediatamente urgenti? A quanto pare è proprio così: l’autocontrollo esercitato necessariamente quando ci troviamo nella spiacevole situazione di dover andare alla toilette, ma non possiamo farlo, si applica anche ad altri campi.

In un esperimento Tuk e colleghi (2011) hanno chiesto ad alcuni partecipanti di bere cinque bicchieri d’acqua, per un totale di 750 ml, due terzi di litro, e a un altro gruppo di bere solo piccoli sorsi da cinque bicchieri diversi. Dopo circa 40 minuti i ricercatori hanno verificato il livello di autocontrollo dei partecipanti su tutt’altra materia, chiedendo loro di scegliere tra opzioni alternative, come ad esempio ricevere una una ricompensa piccola ma immediata o una ricompensa più consistente ma a distanza di tempo o denominare colori (Stroop Task) . Chi aveva bevuto molto, e quindi aveva la vescica piena, sceglieva più spesso l’opzione più redditizia, che implicava però la necessità di aspettare più a lungo, rispetto a coloro che avevano bevuto solo qualche sorso. D’altra parte questi ultimi, riuscivano meglio nell’effetto Stroop. Quindi, chi aveva un impellente bisogno di liberare la vescica era in grado di effettuare scelte pianificate e redditizie, rispetto a chi riusciva meglio in prestazioni semplici che richiedevano una maggiore concentrazione.

“Con la vescica piena si prendono decisioni migliori“, quindi bevete una bottiglia d’acqua prima di fare grossi acquisti o scelte importanti.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

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Respira lento e in modo “mindful”…

Respirazione Mindfulness - © laurent hamels - Fotolia.comLa pratica della mindfulness ci insegna molte cose in termini di consapevolezza e di “presenza” a noi stessi ma ci mostra anche come il respiro sia un “ancora di aggancio” per imparare a notare i nostri pensieri e le nostre emozioni e non rimanervi impantanati, ritenendoli la verità assoluta e non un prodotto della nostra mente.

Per questo motivo, vale la pena imparare a respirare in modo lento e essere consapevoli del proprio respirare, respirare cioè in modo mindful. A pensarci bene, la respirazione stessa è già di per sè una piccola forma di meditazione. Quindi, perché non procedere nel coltivare la nostra consapevolezza tramite una facile e breve pratica del respiro?

Primo passo: riconoscere che tipo di “respiratore” sei.

Respiri troppo velocemente? ovvero fai più di 9-11 respiri al minuto quando sei seduto comodo in poltrona? Respiri troppo profondamente? ovvero respiri con la bocca gonfiando il torace finchè non ti alzi in aria, tanto sei pieno di aria? Sospiri o sbadigli frequentemente e più degli altri?

Probabilmente stai iperventilando. Questo tipo di respirazione è molto faticosa e impegnativa (anche se nel breve tempo non ce ne accorgiamo…) e spesso non è segno nè di rilassamento nè di calma. È bene riconoscerla e cercare di “riabituare” il nostro apparato respiratorio a respirare lentamente; dico “riabituare” perché quando siamo bambini, solitamente respiriamo proprio in modo lento e con il diaframma. Provare con il vostro bimbo/a (o quello di qualcun’altro) per credere…

Una volta riconosciuto che respiratore siete, è possibile cominciare la pratica del respiro lento e avvicinarsi a fare una piccola (sebbene importante) esperienza di mindfulness.

È importante notare che la consapevolezza mindful del respiro non implichi necessariamente respirare con il diaframma, è possibile osservare il proprio respiro, semplicemente notando “come” si respira, senza giudicare nè tentare di modificarlo.

 

Secondo passo: assaggio di pratica del respiro lento.

Interrompi quello che stai facendo e siediti o appoggiati a qualcosa. Assumi una posizione “consapevole” che evochi dignità, con la schiena eretta ma non rigida e la sommità del capo rivolta verso l’alto oppure verso un punto di fronte a te;

  1. Comincia a respirare lentamente, con il naso, lasciando uscire fuori l’aria.
  2. Ora respira solamente, e osserva il tuo respiro senza giudicare quello che senti, pensi o percepisci.
  3. Concentra tutta la tua attenzione sul respiro. Se qualcosa attira la tua attenzione, sia un pensiero, un ricordo o un’emozione o anche un suono, nota di esserne stato “agganciato” e dolcemente riporta l’attenzione sul respiro.
  4. Continua questa pratica per il tempo che ritieni sufficiente (intorno ai 3-5 minuti per iniziare può essere una durata adeguata) e poi apri gli occhi.

Provando questo assaggio di pratica mindfulness, le prime volte mi sono accorto di come sia davvero difficile concentrare tutta l’attenzione sul respiro, liberando la mente e non facendosi “agganciare” da un pensiero o da un suono. Praticandola per un po’ di tempo, però, mi sono accorto di una cosa: che la nostra mente continua a viaggiare di qua e di là anche senza la nostra intenzione consapevole. Ma non è stata questa la scoperta. Quello che mi ha colpito molto (e che mi sta mantenendo un praticante interessato da anni…) è come sia possibile imparare a guardare e osservare i propri pensieri ad un metro di distanza; non si possono cancellare o rifiutare (nè sarebbe utile, proviamo a non pensare a un elefante bianco…) ma si può comprendere e fare una piccola e affascinante esperienza di quello che Russ Harris definisce “il sè che osserva quello che pensa” (Harris, 2011).

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Harris R. (2011). Fare ACT. Una guida pratica per professionisti all’Acceptance and Commitment Therapy. Franco Angeli: Milano.

 

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Amica? Nemica!

Striscia comica Amica-Nemica - Autore: Costanza Prinetti

 

Da un po’ di tempo sono apparse, sui giornali e sui muri delle città, pubblicità per il nuovo lancio della rivista femminile ‘Amica’. Si tratta di tre copertine, ognuna centrata su una diversa modella. Il sito Amica ci invita a scegliere tra una di queste tre ‘amiche’: ‘Irina che odia le ipocrisie, Elisa che conquista il suo uomo in cucina oppure Eva, mamma sexy e felice.’ Sul sito, possiamo leggere anche le loro ‘esclusive’ interviste. Vorremmo soffermarci un attimo sulle copertine e sulle (ulteriormente illuminanti, se ce ne fosse bisogno), interviste. Potete trovare il tutto cliccando qui.

Amica Nemica - Cover della rivista Amica - Bella Sexy e CasalingaCopertina 1: Elisa Sednaoui, dall’alto del suo vestito da sposa semitrasparente (sembra un po’ la sposa cadavere), con in mano guantoni di gomma e spazzolone per pulire, ci ricorda:

“Bella sexy e casalinga. Gli uomini ci vogliono così. E nell’intervista spiega: ‘Gli uomini vogliono tutto: la mamma, la moglie, l’amante. La donna che sa stare in casa, e soprattutto in cucina, ha dei punti in più. Per il ruolo, non per il cibo”.

Lorella Zanardo ha spesso parlato dell’interiorizzazione dello sguardo dell’uomo. Ma chi l’ha detto che le donne debbano schiacciarsi su quello che gli uomini vogliono? Anche perché non è affatto detto che vogliano sempre il nostro bene. E se, a volte, volessero cose che a noi fanno male? Per esempio, le donne ‘che sanno stare in casa’ sono a più alto rischio sia di obesità (Ersoy et. al. 2005) che di depressione (Mostow and Newberry 1975). Perché invece non chiederci come le donne SI vogliono? Per conto nostro, temiamo che gli uomini che ci sognano spose cadaveri con spazzolone allegato forse (sicuramente) non sono quelli che vorremmo. Il nostro consiglio alle altre donne (se mai venisse loro il dubbio) è di evitarli con cura. Meglio gli uomini che ci vogliono realizzate in quello che noi vorremmo diventare. Vi risparmiamo i dati sulla crescente istruzione femminile per non sembrare pedanti. Però alcuni li potete trovare qui:

Amica Nemica - Cover rivista Amica - 2 Seconda copertina: “Sono una mamma e mi sento ancora più donna”.

Nell’intervista, Eva Herzigova viene descritta così: Il piccolo Philip ha solo otto mesi, ma lei è in una forma smagliante. Il corpo di una ventenne… poi lei spiega: “sono una mamma non una suora. E grazie al cielo, Greg è altissimo, quindi posso portare i tacchi”.

Donne, ragazze, future mamme, questi sono i modelli che vi vengono proposti. Se per caso, ma molto per caso diventate madri, non mettetevi pantofole, maglioni di pile arancioni, sciabattando per la casa, ma tenete bene a mente che il problema centrale, il problema cruciale di questo momento è rimanere sexy (e miracolosamente giovani) per il vostro uomo, combattente metropolitano che tornando a casa, non può, proprio non può trovarvi senza un tacco 12 e una guepière nera.

Dal nostro punto di vista, la contraddizione mamma-donna ci sembra alquanto artificiale, per non dire insensata. Almeno quanto l’identificazione totale tra le due identità. Le donne possono diventare madri oppure no, ma questo non ha alcuna relazione col loro essere donne o meno. Il modello della top model Herzigova, invece, ci sembra quasi comico per la sua siderale distanza dalla realtà quotidiana della stragrande maggioranza delle donne. Sarebbe comico e non offensivo, se le donne non lavorassero in media due ore al giorno in più degli uomini per stare dietro a lavoro, casa e famiglia, guadagnando meno, avendo più difficoltà a trovare lavoro o a raggiungere posizioni di potere, ed essendo scarsamente (e malamente) rappresentate nella vita pubblica. Speriamo che per loro la maternità quando e se arriva, non si riduca ad un problema di linea.

 

Amica Nemica - Cover rivista Amica - 3L’ultima copertina (se vogliamo sceglierci come amica Irina Shayk) recita: Amo gli animali. Devo proprio rinunciare alle pellicce? E poi spiega: “Le persone che si scandalizzano per le pellicce spesso dimenticano le scarpe di cuoio che stanno calzando in quel preciso istante. Questa sì che è una contraddizione”. Con la stessa stringente logica con cui si potrebbe sostenere che siccome in alcuni stati esiste la pena di morte allora va benissimo andare in giro ad ammazzare la gente. Anche perché, in fondo, disprezzare i problemi legati all’ambiente è così cool al giorno d’oggi. Soprattutto in un posto come l’Italia, evidentemente situato all’interno del circolo polare artico, per cui, come per gli Inuit, usare una pelliccia è praticamente una questione di sopravvivenza.

 

A questo punto, ci sembra evidente che le riviste cosiddette “femminili” si possono dividere in “per le donne” e “dalla parte delle donne”. Le riviste “per” le donne fotografano uno status quo, mentre quelle “dalla parte” spingono in avanti il ruolo. Al momento, in Italia, la prima categoria comprende la stragrande maggioranza dei giornali (se non tutti). Un esempio (francese) di rivista ‘dalla parte le donne’ è stato segnalato dal blog Un’ altra donna, ed è questo: Causette.

Al di là degli ovvi benefici che comporterebbe per di più della metà della popolazione, ci possiamo chiedere se per l’intera società sia importante spingere il ruolo delle donne verso gradi di maggiore autocoscienza, autonomia e libertà. Alcuni dati iniziano ad essere ben noti, ad esempio che l’ineguaglianza di genere danneggia il buon funzionamento sociale. Un sacco di risorse perse, pochi vantaggi economici e sociali. Comincia ad essere chiaro che società più paritarie funzionano meglio. Due tra le tantissime risorse disponibili in questo senso:

E dunque più che Amica, ci pare che la nuova rivista sia l’ennesima Nemica, che ingabbia le donne dentro stereotipi obsoleti e dannosi per loro stesse e per la società in genere. A meno che, ovviamente, non vi piacciano amiche incivili, antiquate e decisamente sadiche.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Rassegna Stampa: Martedì 8-11-2011

rassegna stampaMetanfetamine (e Cannabis) e insorgenza di Schizofrenia

La metamfetamina, meglio conosciuta come “speed”, e altri stimolanti di tipo anfetaminico sono il secondo tipo più comune di droga utilizzato in tutto il mondo. Nel primo studio a livello mondiale nel suo genere, gli scienziati del Centro di Toronto per la Salute Mentale e Dipendenze (CAMH) hanno raccolto le prove a sostegno del fatto che chi fa uso massiccio di metamfetamina ha un maggiore rischio sviluppare schizofrenia rispetto al resto della popolazione. Questa scoperta si è basata su un ampio studio che ha confrontato il rischio di sviluppare una patologia schizofrenica in un gruppo sperimentale composto da persone che facevano abuso di metanfetamina, rispetto a un gruppo di controllo che non faceva uso di droghe, ma anche rispetto ad altri gruppi composti da consumatori di altre sostanze, come cannabis, alcol, cocaina o oppiacei. I ricercatori hanno scoperto che le persone ricoverate per dipendenza da metanfetamine, che non avevano avuto una diagnosi di schizofrenia o di sintomi psicotici, avevano un rischio da 1,5 a 3,0 volte superiore di ricevere, in seguito, una diagnosi di schizofrenia, rispetto ai gruppi di pazienti che facevano uso di altre sostanze. Ma non è tutto: l’aumento del rischio di schizofrenia per i consumatori di metanfetamine era simile a quella di grandi utilizzatori di cannabis. Il rapporto sarà pubblicato online, ancora prima che su carta, l’8 novembre 2011 dal Journal of Psychiatry, la rivista ufficiale della American Psychiatric Association.


La Paternità e i suoi effetti sugli uomini con comportamenti a rischio

Sull’ultimo numero del Journal of Marriage and Family sono stati pubblicati i risultati di una ricerca che suggerisce che la paternità può essere un’esperienza trasformativa anche per gli uomini responsabili di comportamenti ad alto rischio. I ricercatori dell’Oregon State University e dell’Università di Houston hanno osservato come la criminalità maschile, l’uso di tabacco, alcool e marijuana siano cambiati nel tempo in più di 200 ragazzi considerati a rischio. Precedenti studi avevano già messo in evidenza come il matrimonio negli uomini abbia un effetto positivo sui comportamenti a rischio, ma l’effetto della paternità non era ancora stato valutato. I ricercatori hanno scoperto che gli uomini che diventano padri tra i 20 e i 30 anni riducono sensibilmente i comportamenti criminosi, l’uso di alcol e di tabacco, rispetto a quelli che hanno avuto il primo figlio in età adolescenziale o comunque entro i 20 anni. Il potere metamorfico della paternità sembra quindi dipendere fortemente dal momento evolutivo nel quale arriva il primo figlio: neo padri non troppo giovani si sono dimostrati più disponibili, e pronti, a modificare stili di vita dannosi. Questo per i ricercatori è un dato importante perché permette di identificare una finestra temporale durante la quale è possibile intervenire efficacemente nel caso di situazioni familiari a rischio a causa dei comportamenti paterni dannosi.

Un precedente articolo degli stessi autori: The timing of entry into fatherhood in young, at-risk men

 

Terza età e Memoria: dimenticarsi degli Stereotipi

Secondo i ricercatori del Laboratorio di invecchiamento cognitivo e di memoria alla Tufts University, è tipico tra gli anziani essere vittima dei comuni stereotipi sulla perdita di memoria durante la vecchiaia; questo li indurrebbe implicitamente a considerare le proprie prestazioni mnestiche come progressivamente compromesse a causa dell’età. Nel corso di una verifica sperimentale i ricercatori hanno detto a un gruppo di partecipanti (sia gli anziani che giovani) che la loro memoria sarebbe stata testata e che era tipico per gli anziani avere prestazioni molto inferiori a quelle dei giovani adulti. Un altro gruppo veniva invece testato in un compito di riconoscimento di parole, ma, per minimizzare l’enfasi sul fatto che si trattasse di un compito di memoria, veniva detto ai partecipanti che stavano svolgendo un test di lingua invece che un compito di memoria. I risultati dell’esperimento indicano che i soggetti anziani, che erano stati informati prima dello svolgimento sulle differenze nelle prestazioni tra giovani e anziani, avevano effettivamente prestazioni peggiori di quelli a cui non era stata data questa informazione. Sembra proprio che gli stereotipi sulla perdita di memoria legata all’avanzare dell’età possano generare profezie in grado di autodeterminarisi.

 

Risonanza Magnetica come strumento diagnostico in psichiatria

All’Istituto di Psichiatria, King College di Londra in collaborazione con il Dipartimento d’Informatica dello University College è stato condotto un importante studio sulla corretta applicazione di algoritmi informatici all’analisi di scansioni MRI. L’uso di algoritmi per quantificare il rischio di ulteriori episodi di malattia è uso comune in medicina cardiovascolare e oncologica, ma in psichiatria non erano disponibili fino ad ora risultati sperimentali affidabili. I risultati di questo nuovo studio indicano che l’algoritmo, applicato alle scansioni cerebrali registrate al primo episodio di psicosi, è stato in grado di prevedere correttamente in 7 casi su 10 il successivo decorso della malattia. Questo sembra essere il primo passo verso l’introduzione dell’uso di immagini cerebrali in psichiatria, addirittura inserendo la procedura in indagini cliniche di routine. Nel caso di esordi psicotici potrebbe essere un modo veloce e affidabile per fare previsioni e ottimizzare i trattamenti nei casi più gravi, evitando contemporaneamente la somministrazione a lungo termine di farmaci antipsicotici in pazienti con forme molto lievi.


Arousal

Psicopedia - Proprietà di State of MindArousal

Il termine indica lo stato di attivazione neurovegetativa dell’organismo ed è legato cambiamenti dell’assetto fisico e psicologico di ogni individuo. Sul piano fisico questo stato di attivazione coinvolge diversi sistemi biologici, quali sistema nervoso autonomo e sistema endocrino, e la sua intensità è misurabile attraverso specifici parametri (frequenza cardiaca, sudorazione corporea, pressione arteriosa, concentrazione di cortisolo,..), mentre sul piano psicologico orienta le nostre capacità di memoria, attenzione, presa di decisioni , espressione delle emozioni e messa in atto di comportamenti.
 
L’aumento o la diminuzione dell’attività neurovegetativa ci permette di perseguire i nostri bisogni o di fronteggiare situazioni di emergenza ed è quindi particolarmente coinvolta nelle scelte legate alla ‘sopravvivenza’ quali soddisfazione dei bisogni primari (fame, sete, sonno, attività sessuale,..) e risposte a stimoli percepiti come pericolosi (fuga, attacco, svenimento, blocco dell’azione).
 
L’organismo può prepararsi attraverso due opposte strategie, entrambe utili e adattive:
Iper-arousal: “stato di iper-vigilanza” che generalmente si manifesta con tachicardia, sudorazione eccessiva, respiro accelerato, agitazione fisica e motoria, tensione muscolare, tendenza all’azione, aumento delle capacità attentive, di memoria e decisionali (es: attacco, fuga, blocco dell’azione);
Ipo-arousal: “stato di accasciamento” che generalmente si manifesta con rallentamento del battito cardiaco, riduzione della pressione arteriosa, respiro lento, assenza di energie, ridotto tono muscolare, diminuzione delle capacità attentive, di memoria e di elaborazione ragionamento (es: svenimento).

La terapia e il benedetto egoismo

Anger - © ioannis kounadeas - Fotolia.comMi è accaduto negli ultimi tempi di radunare parecchie riflessioni attinenti sia dalla pratica clinica sia da quanto ascoltato nelle parole di amici e conoscenti che hanno intrapreso una terapia; altra fonte di ispirazione assai fertile, la mia esperienza personale di paziente. Ebbene vi è una tendenza ricorrente, sulla quale sarebbe interessante indagare, che riguarda l’emergere di qualcosa che chiamerei “benedetto egoismo”.

La terapia promuove risorse personali che nella storia di vita del paziente sono state fortemente limitate da vari fattori, quali una famiglia invischiante, un genitore criticista, l’incapacità di decentramento metacognitivo da parte delle figure di riferimento e molti altri. I bisogni del soggetto che si rivolge a noi sono stati spesso ignorati, negati esplicitamente o trasformati attraverso l’attribuzione di significati distorti. Spesso hanno rappresentato un elemento antagonista all’espressione e alla cura dei bisogni del caregiver, il quale non è riuscito a togliere sé stesso e le proprie emozioni negative dal centro della relazione. Il paziente in questi casi ci porta un vissuto di sofferenza legato alla difficoltà di entrare in contatto con le reali priorità della sua esistenza; queste possono essere riconosciute sul piano razionale ma complicate da raggiungere attraverso un percorso emotivo, oppure scarsamente individuate. Il soggetto può essere tuttora impegnato in un’opera di accudimento invertito nei confronti delle figure genitoriali, e provare colpa al solo pensiero di lasciarle andare, di staccarsi da esse per pensare ai propri scenari di sviluppo. Col procedere della terapia assistiamo spesso ad un cambiamento significativo, in virtù del quale egli comincia ad occuparsi di sé e a rendere progressivamente marginali quei comportamenti che in precedenza costituivano il nucleo delle sue relazioni problematiche.

Esiste naturalmente un continuum di gravità nella potenza dell’invischiamento iniziale, nonché una vasta gamma di modalità con cui si verifica la successiva separazione, ma non di rado le percezioni del paziente riguardano un consistente incremento di una tendenza definita con termini diversi: egoismo, spirito di conservazione, autoconsapevolezza, indipendenza. Persino menefreghismo, quando il senso di colpa induce a minimizzare il valore positivo del cambiamento che si sta compiendo. Poco alla volta il soggetto realizza di essere stato passivo nella relazione di coppia, incapace di proteggere i propri confini dall’ansia materna o dai rimproveri paterni, quasi mai assertivo nel sostenere uno scopo personale a fronte di richieste illegittime dell’ambiente. La psicoterapia favorisce un irrobustimento dell’individualità, un benedetto egoismo. Diventa quasi inevitabile ricorrere ad un ossimoro per descrivere questo fenomeno, poiché l’egoismo è un valore tanto perseguito dalle società occidentali quanto contrario ad una convivenza serena tra gli esseri umani. Come dimostrano le attuali condizioni sociali e civili dell’umanità in generale e del nostro Paese in particolare.

In terapia però non ci proponiamo di liberare il cinismo latente che alberga nel paziente, né di convincerlo della bontà di comportamenti che escludano il prossimo dalla condivisione di emozioni ed esperienze positive: sarebbe un egoismo maledetto. Col nostro lavoro poniamo invece un interrogativo sulla scelta: corrispondono davvero ad un reale bisogno del paziente le modalità con cui egli ha imparato a strutturare le relazioni interpersonali? La scelta di anteporre costantemente gli scopi altrui ai propri è stata consapevole, libera e finalizzata alla crescita personale? Oppure avrebbe desiderato qualcosa di diverso, se solo fosse riuscito a mentalizzare ciò che stava accadendo e a non sentirsi colpevole per la propria autonomia?

Accade sovente che rispondendo a queste domande il paziente si arrabbi, sia con coloro che hanno ignorato la sua individualità sia con sé stesso per non essersi opposto prima, e non di rado possiamo assistere ad un rapido aumento dei comportamenti oppositivi, ad una rivendicazione forte dell’autonomia che comincia finalmente a profilarsi. La terapia aiuta a mio avviso a conciliare le due fasi, a generare una sintesi hegeliana fra tesi e antitesi: il paziente diventerà liberamente capace di creare uno spazio di vita pacifico nel quale i desideri di autorealizzazione non vengano soppressi. O almeno è questo il fine ultimo del lavoro che conduciamo insieme a lui. Con un pizzico di benedetto egoismo.

 


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L’abito (non) fa il monaco

Lonely - © Vibe Images - Fotolia.comQualche giorno fa mi è capitato di vedere in televisione un dibattito in occasione del compleanno delle gemelline Schepp scomparse lo scorso Febbraio. Ricordiamo che delle due bambine di 6 anni si è persa traccia dopo il suicidio del padre alla stazione di Cerignola, in Puglia. Uno dei temi centrali della discussione riguardava la figura paterna: uomo distinto, laureato, mai dato segni di squilibrio, al di sopra di ogni sospetto, tanto che la ex moglie gli aveva permesso di portare via le figlie per qualche tempo. La domanda chiave veniva ripresa più volte dagli ospiti della trasmissione: è possibile che quest’uomo non avesse mai dato un qualche segno di instabilità, debolezza, di stranezza? È possibile che fosse ritenuto affidabile e responsabile e un minuto dopo compiva un atto del genere?

Questi sono discorsi che spesso sentiamo in occasione di eventi come questo: il fidanzato premuroso, una famiglia perfetta, degli zii affettuosi, tutte persone normali che, in maniera inspiegabile, arrivano a compiere atti terribili inaspettatamente. Ma che cosa possiamo dire di come reagisce la mente umana di fronte alla gelosia, alla frustrazione, al dolore insopportabile di un matrimonio finito? Nel caso delle gemelle Schepp siamo davanti al dolore e alla disperazione di un uomo e di un padre che vede davanti a sé probabilmente soltanto la paura di avere perso i suoi punti di riferimento, i suoi legami affettivi, la paura di dovere per forza fare i conti con questo dolore. E  -annebbiato dalla disperazione e dal vuoto- che cosa faccio? Cancello ogni traccia, ogni legame, proprio come qualcuno ricordava, fece Medea nei confronti di Giasone nella celebre tragedia di Euripide, compiendo l’atto più infangante, cancellandone la stirpe, uccidendo i figli.

Io non so se di fronte a situazioni simili ci siano segnali “premonitori” oppure no, anche se credo sia difficile che i fulmini arrivino a ciel sereno. Molti incolpano la società: viviamo in un mondo frenetico, dove tutto va veloce e non c’è tempo per soffrire e ripartire, non abbiamo legami estesi alla comunità, come invece era più frequente un tempo, non sentiamo il supporto di un gruppo e nel dolore siamo spesso lasciati soli – e perciò nessuno si accorge dei cosiddetti “segnali” che, probabilmente in maniera non trasparente, ci sono.

A questo proposito mi sembrano molto adatte le parole di Francesco Alberoni: “L’apparenza inganna, l’abito non fa il monaco. Proverbi stupidi che invitano alla pigrizia perchè tutto ciò che noi siamo si oggettiva all’esterno. I nostri sentimenti, i nostri valori, i nostri vizi, le nostre virtù si stampano sul nostro volto, traspaiono nei nostri gesti, nel nostro linguaggio, nel nostro abbigliamento, nelle cose che leggiamo o non leggiamo, nell’arredamento della casa, dell’ufficio, nella scelta dei nostri amici, dei nostri collaboratori. Noi siamo dei libri aperti. Ma la gente o ha gli occhi chiusi, o non sa leggere o non lo legge con attenzione”.

Analisi dei sogni: non solo psicoanalisi

Federica Vannozzi.

Dream-© Vladimir Melnikov - Fotolia.comUn approccio all’analisi e all’uso del sogno può essere molto utile se concentrato sul contenuto emotivo del sogno stesso che emerge prepotentemente durante il sonno, rimane attivo al risveglio e a volte anche durante il giorno. Durante il colloquio, io e il mio paziente applichiamo l’ABC al sogno che viene raccontato secondo il tipico percorso: A – C – B. Credo sia importante aprire una piccola parentesi sul B: sarebbe a mio parere molto interessante capire se la valutazione – dell’evento A sogno – sia una valutazione effettuata durante il sogno oppure a posteriori ovvero al risveglio o nel momento esatto in cui il terapeuta chiede al paziente “Che cosa ha pensato mentre durante il sogno cadeva nel vuoto?”.

Una volta esplicitata in seduta l’emozione provata durante il sogno, chiedo al paziente se negli ultimi giorni abbia provato la stessa emozione in fase di veglia per creare un ponte importante con la realtà. Se il paziente trova difficoltà, chiedo se la stessa emozione sia stata vissuta da piccolo o comunque in un tempo più remoto e in che circostanza.

Il mio paziente evitante, pochi giorni prima di affrontare un primo colloquio con lo psichiatra, sogna la sua prima seduta con lui “Ero seduto davanti al dottore, ad un tratto prende la mia mano come per rassicurarmi e improvvisamente comincia a stringerla fortissimo e a tirarla verso di lui. Il viso era diventato spaventoso”. Immediatamente dopo il racconto, affrontiamo il sogno con un ABC partendo dall’emozione chiaramente di paura. Ricollega immediatamente il sogno a sua madre soprattutto per la caratteristica spaventante dell’imprevedibilità del comportamento della donna (elemento in comune con il sogno). Trattandosi di un paziente evitante, è stato facile collegare il sogno anche alla sua enorme paura di affrontare una qualsiasi relazione (dunque non solo terapeutica) vissuta come fagocitante e pericolosa.

Altro esempio: un mio paziente aveva difficoltà ad immaginare cosa sarebbe successo se un giorno avesse perso il controllo in casa con i suoi familiari. Dopo un paio di sedute dedicate in parte a questo argomento, mi racconta il suo sogno “Sono in salotto, sollevo un posacenere, lo tiro e distruggo la vetrinetta con i soprammobili in cristallo di mia madre. Lei entra, prende un pezzo di vetro affilato e cerca di tagliarmi il braccio mentre il suo volto diventava mostruoso”. E’ evidente come il paziente abbia trovato la risposta alla mia domanda tramite questo sogno. Io stessa posso raccontare un sogno ricorrente negli anni: prima di ogni esame universitario sognavo di perdere i denti. Segue l’ABC: Emozione provata: vergogna, imbarazzo; Pensiero: “se mi vedono in questa condizione sprofonderò sotto terra. Non posso più sorridere”. Il passo seguente è stato quello di collegare l’emozione all’evento dell’esame insieme ad un B: “Ho paura di fare una figuraccia davanti al professore se non sapessi rispondere alle sue domande”.

Esistono inoltre dei sogni che rappresentano l’emozione sottoforma di una figura, di un’immagine, quasi fosse una “materializzazione” in toto delle emozioni. Riporto come esempio un sogno sempre fatto da me: “Sono nel buio, non c’è soffitto, non c’è pavimento, non c’è spazio. Davanti a me in penombra, c’è una donna con i capelli rossi ricci e arruffati fino alle spalle. Indossa un abito da clown giallo e rosso. E’ davanti a me immobile ad attendere un mio movimento perché non appena muovo un dito, mi graffia tutto il corpo per poi tornare immobile al aspettare senza mai svelare il viso”. Credo che questa figura inquietante racchiuda in sé tutte le caratteristiche dell’ansia: l’attesa, il controllo, l’ambiguità, l’imprevedibilità, il pericolo sempre pronto ad attaccare, la paura che immobilizza. Forse, analizzare il sogno concentrandosi sul contenuto emotivo, può essere utile soprattutto in pazienti alessitimici.

Attacchi di Panico: Il Protocollo di Andrews.

Intervista alla Dottoressa Leveni, esperta di Disturbo d’Ansia.

Panic Attack - © Scanrail - Fotolia.comCirca il 28% della popolazione almeno una volta nella vita sperimenta un occasionale ed inaspettato attacco di panico, tuttavia solo nel 3-5-% della popolazione insorge il terrore di poterlo sperimentare nuovamente. Terrore che a sua volta innesca il circolo vizioso dell’ansia fino a dare origine a un Disturbo da Attacchi di Panico. Questo disturbo è caratterizzato dalla presenza di attacchi di panico che, sebbene durino pochi minuti, provocano un disagio molto intenso e possono lasciare l’individuo prostrato per molte ore. Questo disturbo, se non curato, non solo tende a cronicizzarsi rapidamente, ma riduce anche l’autonomia personale, l’efficienza lavorativa e scolastica, la qualità della vita compromettendo le relazioni familiari e sociali di chi ne è affetto.

Nel tempo sono stati studiati differenti trattamenti per questo disturbo e, grazie a questa linea di ricerca, quelli attualmente disponibili  sono altamente validi, tanto che oltre l’80% dei soggetti può imparare a tenere sotto controllo questo problema. La maggior parte dei trattamenti psicoterapici proposti si basa sulla Terapia Cognitivo Comportamentale (Cognitive Behaviour Therapy- CBT) che si è dimostrata essere altamente efficace e per questo motivo viene raccomandata dalle linee guida delle maggiori organizzazioni scientifiche mondiali. Gli interventi CBT si basano su protocolli strutturati che devono essere seguiti durante la terapia. Uno dei protocolli più utilizzati e più studiati per il trattamento del Disturbo di Attacchi di Panico è quello messo a punto dal prof. Andrews a Sidney. Questo protocollo si struttura secondo 7 punti (psicoeducazione, monitoraggio del panico, tecniche di gestione dell’ansia, ristrutturazione cognitiva, esposizione graduale alle situazioni, esposizione graduale alle sensazioni fisiche, prevenzione delle ricadute) ed è stato pensato principalmente per il trattamento di gruppo. Tuttavia, come del resto tutti i protocolli, anche questo presenta vantaggi e svantaggi. Ne parliamo con la Dott.ssa Leveni responsabile del Centro per il Trattamento dei Disturbi d’Ansia del DSM di Treviglio Caravaggio (BG) che ha personalmente studiato, applicato ed approfondito questo protocollo.

 

Riguardo al protocollo sviluppato da Andrews, quali sono secondo Lei i Pro e i Contro del trattamento?

 

Un primo aspetto positivo è che si riduce considerevolmente la durata in termini di tempo del trattamento e la fatica in generale. Questo perché c’è una guida, un percorso da seguire, con l’aiuto di un professionista ed inoltre i pazienti sono anche agevolati dal manuale che possono consultare e che li aiuta a fissare nella memoria quanto è stato affrontato durante la seduta. Questa è una cosa molto apprezzata. Un altro aspetto positivo è che anche come terapeuti si è più tranquilli rispetto all’errore. Seguendo il manuale si può tranquillamente applicare la terapia “basic”, che è efficace di per sé. Poi si possono aggiungere altre parti a seconda delle competenze che un terapeuta possiede così il trattamento può apportare anche altri benefici, essere ancora più efficace.

 

Quali sono gli svantaggi di un protocollo simile?

 

Gli svantaggi di questi manuali è che bisogna imparare a personalizzarli, perché c’è il rischio di leggerli in modo un po’ meccanico … del tipo “questa è l’indicazione se una cosa la fai bene, sennò non so che dirti”. Semplificare un po’ troppo, diventare un po’ troppo “comportamentisti”. In altre parole la difficoltà è esplicitare lo stesso concetto a seconda del paziente che si ha davanti. Quando seguo il manuale anche se faccio la stessa cosa, è come se lo riscrivessi per dirla in modo nuovo e significativamente utile per quella persona. È questa un po’ la sfida.”

 

Il protocollo è pensato per una terapia di gruppo. Nella sua esperienza Lei ha avuto l’opportunità di lavorare sia con pazienti in gruppo che con il paziente singolo. Dal suo punto di vista quale dei due interventi è migliore? Anche rispetto al bisogno di personalizzare il trattamento.

 

Alcuni aspetti sovraordinati non possono essere modificati in una condizione di gruppo. Per esempio il rapporto genitore-figlio, in base al quale quella persona ha imparato quel costrutto o quella credenza che non può essere modificata in un contesto di gruppo perché richiede di focalizzarsi su altri concetti di base. Oppure negli Attacchi di Panico la paura per il giudizio altrui, come nella fobia sociale. E’ anche vero che il trattamento viene preparato prima e quindi il clinico, con un minimo di esperienza, riesce a capire come il disturbo si declina in quella persona e, ad esempio, quando interviene nella discussione di gruppo sapendo già che vive quell’aspetto di cui si sta parlando, il clinico cerca di riportarlo al suo caso. Ovviamente non andando troppo in profondità o spaziando troppo, bisogna rimanere aderenti, ma qualcosa si può fare. E’ capitato che alcuni pazienti dopo aver partecipato al gruppo e aver risolto il “corto circuito” per cui erano arrivati, chiedessero dei trattamenti individuali per parlare di problemi che agivano come fattori predisponenti. Il trattamento individuale è un po’ un minestrone c’è un po’ di tutto, l’importante è seguire il canovaccio.”

 

 

References:

 

Andrews G., Creamer M., Crino R., Hunt C., Lampe L., Page A. (2003) Trattamento dei disturbi d’ansia. Guide per il clinico e manuali per chi soffre del disturbo. Edizione italiana a cura di Guidi A., Leveni D., Lussetti M., Morosini L., Piacentini D., Rossi G.

 

www.cetrada.it

Rassegna Stampa: Venerdì 04-11-2011

rassegna stampaNon servono parole: sono emozioni!

La comprensione delle emozioni dipende dalla lingua che parliamo, o la nostra percezione è la stessa indipendentemente dal linguaggio e dalla cultura? Un nuovo studio condotto in Germania dai ricercatori del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology per la psicolinguistica e per l’antropologia evolutiva, conferma la tesi che per comprendere un emozione sul viso di qualcuno non c’è bisogno di avere parole per descriverla. I ricercatori hanno confrontato le capacità di discriminazione delle emozioni di disgusto e rabbia di due gruppi di diversa lingua madre: il tedesco e una lingua maya, parlata da alcuni abitanti della penisola dello yucatan; a questi ultimi manca un vocabolo per descrivere il disgusto. Nonostante questo, durante i compiti sperimentali di riconoscimento e discriminazione delle emozioni di rabbia e disgusto questa emozione è stata comunque correttamente identificata; le due emozioni venivano puntualmente differenziate anche dai parlanti la lingua maya, nonostante nella lingua parlata ci fosse un unica parola per definire entrambi gli stati emotivi.

I risultati dello studio, pubblicati su Emotions, rivista della American Psychological Association, sostengono l’idea che le emozioni si sono evolute come un insieme di meccanismi umani di base, in cui le categorie emozionali come la rabbia e il disgusto esistono indipendentemente dal fatto che ci siano parole adatte a descriverle.

 

Livello di istruizione e incidenza del divorzio.

Una nuova ricerca condotta dal National Centre for Family and Marriage Research mostra che vi è una sostanziale variazione nella percentuale di divorzio quando questa è ripartita per razza e livello di istruzione. Alcuni dati sono addirittura a sostegno del fatto che la laurea avrebbe un effetto protettivo contro il divorzio in tutti i paesi. I risultati rivelano che la riduzione della probabilità di divorzio al primo matrimonio in gran parte riflette un aumento della stabilità coniugale tra i coniugi più istruiti. La correlazione tra livello di istruzione e probabilità di divorzio è curvilinea: i tassi più bassi di divorzio sono associati a coppie con al massimo la licenza media o ai laureati, i tassi più alti riguarderebbero quindi gli individui con diploma superiore ma senza laurea. Per quanto riguarda le etnie sembra invece che siano le coppie asiatiche le più stabili, con un tasso di probabilità di divorzio dell’1%; a seguire le coppie di razza caucasica (1,6%) ed ispanica (1,8%), e infine quelle afroamericane con una probabilità di divorzio al primo matrimonio del 3%. La correlazione tra tasso di divorzio e livello di istruzione si differenzia ulteriormente a seconda dell’etnia: tra le donne afro-americane e quelle ispaniche minori tassi di divorzio sono associati ai livelli di istruzione più bassi. Le donne di razza caucasica invece mostrano poche differenze in relazione ai livelli di istruzione, ma quelle laureate hanno tassi di divorzio più bassi rispetto a qualsiasi altro gruppo.

 

Ipertensione: Come vivere in una chat senza vedere le emoticon :(

secondo uno studio recentemente condotto dal prof McCubbin della Clemson University sembrerebbe che le persone affette da ipertensione abbiano una capacità ridotta di riconoscere le emozioni e discriminare i passaggi di registro nel corso delle comunicazioni con gli altri. “E ‘come vivere in un mondo di e-mail senza faccine sorridenti”, dice McCubbin,”Questo può portare a problemi di comunicazione, a scarse prestazioni sul lavoro e una maggiore disagio psicosociale”. Infatti in situazioni sociali complesse, come ad esempio gli ambienti lavorativi, la gente fa affidamento sulle espressioni facciali, verbali ed emotive per interagire adeguatamente con gli altri; un deficit nel riconoscimento delle emozioni rende difficile la comprensione degli altri durante le interazioni sociali, favorendo un clima di diffidenza nel quale è facile sentirsi minacciati dagli altri, che risultano quantomai imprevedibili. Il legame tra scarsa capacità di riconoscimento emotivo e l’alta pressione può essere responsabile nello sviluppo di patologie come l’ipertensione arteriosa e le malattie coronariche, ma anche avere un ruolo nei disturbi dell’umore, bipolari e depressivi. Ancor più infelicemente sembra che il deficit di riconoscimento delle emozioni si manifesti anche in presenza di emozioni positive, limitando quindi gli effetti benefici delle relazioni affettive felici, delle vacanze e degli svaghi in generale.

Cellule Staminali: nuovo passo avanti, restaurando telomeri.

Stem cell - © Elena Pankova - Fotolia.comL’elisir di lunga vita potrebbe non essere più solamente  un’utopia o un buon argomento per la trama di un film fantasy,  infatti da qualche giorno rimbalza sui quotidiani di tutto il mondo e sulle riviste di settore una notizia che ha dello stupefacente: un gruppo di ricercatori ha individuato la “pozione magica” per garantire l’eterna giovinezza.

Ma veniamo ai dettagli e per farlo partiamo dal 2007 anno in cui il gruppo di ricerca giapponese  guidato dal  dottor Shinya Yamanaka dell’università di Kyoto individuò il metodo per riprogrammare alcune cellule staminali adulte in cellule staminali pluripotenti (iPS) cioè in grado di differenziarsi in quasi tutti i tessuti di un individuo adulto. La “magia” avvenne grazie all’inserimento nel DNA originario di quattro geni chiamati Oct3/4, Sox2, Klf4 e c-Myc  espressi normalmente nelle cellule staminali.

Nonostante la grande scoperta i risultati non furono quelli sperati, infatti il protocollo non portò mai ad un riscontro positivo con cellule di persone anziane, ovviamente le più bisognose di terapie staminali. L’insuccesso sembra da attribuire alla senescenza cellulare, il naturale processo che innesca la morte della cellula (apoptosi) quando questa non è più in grado di duplicarsi correttamente a causa della degradazione della porzione terminale del cromosoma, il telomero.

I telomeri, composti da sequenze ripetute di DNA e da alcune proteine, hanno la funzione di proteggere le terminazioni dei cromosomi impedendone la degradazione progressiva e quindi il rischio di perdita di informazione a cui si andrebbe incontro ogni volta che essi si replicano. Di contro, fungendo da capsula protettiva, tendono a degradarsi loro stessi ogni volta in cui avviene il processo di mitosi (duplicazione cellulare); si pensa quindi che essi agiscano come una sorta di orologio biologico: quando viene raggiunto un numero massimo di mitosi, e la la cellula risulta troppo vecchia per essere mantenuta in vita, prende allora la via dell’apoptosi.

Ed è qui che entra in gioco l’équipe del dottor Jean-Marc Lemaître dell’Istituto di Genomica Funzionale dell’Università di Montepellier. L’innovazione rispetto allo studio giapponese è consistita nell’aggiungere alle cellule adulte, oltre ai quattro geni standard, due nuovi elementi, ovvero i fattori di trascrizione NANOG e LIN28, proteine in grado di legarsi al DNA regolandone l’espressione.

In sintesi i fattori di trascrizione hanno contribuito a restaurare i telomeri, a modificare l’espressione di alcuni geni, e ad abbassare il livello di stress ossidativo promuovendo il funzionamento dei mitocondri (organelli in cui si genera l’energia di cui necessita la cellula per funzionare).

La nuova formula magica ha permesso di cancellare i marcatori dell’età delle cellule creando cellule staminali pluripotenti in grado di produrre cellule funzionali di ogni tipo capaci di proliferare e vivere a lungo, tutto questo partendo da cellule di donatori anziani con un range di età dai 74 ai 101 anni.

Traducendo il tutto in applicazione pratiche questa nuova scoperta permetterebbe un enorme balzo avanti nella cura di malattie neurologiche come le varie demenze, in primis la Malattia di Alzheimer, ma anche Parkinson, diabete, artrosi e molte altre patologie comuni nell’anziano.

Per diventare dei futuri hightlander però bisognerà avere  prima avere una bella dose di pazienza, passare dalla teoria alla pratica iniettando nei pazienti cellule ripotenziate richiede tempi lunghi, le prime applicazioni mediche arriveranno infatti all’incirca fra vent’ anni…nell’attesa procursarsi un buon antirughe.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Your first day of school will be scary!

Parents’ words and anxiety disorders – part 5

Anxiety - © Ilike - Fotolia.comThroughout this series I have explained that parents of anxious children tend to behave in stereotyped ways. In part four of this series, I highlighted the potential impact of fear inducing words on children. This installment will investigate the conversations that mothers have with their children in the context of clinical levels of psychopathology. In doing so, perhaps we can shed some light on the idea of parents communicating, or not communicating, anxiogenic thoughts to their children. To my knowledge only three studies have investigated this question. I will be reviewing the findings from the first two studies in this part of the series, and finishing up the third paper in the next installment.

The first study examined mother-child conversations in the light of sexual, physical and emotional maternal trauma. Although specific words were not investigated in this study and there was no control group, the results are still noteworthy. Dialogues demonstrated maternal difficulty in supporting their children’s exploration of emotional experiences (Koren-Karie, Oppenheim & Getzier-Yosef, 2004). Thus, it appears that in the context of maternal trauma, mothers might be unable to encourage their children’s exploration of their own experiences regarding emotion.

Suveg, Zeman, Flannery-Schroeder and Cassano (2005) extended this avenue of research by examining emotion socialization in families of children with an anxiety disorder. Twenty-six children with an anxiety disorder and 26 non-clinical children between the ages of eight and 12 participated in an emotion interaction task. Parents and children discussed a situation in which the child felt worry, sadness and anger. Each discussion lasted five minutes. The conversations were investigated for the frequency of mother and child use of positive and negative emotion words, the discussion and facilitation of emotion, and the total number of words spoken by the mother and child, together and individually. The results demonstrated that mothers of children with an anxiety disorder spoke less frequently than mothers of control children. Mothers of anxious children also used significantly fewer positive emotion words, and discouraged their children from discussing emotions more than mothers of control children. Mothers and their non-clinical children also displayed higher amounts of emotional expressiveness than mothers and their anxious children.

Therefore, in the context of maternal trauma, it appears that mothers have difficulty encouraging their children’s discussion of emotion. Similarly, compared to non-anxious mother-child groups, the mothers of anxious children speak less and are less positive and more discouraging during emotional discussions. In the next part of this series I will discuss the third study investigating this topic. Interestingly, this study also includes fathers during family discussions.

 

BIBLIOGRAPHY:

  • Koren-Karie, N., Oppenheim, D., & Getzier-Yosef, R. (2004). Mother who were severely abused during childhood and their children talk about emotions: Co-construction of narratives in light of maternal trauma. Infant Mental Heath Journal, 25, 4, 300 – 317.
  • Suveg, C., Zeman, J., Flannery-Schroeder, E., & Cassano, M. (2005). Emotional socialization in families of children with and anxiety disorders. Journal of Abnormal Child Psychology, 33, 2, 145 – 155.

Psicologia Ambientale

environmental_psychology© rolffimages - Fotolia.comNata all’inizio degli anni Settanta, la psicologia ambientale è una disciplina relativamente giovane che abbraccia diverse prospettive ed aree di ricerca, accomunate dall’interesse per il rapporto tra le persone e il rispettivo entourage socio-fisico.

Per coloro che ricercano in questo campo, il termine “ambiente” fa riferimento sia ad ambienti costruiti, come case, scuole, uffici e strade, che a quelli naturali, come parchi e territori selvaggi. In entrambi i casi, però, l’ambiente è un fattore critico e non viene considerato come un semplice sfondo o come un palco sul quale gli individui si muovono ed interagiscono. Per esempio, scrivono David Uzzell e Gabriel Moser, non è possibile capire l’architettura e la configurazione spaziale di una chiesa, di una moschea o di una sinagoga senza far riferimento ai relativi precetti liturgici che, inevitabilmente, influenzano i vari design, così come non è possibile capire nessun paesaggio senza far riferimento ai differenti sistemi sociali, economici e politici e alle ideologie che li fanno comprendere.

Poiché l’ambiente ha delle ripercussioni concrete sulle vite degli individui, cosa che conduce alla produzione di significati, la prospettiva adottata esalta gli aspetti transazionali del medesimo. Inoltre, esso incarna le psicologie di coloro che vi risiedono, non solo perché conferisce significati ed identità, ma anche perché consente di determinare le persone da un punto di vista culturale, sociale ed economico.

Dato il suo oggetto di indagine, la psicologia ambientale è stata principalmente una psicologia dello spazio, tuttavia, in tempi più recenti, gli studiosi di questo settore hanno esteso le loro analisi anche alle comunità e alle problematiche ad esse connesse. In questo contesto sono rilevanti gli studi sulla sostenibilità che cercano di promuovere i comportamenti ecologici, nonché una gestione consapevole (ovvero intenzionalmente attenta) delle risorse naturali.

Attualmente, in Italia la psicologia ambientale è ancora poco conosciuta e rimane confinata in piccoli centri (il principale ha sede a Roma) che operano a livello internazionale. Tuttavia, l’attenzione agli aspetti multidisciplinari e la rilevanza dei temi trattati dovrebbero portare ad una maggiore considerazione ed ad un ampio sviluppo in un prossimo futuro.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Baroni, M. R. (2008). Psicologia ambientale. Il Mulino, Bologna.
  • Koger, S. M., Winter, D. D. (2010). The Psychology of Environmental Problems: Psychology for Sustainability. Psychology Press, New York.
  • Moser, G., Uzzell, D. (2003). Environmental Pychology. In: T. Million, M. J. Lerner (Eds.), “Comprehensive handbook of psychology” (Vol. 5, pp. 419-45), Personality and Social Psychology, John Wiley & Sons, New York.

NEURO-PSICOTERAPEUTI: la naturale evoluzione?

Neuroscienze e psicoterapia tra sacro e profano

Neuroscienze - © Ben Chams - Fotolia.com“Un’importante differenza tra chi pensa che l’intelligenza sia flessibile e chi pensa che sia cristallizzata sta nel modo in cui reagiscono agli errori!”, sostiene Jason S. Moser dell’Università del Michigan.

In altre parole chi pensa di poter imparare dai propri errori avrebbe un’attivazione neurale differente, rispetto a chi pensa che l’intelligenza sia fissa e immodificabile, questo quello che l’autore pubblicherà sul prossimo numero di Psychological Science.

In questo periodo di timori che la macchina delle neuroscienze investa mortalmente le psicoterapie ad una velocità sfrenata (per quanto cognitive siano!), mi colpisce l’esito di questa ricerca che sembra riportare l’attenzione sul legame tra attivazione neurale e credenze disfunzionali, a favore di un intervento su queste ultime, inequivocabile campo d’azione di noi psicoterapeuti.

Numerosi studi hanno evidenziato che le credenze principali di chi pensa che l’intelligenza sia flessibile siano “Quando le cose diventano difficili, mi impegno di più per affrontarle!”, “Se commetto errori, cerco di imparare e risolvere la situazione”. Al contrario, le persone che pensano di non poter fare meglio non credono che si possa imparare dai propri errori.

L’esperimento condotto da Moser e colleghi, prevede l’utilizzo di un compito in cui sia molto facile commettere errori: è richiesto ai partecipanti di identificare la lettera centrale in una stringa di 5 lettere (ed es: “MMMMM” oppure “NNMNN”), mentre viene registrata in continuum la loro attività neurale. I ricercatori parlano di due segnali differenti che il cervello invia quando viene commesso un errore: un primo segnale che chiamano “oh crap response” – che indicherebbe (chiarissimamente!) che qualcosa sta andando storto – e un secondo segnale legato ad una elaborazione più consapevole dell’errore, subito seguita dal tentativo di rimediare. Entrambi gli eventi si verificherebbero entro un quarto di secondo dall’errore!

Dall’attività registrata i ricercatori si propongono di prevedere quali soggetti siano più inclini a pensare di poter imparare dagli errori e quali no.

I risultati hanno mostrato come i soggetti con attitudine ad imparare dagli errori, migliorino la loro performance a seguito dello sbaglio – in altre parole, l’attività corticale si riduce più rapidamente dopo la “oh crap’ response” – e mostrano invece un secondo segnale maggiore rispetto ai soggetti meno inclini ad imparare dagli errori, che sembra legato, secondo Moser, ad un pensiero del tipo “Mi sono accorto di aver fatto un errore, ora farò più attenzione!”. Le conclusioni degli autori confermano che Il cervello di chi pensa di poter imparare dai propri sbagli è sintonizzato su una maggiore attenzione agli errori e quindi più capace di migliorare. I ricercatori propongono infine la possibilità di “allenare” le persone alla credenza che possano lavorare più duramente e imparare di più, mostrando loro come il loro cervello possa reagire agli errori.

Più che i risultati in sé, per i quali attendiamo la pubblicazione ufficiale sulla rivista, l’aspetto che può risultare illuminante per gli psicoterapeuti è la possibilità introdurre nella pratica clinica metodologie e strumenti che possano misurare l’impatto delle nuove credenze modificate in terapia non solo attraverso la nostra valutazione clinica, ma perché no, anche attraverso la misurazione dell’attività cerebrale!

Senza bisogno di diventare freddi cyber-psicologi in un futuro alla Philip K. Dick, credo sarebbe utile rispondere alla velocità con cui lavorano le neuroscienze, iniziando a guardare con una maggiore curiosità e minor timore all’introduzione di nuove tecniche nell’assessment e nei follow up delle nostre terapie.

Non vorrei mai che ci affezionassimo troppo al setting terapeutico tradizionale!

 

BIBLIOGRAFIA:


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