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Dalla padella alla brace: la paura del contrasto emotivo.

Rumination_© jaymast - Fotolia.comIl modello cognitivo considera l’ansia come il risultato di un’incapacità, più forte in alcune persone, di tollerare emozioni negative intense e spiega le strategie utilizzate per evitarle come importanti fattori di mantenimento del disturbo. In quest’ottica il rimuginio ansioso (worry) costituisce uno dei principali strumenti dell’ “evitamento emotivo”: chi rimugina ritiene che pensare continuamente a possibili conseguenze negative aiuti a generare nuove soluzioni per prevenirle o per prepararsi al loro inevitabile verificarsi. “Staccare” da quel pensiero, seppur intrusivo e spesso disturbante, è vissuto in modo terrifico e perciò costantemente evitato. Il rimuginio ha inoltre un effetto calmante a breve termine sull’attivazione neurovegetativa (tachicardia, sudorazione, pressione alta,..) legata all’ansia (Borkovec, Alcaine, & Behar, 2004): l’immediato sollievo del corpo rinforza, di nuovo, la credenza che rimuginare aiuti a tenere sotto controllo le emozioni!

Alcune ricerche hanno tuttavia dimostrato che a fronte di un benessere a breve termine, i rimuginatori cronici esperiscono emozioni intensamente negative a causa di questo stile di pensiero, sia sul piano fisiologico che sul piano soggettivo (Brosschot, Gerin, & Thayer, 2006), riportando un peggioramento della sintomatologia ansiosa e depressiva, senza però riuscire a cambiare strategia.

Ma allora, se è vero che il rimuginio aiuta la mente ad evitare emozioni negative e il corpo a non sentirle, come riescono i soggetti ansiosi invece a tollerare le emozioni negative generate dallo stesso rimuginio?

In un recente articolo pubblicato su Clinical Psychology Review (Michelle G. Newman, Sandra J. Llera, 2011), le autrici propongono un modello esplicativo nuovo del legame tra worry ed disfunzioni emotive; in contrasto con il modello cognitivo classico dell’evitamento emotivo (Borkovec, Alcaine, & Behar, 2004), ipotizzano che il timore dei soggetti gravemente ansiosi (GAD) non sia il solo esperire emozioni negative, ma che l’esperienza da cui sarebbero davvero terrorizzati sia un improvviso cambiamento dello stato emotivo causato da un’esperienza imprevista e negativa. Secondo questo modello i soggetti ansiosi sarebbero più inclini a percepirsi emotivamente vulnerabili rispetto a eventi negativi improvvisi e utilizzerebbero il rimuginio per mantenere uno stato emotivo negativo e prolungato proprio per evitare i rischi di un improvviso cambiamento.

Le implicazioni di questo modello sul trattamento cognitivo comportamentale sono enormi, se si pensa alla dimostrata efficacia delle tecniche di esposizione finora usate per la maggior parte dei disturbi d’ansia e alle difficoltà che invece si incontrano nel trattamento dell’ansia generalizzata (GAD). Le autrici suggeriscono che la paura del contrasto emotivo potrebbe essere una delle preoccupazioni target, forse la più importante, nel disturbo d’ansia generalizzato. La loro proposta è dunque quella di utilizzare le tecniche di esposizione graduale al contrasto emotivo (negative emotional contrast) e consentire i processi di adattamento al cambiamento, fisico e mentale, che un intenso stato emotivo generalmente provoca.

Trattare il disturbo d’ansia generalizzato come una “fobia specifica per il contrasto emotivo” è la sfida cui i futuri protocolli potrebbero orientarsi, nella cura di un disturbo così invalidante e costoso per la qualità della vita di chi ne soffre.

BIBLIOGRAFIA:

  • Michelle G. Newman, Sandra J. Llera (2011). “A novel theory of experiential avoidance in generalized anxiety disorder: A review and synthesis of research supporting a contrast avoidance model of worry”, Clinical Psychology Review, 31 (2011) 371–382.
  • Borkovec, T. D., Alcaine, O., & Behar, E. S. (2004). Avoidance theory of worry and generalized anxiety disorder. In R. Heimberg, D. Mennin, & C. Turk (Eds.), Generalized anxiety disorder: Advances in research and practice (pp. 77−108). New York: Guilford.
  • Brosschot, J. F., Gerin,W., & Thayer, J. F. (2006). The perseverative cognition hypothesis: A review ofworry, prolonged stress-related physiological activation, and health. Journal of Psychosomatic Research, 60(2), 113−124.

La narcosi catodica: cervelli in stand-by e deficit d’attenzione.

Vostro figlio non riesce a concentrarsi? Forse sta guardando troppa televisione.

Child-Teleision-© Joanna Zielinska - Fotolia.com«E’ il numero di ore e l’età in cui un bimbo inizia a guardare la televisione che incidono biologicamente sull’individuo. Ed è principalmente a causa del mezzo stesso, non del messaggio trasmesso, che si ottengono questi effetti devastanti». Sono queste le parole che il dott. Aric Sigman, psicologo inglese con alle spalle anni di pubblicazioni sull’effetto della televisione sul nostro organismo, utilizza per commentare il suo libro “Remotely Controlled. How television is damaging our lives – and what we can do about it”. La maggior parte delle persone, spiega il dott. Sigman, trascorrono davanti alla televisione ogni giorno un tempo inferiore solo al lavoro e al dormire. All’età di sei anni, un bambino generalmente ha già passato un intero anno davanti allo schermo. Questi dati sono da considerare molto seriamente. Il range di bambini affetti da miopia e da deficit di attenzione, da diabete e di individui che sviluppano nel tempo l’Alzheimer, aumenta a dismisura, mettendo in ginocchio la generazione dei giovani moderni: il cervello, in sostanza, non verrebbe stimolato dallo schermo, bensì verrebbe narcotizzato, colpendo aree di quest’organo che, diversamente, potrebbero essere allenate e stimolate da altre attività, come ad esempio la lettura o il gioco.

Risultati simili vengono anche da un team di esperti della University of Otago in Nuova Zelanda, i quali hanno condotto una ricerca su mille bambini tra i 5 e gli 11 anni, dividendoli tra coloro che passavano non più di 2 ore al giorno davanti alla televisione e chi invece le superava. Valutando i livelli e la capacità di attenzione quando gli stessi partecipanti avevano un’età compresa tra i 13 e i 15 anni, i ricercatori hanno osservato che, effettivamente, la fruizione di più di due ore al giorno di televisione in età infantile è associata a problemi di attenzione durante l’adolescenza. Le ipotesi che si nascondono dietro a questa relazione fra tv e disturbi sono molte: una è che il rapido alternarsi di scene possa sovra-stimolare lo sviluppo del cervello dei bambini, rendendo di conseguenza la realtà noiosa: «proprio per questo motivo i bambini che guardano molta tv possono diventare intolleranti nei confronti della attività ordinarie, come ad esempio i compiti», commentano i ricercatori neo-zelandesi. Un’altra ipotesi sarebbe che la fruizione televisiva possa sostituire le altre attività che stimolano la concentrazione, come la lettura, i giochi, lo sport.

Sempre nella stessa direzione, uno studio pubblicato la scorsa settimana sulla prestigiosa rivista Pediatrics mette in luce come il guardare programmi “frenetici e di fantasia” in tenera età possa portare alla compromissione delle funzioni esecutive dei più piccoli, ovvero della loro capacità di attenzione e di problem-solving e di controllo del comportamento. È possibile che questi programmi, sostiene la psicologa americana Angeline Lillard, coordinatrice dello studio, in quanto caratterizzati da costante movimento e alternarsi frenetico di differenti attività, possano influire negativamente sulle capacità dei bambini di concentrarsi.

Quale la soluzione proposta? L’American Accademy of Pediatrics sostiene che i bambini sotto i due anni non dovrebbero guardare alcuna televisione, mentre quelli più grandi non dovrebbero superare le due ore al giorno, meglio se supervisionati. Insomma troppa televisione fa male, ci dicono i ricercatori. Assunto a cui si può arrivare anche solo con il buon senso dei genitori responsabili.

BIBLIOGRAFIA:


Il Bullo, il Maschio Alpha e la lotta per lo Status Sociale

Bullo o vittima di bullismo, due facce della stessa medaglia.

Wolf_© Kimsonal - Fotolia.comDiane Felmlee dell’Università del Wisconsin e Robert Faris dell’Università del North Carolina, due professori e ricercatori universitari in psicologia sociale, hanno condotto su commissione della CNN uno studio sul bullismo nelle scuole e hanno scoperto che lo stereotipo del bullo, a caccia del compagno di scuola debole e indifeso, non riflette la realtà delle cose.

Questo studio ha coinvolto più di 700 studenti di uno tra i più rinomati licei Newyorkesi; agli studenti è stato chiesto di rispondere a un questionario di 28 domande al fine di indagare i comportamenti aggressivi nell’arco di tutto un semestre scolastico, lo strumento utilizzato ha permesso anche di raccogliere informazioni specifiche su “chi ha fatto cosa“.

In disaccordo con lo stereotipo comune di bullo e delle sue vittime, la ricerca ha messo in luce come a essere coinvolti in combattimenti sociali – verbali, fisici ma anche cibernetici – non siano tanto i ragazzi con problemi psicologici e emarginati dalla vita sociale dei compagni, ma proprio quelli che si trovano al centro della scena sociale scolastica. Sono proprio loro che gareggiano per stabilire a chi spetta il posto più alto nel gerarchia sociale della scuola, anche se conservato per poco però, probabilmente solo fino al combattimento successivo.

In questo scenario infatti vittima e aggressore sono solo due ruoli complementari e transitori, spesso giocati entrambi dalla stessa persona ma in momenti diversi, anche molto ravvicinati, della sua carriera sociale all’interno della scuola. Infatti quando un ragazzo aumenta troppo il suo status sociale corre sia il rischio di diventare maggiormente aggressivo verso gli altri che di essere a sua volta oggetto di maltrattamenti da parte dei compagni.

Essere scherniti e ridicolizzati pubblicamente o aggrediti fisicamente dai compagni – solitamente considerati buoni amici fino ad un attimo prima – è spesso un esperienza traumatica che impatta così violentemente sulla propria immagine di sè che l’autostima di molti adolescenti rimane mortificata a lungo, aprendo la strada in alcuni casi a malattie psichiche gravi o addirittura a tentativi di suicidio.

Un aspetto, purtroppo prevedibile ma comunque impressionante, è che ben 81% di questi episodi rimangono taciuti agli adulti, senza quindi la possibilità di un tempestivo intervento sull’escalation di violenza. Augurandoci in questo senso che le due coppie di genitori descritte sagacemente da Polanski nel suo ultimo film non siano rappresentative di tutta la popolazione adulta contemporanea!

Se state pensando che il contesto ricco e benestante nel quale è inserita la scuola possa essere in qualche modo significativo nello spiegare le dinamiche agonistiche descritte vi sbagliate, perchè i risultati di questo studio pilota sono sovrapponibili a quelli di un precedente studio condotto all’interno di un liceo di campagna del North Carolina. Il contesto socioeconomico familiare non c’entra, dicono i ricercatori, ciò che espone maggiormente alla guerriglia sociale è proprio la propria posizione all’interno della gerarchia sociale.

Niente di nuovo, dico io, basta guardare cosa succede nell’intero mondo animale, dalle distese protette dei parchi africani alle aree cani recintate dei nostri giardini cittadini: stabilire una gerarchia sociale è fondamentale perché garantisce una pacifica e ordinata convivenza. Come ben sanno i nostri coinquilini terrestri più economico e meno pericoloso ovviamente è simulare il combattimento, almeno fino a che lo si può evitare.

Infatti, come sottolineano i ricercatori, essere più aggressivi non assicura la probabilità di salire nella gerarchia sociale in un secondo momento; la maggior pare degli sforzi sono destinati ad essere vani e quindi inutilmente dispendiosi, da tutti i punti di vista.

Rendere i ragazzi consapevoli dell’inutilità delle loro guerriglie agonistiche è secondo gli studiosi il modo migliore per incominciare a contenere il problema.

Magari insieme a qualche documentario sul mondo animale…!

BIBLIOGRAFIA:


Venerdì 14-10-2011

rassegna stampaTanatosi negli uomini, i primi studi.

Per molti animali l’estremo e ultimo meccanismo di difesa e sopravvivenza consiste nella tanatosi: fingere di essere morti per sfuggire a un predatore. Un gruppo di ricercatori in Brasile sta ora dimostrando come questa forma di risposta automatica a situazioni di grave pericolo si presenti anche negli esseri umani. Un riflesso involontario -eredità evolutiva come altri atavismi- che provoca nei soggetti che la esperiscono una terribile sensazione “blocco” corporeo indipendente dalla volontà. Dirette conseguenze di questa “Tonic immobility” sono i sensi di colpa o il senso di vergogna provato ad esempio dalle vittime di violenza sessuale: paralizzate dall’immobilità tonica. Le conseguenze legali del riconoscimento di questo meccanismo neurofisiologico sono vaste: in molte giurisdizioni ad esempio, un comportamento “passivo” della vittima di un’aggressione sessuale viene legalmente interpretato come “tacito assenso”.

Alcool, potere e la perdita delle inibizioni.

Potere, ubriachezza e anonimato possono condurre, nel bene o nel male, a comportamenti sociali paradossalmente simili: ciò che li accomuna è il crollo delle inibizioni dovuto alla disattivazione del Sistena di Inibizione del Comportamento. Gli atti commessi saranno quindi eroici o edonici, pro-sociali o antisociali a seconda delle motivazioni e delle inclinazioni personali o delle occasioni fornite dal contesto del momento. Questo, come riporta la notizia apparsa su Perspectives on Psychological Science, spiegherebbe perchè l’ubriachezza può favorire l’aggressività o al contrario comportamenti altruistici o perchè l’anonimato può indurre all’egoismo e alla frode o promuovere comportamenti di aiuto.

Materialismo VS Stabilità di coppia.

I risultati di un ampio studio, che ha coinvolto ben 1700 coppie, apparso sul Journal of Couple & Relationship Therapy indicano che le coppie in cui entrambi i partner ammettono un forte interesse per il denaro presentano maggiore instabilità relazionale, alta conflittualità, minore capacità di risolvere i conflitti, e una peggiore qualità della relazione di coppia.

Crisi economica? Più sesso per gli uomini.

Omri Gillath della University of Kansas sta studiando le risposte automatiche degli uomini a situazioni di grande pericolo ambientale percepito. Dal punto di vista della psicologia evolutiva, di fronte a un situazione che presenta scarse probabilità di sopravvivenza, gli uomini reagiscono in maniera molto più vigorosa agli stimoli sessuali,al fine di massimizzare le chances di riprodursi. Trasposta nella realtà contingente, questa reazione dettata da imperativi biologici viene innescata anche da ciò che in tempi di pace rappresenta il maggiore pericolo (percepito) per la nostra sopravvivenza: l’andamento disastroso del’economia.

Mercoledì 12-10-2011

rassegna stampaOut of the closet!

L’età del “coming-out” nella popolazione gay di entrambi i sessi è diminuita molto negli ultimi 20 anni, passando da 25 a 16 anni. Un ampio studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Tel Aviv e apparso su Family Relations indaga la salute mentale dei giovani omosessuali e i possibili fattori si stress psicologico legati a questo fenomeno. Vista la giovanissima età, il sostegno emotivo e la vicinanza della famiglia, ancor più di quello dei pari, si sono rivelati elementi cruciali nel permettere la serena accettazione del proprio orientamento sessuale e i principali fattori di protezione contro stressors psicologici come l’allontanamento precoce da casa e il taglio emotivo con la famiglia di origine.

Chi è causa del suo male…

Un team di psicologi dell’Università del Kansas ha svolto un interessante studio su come bambini e ragazzi delle scuole elementari e medie immaginano e anticipano l’interazione con compagni di scuola molto…sovrappeso, aggressivi, timidi, con voti bassi, poco atletici o con evidenti deficit dell’attenzione o iperattività. Se il compagno è percepito come responsabile, colpevole, nell’avere determinato la sua situazione e nel mantenerla, il giudizio da parte degli altri sarà impietoso, sarà cioè giudicato incapace di modificare la sua situazione nei 6 mesi successivi e verrà preso in giro e ridicolizzato per il suo difetto. Le femmine si sono rivelate più gentili e comprensive dei maschi per tutte le caratteristiche attribuite tranne che per il sovrappeso e l’aggressività, considerate in assoluto i difetti peggiori e più severamente giudicati da entrambi i sessi.

Non adesso, ho mal di testa.

Il 40% delle donne americane tra i 20 e i 70 anni lamenta scarso desiderio sessuale. Il desiderio sessuale è ben più che un emozione, coinvolge infatti l’attivazione di diverse aree cerebrali che governano emozioni, la motivazione, l’immagine corporea e memorie associate ad esperienze personali. Recentemente la neuroscienziata Stephanie Ortigue e il suo team della Syracuse University hanno constatato, in un gruppo sperimentale di donne che lamentavano scarso desiderio sessuale e assenza di fantasie e pensieri sessualizzati, la non attivazione delle aree cerebrali femminili normalmente coinvolti nello scatenarsi dell’eccitazione. È stata invece osservata l’attivazione delle regioni cerebrali prefrontali coinvolte nell’inibizione dell’azione, nel controllo e nel giudizio di sé e nell’interpretazione del comportamento altrui. Questo significa che il proverbiale mal di testa ha a che fare con un eccessiva concentrazione nel cercare di interpretare, spesso erroneamente, i comportamenti dell’altro, e in un eccessivo controllo e giudizio delle proprie risposte agli stimoli sessuali. Insomma, riuscire a vivere il momento presente è la condizione indispensabile allo scatenarsi del desiderio sessuale.

Il senso innato dell’altruismo e il costrutto culturale della giustizia.

Bambini al di sotto dei 15 mesi di età hanno già iniziato a sviluppare senso della giustizia e altruismo: è quanto scoperto in una ricerca condotta dall‘Università di Washington. I bambini che si sono mostrati maggiormente sensibili a una equa distribuzione del cibo tra sé e i compagni sono anche quelli più disponibili a prestare e condividere i loro giocattoli. Lo studio ovviamente è a sostegno di fenomeni umani interpersonali quali il senso di uguaglianza e la cooperazione, che sebbene compaiano molto presto non sono però ugualmente sviluppati in tutti i bambini. Da cosa di pendono le differenze individuali osservate? Da fattori genetici innati? O dalla trasmissione all’interno della famiglia di valori e credenze? Questo è quello su cui i ricercatori si propongono ora di investigare.

Ottimismo sì, ma in piccole dosi!

Neuroscienze e scienze sociali concordano nel ritenere l’essere umano più ottimista che realista, nonostante ci piaccia pensare di essere creature razionali capaci di fare giuste previsioni sulla base di valutazioni obiettive.

Optimism_© ra2 studio - Fotolia.comIn realtà diversi studi hanno dimostrato che le persone sottostimano la possibilità di divorziare, di perdere il lavoro, di ammalarsi di cancro mentre sovrastimano la propria aspettativa di vita di oltre 20 anni. Questa tendenza a percepire il futuro roseo, anche paragonandolo al passato e al presente, è nota come optimism bias e ci riguarda tutti, maschi e femmine, giovani e non giovani, ricchi e poveri.

Certo è strano immaginare che tale atteggiamento mentale sopravviva anche in tempi di crisi economica e sciagure ambientali, ma la nostra mente se la cava immaginando un difficile futuro per la collettività ma non per noi stessi.

Mantenere una buona dose di ottimismo del resto sembrerebbe avere la funzione di consentire  un migliore adattamento, permettendoci di immaginare alternative a uno status quo che non ci soddisfa e facendoci credere di avere la possibilità di raggiungerle. Senza di esso probabilmente non avremmo mai il coraggio di avventurarci verso il cambiamento ma permarremmo sempre in quella sorta di immobilità che affligge chi soffre di depressione.

Questa sorta di speranza dà invece sollievo alle nostre menti, abbassa lo stress e ci mantiene in salute, riducendo del nove per cento il rischio di infarto.

A questo punto non sembrano esserci dubbi: essere ottimisti conviene! Ma una neuroscienziata è pronta a ridimensionare subito il nostro optimism bias  e a metterci in guardia dai rischi di un atteggiamento mentale eccessivamente speranzoso.

Nel suo ultimo libro, The Optimism Bias,  Tali Sharot scoraggia infatti un eccesso di entusiasmo verso il futuro. Spesso questa  rosea visione, definita anche ottimismo irrealistico, ci fa sottovalutare i rischi reali delle nostre condotte nella convinzione che le cose peggiori tocchino sempre al prossimo quindi…

“L’ottimismo è come il vino rosso: un bicchiere fa bene, una bottiglia è pericolosa”.

BIBLIOGRAFIA:

  • Sharot, T. (2011). The Optimism Bias, A Tour of the Irrationally Positive Brain, Knopf Doubleday Publishing Group.
  • Sharot, T., Riccardi A. M., Raio, M. C., Phelp E. A., (2007). Neural Mechanism Mediating Optimism Bias, Nature Publisching Group.
  • Anolli, L. (2005). L’Ottimismo, Bologna, Il Mulino.


L’ossessione per il sesso: politica, cultura e psicologia

Sex Addiction - © kentoh - Fotolia.comNel decennio passato si sentiva parlare spesso di sex addiction, dipendenza dal sesso. Era una cosa molto americana, anzi da attori americani. C’erano i casi di Michael Douglas o di David Duchovny. Nel 2010 è stato il turno di Tiger Wood, che non è un attore. E in Italia? In Italia l’unico centro che si occupi di casi del genere si trova a Bolzano, ma correndo per il web non trovo aggiornamenti dal 2008. Sarà ancora funzionante?

La sex addiction è un fenomeno tra il culturale e il clinico, un disturbo non si sa fino a che punto…CONTINUA A LEGGERE SU Affaritaliani.

Malati di sesso

Mangiare, bere, sopravvivere e riprodursi, sono bisogni fondamentali e imprescindibili per la sopravvivenza dell’uomo. Ma cosa accade quando il bisogno si trasforma in una vera e propria ossessione?

Lovers - © George Mayer - Fotolia.comCercando su The Internet Movie Database con le parole “sexual obsession” si trovano 162 film, di cui ben 138 sono film drammatici o thriller. Sembra proprio che al cinema l’ipersessualità – l’abitudine di ricercare rapporti sessuali o desideri sessuali frequenti, improvvisi e incontrollabili – equivalga a ossessione e omicidio. Se nel mondo della celluloide c’è quest’idea chiara e ben definita, così non è nel mondo psichiatrico e medico. Infatti sebbene da molti anni questo disturbo sia al centro delle discussione di medici, psicologi e sessuologi, non si è ancora raggiunta una definizione definitiva e la proposta di Martin Kafka di far rientrare ufficialmente nel DSM-V l’ipersessualità tra i disturbi in esso descritti, apre nuove discussioni. Bisogna considerare il sesso come una droga e quindi parlare di “dipendenza sessuale”, oppure potrebbe essere il risultato di un comportamento ossessivo? O ancora impulsivo?

Per chiarirci le idee proviamo a partire dall’inizio. Quando il desiderio sessuale diventa patologico? Quantificare e qualificare il comportamento sessuale è la vera sfida della moderna sessuologia, poiché in questo contesto molto importante è il ruolo svolto dal contesto sociale e culturale, dalla morale comune e individuale e dalla religione. Per ovviare a questi problemi il gruppo di Kafka ha proposto questa nuova definizione: “la vita sessuale di un individuo si può definire “malata” solo quando diventa una fonte persistente di infelicità e, soprattutto quando l’individuo perde completamente il controllo delle proprie pulsioni”.

Se al complesso problema della definizione forse una soluzione si è trovata, così non è per i modelli psicologici e biologici che cercano di comprendere questo disturbo. Un modello molto diffuso è quello della dipendenza sessuale nel quale si suggerisce come l’attività sessuale, poiché provoca il rilascio di ormoni e di neurotrasmettitori legati al piacere, in alcune persone inneschi una vera e propria dipendenza  come quella derivante dall’assunzione di droghe o alcool. A questo punto gli esperti si dividono: alcuni ritengono che la dipendenza sia mantenuta da solo fattori biologici, altri invece sottolineano l’importanza del vissuto personale legato a momenti così intensi.

Un’altra teoria che è stata avanzata per spiegare l’ipersessualità è quella che la considera come risultato di un comportamento compulsivo. Willy Pasini, spiega che dal momento in cui le compulsioni vengono messe in atto per ridurre lo stato d’ansia, l’atto sessuale potrebbe diventare un comportamento compulsivo che queste persone mettono in atto per ridurre l’ansia e non per piacere. Si attiva così un circolo vizioso mantenuto dalla consapevolezza di aver fatto qualcosa di “sbagliato” che fa aumentare il livello dell’ansia, che viene placata ricercando nuovi e più frequenti rapporti sessuali, che col tempo risultano essere sempre meno legati al piacere diventando e sempre più meccanici.

Ma non c’è due senza tre. Dagli studi sul funzionamento biologico del desiderio sessuale e dalle ipotesi avanzate negli anni ottanta da Bill Kinder nasce una terza teoria, quella attualmente più accreditata, che spiega la continua ricerca di partner sessuali come risultato dell’impulsività, ovvero della perdita della capacità di controllare o resistere a una tentazione. Teoria che ben si combina anche con tutti i casi di ipersessualità presenti in certe forme di epilessia e demenze senili ben noti da tempo ai neurologi.

Tante cause, tante teorie, un solo problema che fa stare male chi ne soffre. Ma la cura? Ovviamente esistono diversi approcci in base alle diverse teorie di riferimento. C’è chi propone l’astinenza assoluta, aiutata con la partecipazione di gruppi di auto aiuto come quella degli alcolisti anonimi. C’è chi propone invece di intervenire con una terapia cognitiva comportamentale e chi invece sostiene che l’unica terapia possibile sia quella farmacologica.

Ad ogni modo emerge la necessità di inserire questa patologia all’interno dei manuali diagnostici per poter aiutare i pazienti strutturando interventi più precisi ed efficaci, dato che questo disagio è anche un problema sociale, che contribuisce, inoltre, alla trasmissione di malattie e alla fine di molti rapporti sentimentali.

BIBLIOGRAFIA:


Domeniche di lettura: Gerard Reve e Willem F. Hermans, un’amicizia letteraria in forma epistolare

La domenica mattina è il giorno per le digressioni e le letture pigre e inutili a letto. Stefano Beretta è pigro quanto noi, e ci ripropone una delle sue recensioni migliori. Ci accompagna in un libro che quasi sicuramente non leggeremo mai, anche perché è in olandese: il carteggio tra i due scrittori Gerard Reve e Willem F. Hermans. Chi saranno mai? Fidatevi, Beretta riesce ad incuriosirci.

Hermans & Reve Gerard Reve Willem Frederik Hermans sono due tra i più importanti scrittori olandesi della seconda metà del ventesimo secolo e, per almeno un decennio, hanno coltivato un’amicizia letteraria che ha trovato espressione in un carteggio abbastanza fitto, pubblicato un paio d’anni fa in Olanda con il titolo Verscheur deze brief! Ik vertel veel te veel (Straccia questa lettera! Racconto troppe cose).

Le prime lettere risalgono al 1947 ed entrambi gli autori sono agli esordi della loro carriera. C’è qualcosa che li unisce: lo scandalo e la riprovazione che accolgono i loro primi romanzi, De avonden (Le sere) di Reve e De tranen der acacia’s (Le lacrime delle acacie) di Hermans. Entrambi sono accusati di crogiolarsi in un pessimismo eccessivo e di non lasciare alcuna  apertura alla speranza. In particolare Frits van Etgers, il protagonista di De avonden, vive un’esistenza monotona e priva di illusioni e si abbandona a un cinismo plumbeo. È quindi naturale, in un certo senso, che Reve e Hermans trovino tanto più consolazione e comprensione reciproca nella loro amicizia e in questa corrispondenza, quanto maggiori sono le difficoltà che incontrano le loro opere. La loro è una coalizione contro la mentalità chiusa e ristretta, molto provinciale, del mondo letterario e culturale dell’Olanda postbellica. Le lettere di quegli anni, infatti, affrontano nel dettaglio l’ostilità di critici, recensori e giornalisti e, soprattutto per quanto riguarda Hermans, la mancata pubblicazione – dopo tante discussioni con l’editore – della seconda serie di Mandarijnen op zwavelzuur (Mandarini all’acido solforico), una raccolta di articoli polemici su vari esponenti dell’intelligencija olandese dell’epoca. Alcune di queste lettere sono anche molto spassose, come per esempio quella scritta da Gerard Reve alla Paris Review – e girata poi a Hermans – in cui finge di essere stato internato in un manicomio per rendere sé stesso più interessante e i suoi racconti più “appetibili”.

Dal 1954 in avanti osserviamo come Gerard Reve tenti di smarcarsi sempre più dall’atmosfera claustrofobica dell’Olanda e di conquistarsi una caratura più “internazionale” decidendo di scrivere in inglese. Da quel momento in poi, per qualche anno, Reve scrive le sue lettere a Hermans solamente in inglese, mettendolo al corrente dei suoi progressi riguardo alla composizione dei racconti che finiranno poi nella raccolta The Acrobat and Other Stories. E’ un’impresa, questa, che lascia scettico Hermans, il quale osserva giustamente che un autore non deve soltanto maneggiare correttamente una lingua, ma deve in qualche modo anche essere immerso nella cultura e nella società che  alimentano quella lingua, suggerendogli di trasferirsi definitivamente a Londra o in un paese anglofono. Comunque sia, almeno fino alla fine degli anni cinquanta, tra i due ci sono grande stima e apprezzamento reciproco per le proprie opere letterarie. Poi, nel 1959, avviene una prima rottura, a cui succede un silenzio epistolare durato cinque anni.

Quando la corrispondenza riprende, nel 1964, le cose non sono più come prima e sono destinate a peggiorare con il tempo. Reve e Hermans hanno intrapreso strade diverse. Da un lato, Gerard Reve ha lasciato la moglie, ha fatto coming out, ha cominciato a collaborare con la rivista Tirade, per la quale Hermans non nutre alcuna considerazione, tradendo anzi un certo fastidio quando Reve insiste perché anch’egli vi partecipi con qualche articolo. La seconda frattura avviene in corrispondenza della conversione di Reve al cattolicesimo, avvenuta a metà degli anni sessanta. Hermans – geologo di formazione, ateo e razionalista – glielo dice chiaro e tondo, nel 1968: “Da quando ti sei convertito al cattolicesimo romano, mi dai semplicemente l’impressione di andare in giro con il paraocchi”, e gli chiede di lasciarlo in pace. Da quel momento in avanti nel libro ci sono quasi solo lettere di Reve, che invece continua imperterrito a scrivere a Hermans. Anzi, ce n’è una, gelida, dello stesso Hermans che, rispondendo a una esplicita richiesta dell’amico e dandogli del “lei”, gli vieta la pubblicazione delle lettere che Reve gli ha scritto.

Devo dire, però, che queste ultime lettere di Gerard Reve sono estremamente divertenti, degne rappresentanti di quello stile epistolare che ormai Reve ha elevato a forma d’arte con la pubblicazione di vari carteggi. Sono un misto di petulanza, buffoneria, stravaganza, inventiva linguistica e sragionamenti che – il lettore se ne rende ben conto – dovevano irritare sommamente un individuo come Hermans (che, infatti, spesso annota sulla busta: “Naturalmente non rispondo” o “Non rispondere a queste cazzate”). Tra queste, in particolare, ce n’è una con cui Reve spiega – a modo suo – perché si è convertito al cattolicesimo e che cosa questa religione significhi per lui, non soltanto come uomo ma anche come artista: “Sono diventato cattolico perché ne apprezzo la ricchezza di simboli, da cui ho potuto attingere, & perché per l’artista romantico è l’unica religione accettabile, in ogni caso in Europa”, e rimprovera Hermans: “Non riesco quasi a credere che tu non sia in grado di vedere & riconoscere la completa autonomia di scienza & religione. (…) La religione matura non vede più la scienza come una nemica. La scienza – o almeno certe sue branche – vede al massimo la religione come una nemica tutt’al più passiva”.

Insomma, un libro certamente non fondamentale, ma utile per chi, avendo letto sia Reve che Hermans, voglia dare un’occhiata ai retroscena della loro produzione letteraria e sia interessato a conoscere più da vicino il rapporto, non sempre facile, tra questi due capisaldi delle lettere olandesi del Novecento.


IV Forum sulla Formazione in Psicoterapia

Assisi 2011 - Forum sulla Formazione in Psicoterapia - IV Edizione

Il Convegno avrà luogo in data 14, 15 e 16 Ottobre 2011 presso La Cittadella di Assisi.

Lo scopo dell’iniziativa è di:

1. stimolare e incoraggiare la ricerca scientifica in ambito psicoterapeutico, attraverso larealizzazione di disegni di ricerca adeguati che possano avere particolare rilevanza inambito clinico;

2. promuovere la ricerca bibliografica e l’approfondimento critico della letteraturascientifica internazionale, per venire a conoscenza di nuove metodiche di intervento colpaziente;

3. sviluppare nuove idee in maniera creativa seguendo un processo logico scientificoadeguato, con riferimento alla letteratura esistente;

4. favorire lo scambio di conoscenza tra i diversi allievi in relazione ai temi scientificitrattati durante l’evento;

5. conoscere la rilevanza clinica della ricerca in ambito psicopatologico e scientifico.

 

SCARICA IL PROGRAMMA + LIBRO DEGLI ABSTRACT.

Ma la musica può

Musica per il nostro cervello – Parte 3

Musicoterapia_© puckillustrations - Fotolia.comCi eravamo lasciati sottolineando i benefici che la musica porta al nostro cervello e come essa agisca su di esso; vedremo oggi più nel dettaglio questi meccanismi cercando anche di capire come la musica possa essere usata in terapia e perché.

Va premesso che il ruolo della musica in terapia ha subito una svolta radicale negli ultimi 15 anni, soprattutto grazie agli sviluppi degli studi di brain imaging che ci hanno permesso per la prima volta di osservare un cervello umano mentre il soggetto è impegnato a svolgere dei compiti cognitivi o motori complessi, incluse le arti. Mentre fino a pochi decenni fa si pensava che la musica fosse un “lusso”, un qualcosa di “soft” da offrire al paziente ma che non avrebbe comportato dei benefici diretti al cervello, gli studi così concepiti, invece, hanno oggi completamente cambiato questa prospettiva. I modelli evidence-based attuali, infatti, considerano la musicoterapia non più come scienza debole – o non scienza – quanto piuttosto la pongono sullo stesso piano delle scienze forti, tanto da raccomandarla nei protocolli standard riabilitativi (Schlaug, 2008).

I motivi di questo cambiamento sono essenzialmente due: prima di tutto, le aree del cervello attivate dalla musica non sono dominio esclusivo della musica, anzi si tratta dell’attivazione di connessioni deputate a molte altre funzioni, come i processi del linguaggio (ad esempio l’area di Broca), la percezione uditiva, l’attenzione, la memoria e il controllo esecutivo. Il secondo importante motivo consiste nel fatto che la musica effettivamente cambia il cervello. Le aree uditive e motorie, infatti, sarebbero più grandi già dopo qualche settimana dall’inizio della pratica musicale, con l’aggiunta di maggiori connessioni e quindi plasticità.L’esposizione e l’esperienza della pratica musicale creerebbero, quindi, nuove e più efficienti connessioni tra i neuroni, attraverso un processo che possiamo definire di “re-scrittura”. Nel campo della riabilitazione queste scoperte si traducono nell’abbandono delle tecniche di stimolazione passiva e nel promuovere, al contrario, l’apprendimento attivo, l’esposizione e l’esperienza produttiva: la musica diventa quindi il mezzo attraverso cui il cervello ricrea nuove “forme”, attraverso, appunto, l’esercizio e l’apprendimento. È così che il cervello riesce a recuperare al meglio le abilità perse a seguito di traumi, patologie o deficit cognitivi. In questo senso la musica, da debole ausilio alla terapia, può invece oggi essere considerata un potente fattore di rieducazione cognitiva, motoria e del linguaggio, impiegata, oltre che nei disturbi neurologici, in tutti quei casi di afasia, disturbi dell’apprendimento e del linguaggio nei bambini.

Detto questo, non possiamo non dire che la musica rimane uno dei canali di comunicazione e sintonizzazione affettiva e relazionale universalmente più potenti alternativi alla parola. Dal punto di vista terapeutico questo significa che la musica diventa stimolazione multisensoriale, relazionale, emozionale e cognitiva volta a favorire l’integrazione spaziale, temporale e sociale dell’individuo, attraverso strategie di armonizzazione.

Certamente molte ricerche vanno ancora svolte in questa direzione, per capire, ad esempio, come lavorare con i bambini, nei casi di autismo o in altre patologie cerebrali. Questioni irrisolte riguardano anche le caratteristiche che rendono un pezzo musicale terapeutico per il nostro cervello e se specifici brani sono più indicati nella riabilitazione e nello sviluppo di determinati processi cognitivi rispetto ad altri.

BIBLIOGRAFIA:

  • Thaut M.H. & McIntosh G.C., (2010). How Music Helps to Heal the Injured Brain: Therapeutic Use Crescendos Thanks to Advances in Brain Science, Cerebrum.
  • Jausovec N., Jausovec K., Gerlic I., (2006). The influence of Mozart’s music on brain activity in the process of learning, Clinical Neurophysiology, 117, 2703–2714.
  • Schlaug G., (2008). Music, musicians, and brain plasticity. In Hallam S., Cross I., and Thaut M.H., (Eds.), The Oxford Handbook of Music Psychology (197–208). Oxford: Oxford University Press.


Life in a day: un Poema Audiovisivo 2.0

Proiettata a Torino l’anteprima nazionale del primo film collettivo della storia: prodotto da Youtube e Ridley Scott, diretto dal Premio Oscar Kevin Macdonald e interamente realizzato con video amatoriali.

LIFE IN A DAY - 2011 Un regista e un produttore lanciano un appello globale: “Umani, filmate la vita sulla terra il giorno 24 luglio 2010 e spediteci i vostri video, noi ne faremo un film che diventerà una capsula del tempo”. La risposta è stata notevole: 80.000 video pervenuti che si traducono in 4500 ore di filmati provenienti da 192 nazioni. Life in a day è il primo esperimento a livello mondiale di film-documentario collettivo, una sorta di user co-generated content all’ennesima potenza o come è già stato definito: crowd-sourced movie. L’idea è bella e da un certo punto di vista persino ovvia: la logica conseguenza portata un po’ all’estremo di tendenze più che attuali: il web che trabocca di contenuti creati dagli utenti, la collaborazione online in salsa 2.0, le communities di fan che interagiscono con i grandi network mediali e ingaggiati in un perpetuo feedback diventano parte attiva nei processi creativi.

L’idea è minima e fornisce poche istruzioni: filmare il mondo in un dato giorno e se possibile, rispondere a una manciata di domande: “cosa ami?” “di cosa hai paura?” “che cosa ti fa ridere?” “che cosa hai in tasca?”. Tutto il resto è selezione, montaggio e colonna sonora. Sono 300 i frammenti che hanno trovato posto nel mosaico finale, a regista e produttori va il merito di aver costruito un film che funziona, che pur privo di una trama convenzionale tiene attaccato lo spettatore per tutti i 90 minuti, deliziandolo.

MacdonaldScott trovano un senso unitario e un filo conduttore nello svolgersi a tappe di una giornata: le ultime ore prima dell’alba, il risveglio ed i suoi rituali, il giorno, la sera. A fianco a questi: il miracolo della nascita, il mistero dell’amore, la morte. Paesaggi moltissimi, da ogni angolo del mondo. Colori, chiaramente. Case, volti, famiglie, scene di preparazione dei pasti e di preghiera e riti: insomma tutto il campionario della “cultura umana” in senso sociologico. E tutto, morte compresa, scorre sullo schermo con una delicata e poetica leggerezza. Con una sorta di sospensione del giudizio da documentario etologico extraterrestre, da regno animale al di sopra del bene e del male. L’incanto audiovisivo è forte: la colonna sonora, vera spina dorsale del film, governa la sinergia tra immagini e suoni, suggerendo allo spettatore un mood, che funge da chiave di lettura per ciò che si vede.

Perché in buona parte i contenuti di Life in a day sono a-verbali. Si pronunciano molte parole e in tantissime lingue, ma il senso generale è difficile da descrivere e da afferrare. Una celebrazione laica della vita, di questo pazzo mondo, del concetto di identità e differenza. Dietro a questo documentario c’è un lavoro immenso, da cine-certosini, di cesello e incastro. Eppure, a vederla, resta fresca e toccante la vita della gente. Che filma e che si fa filmare.

 

Your first day of school will be scary!

Parents’ words and anxiety disorders – part 3

Parenting_© Artur Gabrysiak - Fotolia.comDuring the second installment of this series, I discussed the tendency of anxious individuals to over interpret threat in the face of ambiguity. Further, anxious mothers’ expectations of their children’s struggles and their children’s own expectations of elevated vulnerability in these situations were discussed.

Strong statistical relationships have been shown between mothers’ and children’s anxious thoughts. As highlighted by parts one and two of this series, parental behavior and thoughts in the context of anxiety generally contain stereotyped themes (e.g. intrusiveness and over estimation of threat). In order to see if these themes are communicated between parents and their children, researchers have investigated the conversations that mothers have with their children as a possible mechanism in their transmission.

An important study in Australia examined the role of family conversations in the enhancement of an anxious cognitive style in children (Barrett, Rapee, Dadds & Ryan 1996). During five minute discussions, parents were encouraged to help their anxious, non-anxious or oppositionally defiant children to decide how to manage ambiguous situations. References to threat, avoidance, aggression and pro-active responses were recorded. The study found that the anxious group discussed avoidance more than the non-anxious and the oppositionally defiant groups. Upon further examination of the anxious group, mothers expected their socially phobic children to be more avoidant than mothers of children with other types of anxiety disorders (e.g. generalized anxiety disorder and obsessive-compulsive disorder). Interestingly, while family discussions were associated with an increase in avoidant solutions chosen by anxious children, for non-clinical children, they were associated with a decrease in avoidant solutions chosen.This increase in children’s level of avoidance after family discussions had been labeled Family Enhancement of Avoidant Responses, or the FEAR effect.

The parental role in the FEAR effect has been further examined. A recent study that manipulated mothers’ behavior by training them to show enthusiasm and agreement with non-threat and non-avoidant plans, found that children of mothers who display these types of positive behaviors are more likely to change their responses from threatening to non-threatening (Murray, Creswell & Fearon in press). Thus, it appears that parent’s behavior during these interactions is influencing children’s responses.

Therefore, the answer the question posed for this portion of the series appears to be yes.Anxious family discussions appear to encourage children’s avoidance and increase threat perception in the face of ambiguity. So what could it be that that these parents are saying specifically? Researchers have continued with this avenue of investigation by examining specific word choices and their effect on children. This will be discussed in part four of the series.

BIBLIOGRAPHY:

  • Barrett, P. M., Rapee, R. M., Dadds, M. M., & Ryan, S.M. (1996). Family enhancement of cognitive style in anxious and aggressive children. Journal of Abnormal Child Psychology, 4, 2, 187 – 203.
  • Murray, L., Creswell, C., & Fearon, P. (in press). An experimental investigation of the FEAR effect in non-clinical children and their mothers. (Manuscript in preparation)


Carnage (2011) di Roman Polanski, o della rabbia dei perfezionisti

Roman Polanski può non piacere? Difficile, guardatevi il suo ultimo film, presentato a Venezia. Carnage è tratto da una piece teatrale di Yasmina Reza, che collabora anche alla sceneggiatura. Scena d’inizio: due bambini litigano in mezzo a un gruppo di compagni e uno andando via si volta e dà una bastonata in faccia a un altro che si accascia. Il film è l’incontro di 4 personaggi, i genitori dei ragazzini che tentano una pacificazione.

Ma non tutti i personaggi di Carnage sono uguali, ce n’è uno assetato di sangue e giustizia. Finirà in scene di rabbia e rimproveri, mentre ubriachi si insultano, urlano e vomitano. La più malata è la madre del figlio che ha avuto la bastonata, interpretata da Jodie Foster. Vorrebbe essere diversa, vorrebbe essere elegante e sposata a un uomo civile, con una vita perfetta. Ma questa vita non le è possibile, il suo uomo è rozzo, vende sciacquoni, con una rabbia repressa che lei teme e gestisce. Un uomo capace di gettare un criceto fuori di casa nelle vie di New York condannandolo a morte certa. E la nostra Jodie Foster se ne vergogna. La vita non è stata buona con lei, ha tentato in tutti i modi di elevarsi con un controllo spasmodico e perfezionista di tutto: le letture, l’arte, la scrittura, i rapporti, l’educazione del suo figlio.

Non riesce a digerire il danno subito dal ragazzo, l’imperfezione dei canini danneggiati, il suo dolore psicologico, la minaccia che essi rappresentano alla sua disperata forza di volontà che doveva elevarla al disopra della vita triste e insoddisfacente nella quale è immersa. Non accetta soluzioni di compromesso, vuole che la colpa, la responsabilità, l’errore che è piombato nella sua vita spariscano. O che almeno vengano sanati da una perfetta forma di richiesta di perdono e accettazione di colpa. Non consente a nessuno di andare via, di sdrammatizzare, di adattarsi alla vita così come essa scorre al di fuori delle nostre preferenze e desideri. Riparte sempre di nuovo a rimproverare al mondo il fallimento del suo controllo. L’ingiustizia subita, che occorre sanare ad ogni costo.

La sua controparte è il padre dell’aggressore, (l’attore Cristoph Waltz) un avvocato ricco, sempre al telefono, che tende a razionalizzare, sdrammatizzare, scherzare, che non vuole essere coinvolto troppo è cinico e non sopporta la tendenza di lei a drammatizzare e divenire fondamentalista, e che forse disprezza un po’ suo figlio, insieme a tutte le posizioni morali rigide e esagerate. Nella vita occorre funzionare, vincere, non credere.

Le due figure sono così distanti, così impossibili a comprendersi e capirsi che alla fine trascinano con loro tutto e tutti.

I coniugi seguono, l’alcol distrugge il perbenismo un poco formale di Kate Winslet e le scene finali sono le scene di una rissa inelegante e assurda di reciproci urli e rimproveri, ormai affogati nella disorganizzazione del discorso alcolico.

La lezione finale di Carnage è di un Roman Polanski che guardando i bambini nel parco, sempre in lontananza, li vede giocare con il criceto. Non hanno bisogno di protezione, sapranno trovare un modo di fare pace che è il modo paziente della vita e non il modo rabbioso e dolente degli adulti.

 

Carnage (2011) trailer

Sabato 8-10-2011

rassegna stampaBuoni o cattivi?

Better Angels of Our Nature”, il nuovo libro di Steven Pinker. Il New York Times riporta una breve recensione del nuovo libro di Pinker, professore di psicologia ad Harvard. Questa volta il temerario professore si pone di fronte a una annosa e filosoficamente controversa antica questione: gli esseri umani sono intrinsecamente buoni o cattivi? Lo scorso secolo può essere testimonianza di un progresso o di un collasso morale? Le tendenze aggressive sarebbero ereditarie? Come si spiega la correlazione tra il QI di un presidente con il numero di morti nelle guerre in cui erano coinvolti gli Stati Uniti? Nel cercare non semplici risposte l’autore guarda alle recenti ricerche nell’ambito della storia, delle scienze psicologiche, dell’economia non disdegnando speculazioni filosofiche. Quanto meno in termini relativi, la nostra era sarebbe meno violenta, meno crudele e più pacifica rispetto a periodi precedenti dell’esistenza umana: questa la tesi centrale sostenuta dal libro.

“Musica, bambini!”: i training musicali che migliorano l’intelligenza verbale.

Un nuovo studio pubblicato su Psychological Science pone in evidenza un semplice ma straordinario modo per incrementare l’intelligenza verbale nei bambini dai quattro ai sei anni di età: semplicemente insegnate loro i fondamentali in ambito musicale, quali frequenza, ritmo, melodia e altri concetti, mentre l’altra metà ha partecipato a insegnamenti nell’ambito delle arti visive. Dopo venti giorni di training, i bambini che avevano partecipato al programma di training musicale presentavo livelli più elevati di intelligenza verbale rispetto ai piccoli compagni che si erano impegnati invece nelle arti visive. Per approfondire: York U Media Relation. A proposito di musica e intelligenza: Musica per il nostro cervello! (Parte 2)

Labourista o Conservatore?  Dipende dagli occhi e dal volto!

E’ possibile indovinare con un buon grado di probabilità se i membri del parlamento del Regno Unito siano laburisti o conservatori in funzione delle loro specifiche caratteristiche facciali! Questo è quello che suggeriscono i ricercatori della Queen Mary University of London e University College London,  in un articolo pubblicato questa settimana dalla rivista Perception. Lo studio ha coinvolto un piccolo gruppo di osservatori chiamati a esprimere una loro opinione in merito all’appartenenza politica di 90 volti di Membri del Parlamento inglese, scegliendo da 0 “sicuramente laburista”  a 6 “sicuramente conservatore”. Le loro percezioni e giudizi sono stati poi utilizzati per creare alcune caricature computerizzate del “perfetto” laburista e conservatore. Queste due prototipi caricaturali sono stati in seguito presentati a 70 persone chiedendo loro di scegliere l’appartenenza politica delle due caricature: la faccia prototipica del conservatore sarebbe caratterizzata da un naso più lungo e da un colore più scuro presente sotto le sopracciglia, e sarebbe riconosciuta in quanto tale dalla maggior parte degli osservatori!

Ma dove vai se la memoria non ce l’hai?

Performance ottimali? Non solo esercizio ma anche buona memoria di lavoro! In un nuovo articolo provocatorio apparso su Current Directions in Psychological Science Zach Hambrick, associate professor di psicologia alla Michigan State University, suggerisce che la capacità di working memory possa rappresentare il fattore decisivo e differenziale tra performance “buone” e “ottime”. In una serie di studi, l’autore con il proprio gruppo di ricerca ha dimostrato come individui con elevate abilità di working memory presentassero performance ottimali in compiti complessi, rispetto a coloro che avevano minori abilità di memoria di lavoro. “Mentre la conoscenza specifica che si accumula attraverso la pratica e l’esercizio è un ingrediente fondamentale per  raggiungere elevati livelli di abilità, non sempre però è sufficiente garanzia di performance ottimale” dice Hambrick “in realtà sembrerebbe che sia la funzionalità della working memory ad essere un fattore distintivo per raggiungere prestazioni ottimali in domini complessi quali la musica, gli scacchi, le scienze e perfino lo sport”.

Steve Jobs: Nietzsche 2.0

Steve Jobs - Licenza d'uso: Creative Commons - Proprietario: http://www.flickr.com/photos/marcopako/La morte di Steve Jobs non è un evento cool, come lo è stata la sua vita. Oppure si? Forse davvero Jobs riuscirà a trasformare anche la sua morte in un evento fico, cool? Vedremo. Intanto anche davanti al feretro tutti esprimono tristezza si, ma lieta. O forse lieta no, ma sicura. E cordoglio si, ma sereno. Insomma, c’è già del cool in questa morte.

Come una fata Campanellino, Jobs disperdeva la sua dorata polvere cool su ogni cosa. Perfino su cose che di coolavevano ben poco. Per esempio, il fanatismo. E il fondamentalismo. Chi non ha fatto esperienza del ridicolo fondamentalismo dei consumatori Apple? Chi non ha incontrato il sorriso del fanatico Apple il quale non ti spiegava (le spiegazioni non sono mai cool) ma ti faceva capire con un fatuo e crudele inarcarsi delle labbra che i nostri pachidermici PC erano inesorabilmente sfigati. Noi, poveri insipienti, si pensava che i computer fossero tutti uguali. E che il Mac fosse uno dei tanti PC. Eresia! Improvvisamente apprendevamo che noi senza Mac eravamo “voi che avete scelto il PC non vi capisco e non vi capirò mai”. Scusa, in che senso: abbiamo scelto il PC? L’espressione suonava surreale un po’ come “voi che avete scelto di vivere sul pianeta terra”. Di grazia, qual è l’alternativa? Io non ho scelto il PC così come non ho certo scelto il pianeta terra. Semmai ho comprato un PC, tra i quali c’è quel Mac che però costa troppo e poi ha quell’altra cosa lì, che i soliti programmi non ci girano, e che mi mette un po’ soggezione, lo confesso. Il Mac.

Apriti cielo. Giustificarsi con un fanatico Apple è inutile. Come spiegare le ragioni di un’eresia a un padre domenicano fasciato di bianco e nero dell’inquisizione spagnola. Noi poveri francescani sfigati col PC che avevamo scelto a cazzo. Alla fine ci si rassegnava e si ammetteva la colpa: è vero, l’ho fatto apposta. Non ho comprato un PC, ho scelto il PC. E non il Mac. Mal per noi.

Steve Jobs ha modernizzato il fanatismo, lo ha reso cool e commestibile. E insieme al fanatismo ha reso cool e commestibili tante vecchie cose di pessimo gusto che ci mancavano da un paio di secoli, a noi borghesi d’occidente: la fede, la dedizione, il senso di appartenenza, la volontà di potenza, il gusto di dividersi in tribù (Mac contro PC), la gerarchia, e quindi il sano disprezzo e l’odio verso l’altro, la disciplina, il rito di iniziazione, l’appartenenza a un ordine monastico templare o buddista, l’esclusività snob, un codice di obbedienza all’incrocio tra il bushido dei samurai, l’antica sapienza celtica e druidica, l’esoterismo giudaico, cristiano e islamico e forse perfino la bestia bionda di Nietzsche. Insomma, l’utente Apple è un superuomo cool e Steve Jobs è Nietzsche 2.0

Esagero? Sicuramente si. E perché? Perché l’utente Apple è spesso biondo (infatti al negozio Apple di Lecce, profondo Salento, i commessi erano tutti e tre biondi; come è possibile?) ma non è una bestia. L’intuizione di Steve Jobs è stata proprio questa. Come Nietzsche, egli ci libera dalla colpa e ci addita un paradiso, una terra dove scorre latte e miele. Come San Paolo, Steve ci libera dalla Legge e ci conduce in un santuario dove tutto è permesso. D’altro canto si sa che Steve spesso si travestiva da Gesù al party Apple di Carnevale (non sto inventando, giuro. L’ho letto da qualche parte in questi giorni).

Insomma, come Nietzsche, ma Nietzsche 2.0. Nietzsche senza la bestia. Ovvero, Steve ci da la libertà senza la malvagità, senza la ferocia, senza la soppraffazione del più forte. Nietzsche senza Darwin. Nietzsche senza il diabolismo, senza le ridicole sparate nicciane contro i deboli, contro gli inferiori, contro gli schiavi. Insomma, un Nietzsche gentile e moderno. Nietzsche 2.0.

Lieve ti sia la terra, Steve. Ti dedichiamo pochi versi funebri del nostro Leopardi (Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, l824):

Sola nel mondo eterna, a cui si volve

Ogni creata cosa,

In te, morte, si posa

Nostra ignuda natura;

Lieta no, ma sicura

Dall’antico dolor.

P.S.: a proposito, Steve. Oltre ai tuoi bislacchi fanatici cool ci hai dato anche dei bellissimi computer. E poi l’Iphone. E l’Ipad. Grazie. E ciao.

Piangere ci fa sentire meglio? Non proprio

Pianto_© Alena Ozerova - Fotolia.comChi di noi almeno una volta nella vita non si è sentito dire in un momento di tristezza che dopo avere pianto sarebbe stato meglio? La maggior parte degli stessi psicoterapeuti, a prescindere dal proprio orientamento clinico, considera positivo tale comportamento e addirittura incita il proprio paziente a manifestarlo apertamente in seduta.

La recente ricerca scientifica tuttavia sembra ridimensionare il ruolo terapeutico attribuito al pianto dalla cultura occidentale. Secondo alcuni studi infatti il pianto aumenterebbe il livello di arousal e lo stress della persona e avrebbe quindi degli effetti addirittura deleteri sul tono dell’umore (Hendriks e coll., 2007). Questi autori hanno ipotizzato che il pianto abbia un effetto dapprima attivante (aumento della frequenza del battito cardiaco) e solo in seguito calmante (riduzione della frequenza respiratoria).

Un’altra variabile rilevante è il contesto ambientale in cui avviene il pianto. In alcune circostanze può suscitare in chi vi assiste una reazione di accudimento nei confronti della persona che sta piangendo e determinare un miglioramento sul tono dell’umore, in altri casi invece il pianto può esporre la persona alle critiche altrui, aumentandone il disagio psicologico percepito. Alcuni autori (Rottenberg e coll., 2002, Gross e coll., 1994) hanno evidenziato negli studi da loro effettuati che i soggetti che erano stati esposti ad uno stimolo e avevano pianto riferivano poi di essersi sentiti peggio (aumento del senso di tristezza e di disagio) rispetto ai soggetti che posti di fronte allo stesso stimolo non avevano pianto.

La ricerca recente ha ipotizzato che il pianto possa determinare in alcune categorie di pazienti (in particolare gli alessitimici, i depressi e gli ansiosi) un peggioramento del tono dell’umore, anche se questa ipotesi non è ancora stata testata sperimentalmente.

Alla luce di tutto ciò la domanda corretta da porgersi non è se il pianto sia benefico o meno, ma a quali condizioni esso lo sia o lo possa diventare.

Alcuni studiosi hanno cercato di individuare le singole fasi temporali che caratterizzano il pianto (fase iniziale, picco emotivo/comportamentale e fase finale). Nelson (2005) in particolare si è concentrato sull’individuazione e la classificazione delle varie tipologie di pianto (pianto triste, pianto di protesta, pianto distaccato), ciascuna caratterizzata dai propri scopi, comportamenti manifesti ed effetti sul tono dell’umore.

Per ora le ipotesi illustrate sono teoriche, ma potrebbero essere testate a livello sperimentale ed essere successivamente utilizzate per guidare la futura pratica clinica. Per ora la certezza che abbiamo al riguardo è di saper quanto è complesso in sé il fenomeno del pianto e che al suo interno cela ancora molti segreti da svelare.

BIBLIOGRAFIA:

  • Gross J.J., Frederickson B.F., Levenson R.W. (1994). The psychophysiology of crying.Psychophysiology 31, 460-468.
  • Hendriks, M.C.; Rottenberg, J., Vingerhoets, J.J. (2007) Can the distress-signal and arousal-reduction views of crying be reconciled? Evidence from the cardiovascular system.Emotion; 7: 458–46.
  • Nelson J.K. (2005). Seeing trough tear: Crying and attachment. New York: Brunner- Routledge.
  • Rottenberg, J.; Gross J.J., Wilhelm F.H., Najmi S., Gotlib I.H. (2002). Crying threshold and intensity in major depressive disorder. Journal of Abnormal Psychology, 111, 302-312.
  • Rottenberg, J.; Bylsma, L. M., Vingerhoets, J.J. (2005) Is Crying beneficial? Current research in Psychological Science; 17(6): 400-404.

Vasco Rossi, Wikipedia e la censura

WIKIPEDIA - Licenza d'uso: Creative Commons - Proprietario: http://www.flickr.com/photos/ncaranti/Questa storia della protesta di Wikipedia sembra fatta apposta per farci capire lo stato confusionale di alcune sofferenze psicologiche. Come si sa, oggi Wikipediaprotesta contro “il comma 29 del cosiddetto DDL intercettazioni. Tale proposta di riforma legislativa, che il Parlamento italiano sta discutendo in questi giorni, prevede, tra le altre cose, anche l’obbligo per tutti i siti web di pubblicare, entro 48 ore dalla richiesta e senza alcun commento, una rettifica su qualsiasi contenuto che il richiedente giudichi lesivo della propria immagine.”

In questa protesta di Wikipedia si esprime una giusta preoccupazione contro la censura e il controllo. Inoltre la manovra del governo è sospetta, dato l’eterno conflitto di interessi che ci inquina il giudizio da quasi due decenni.

Tuttavia il contesto a tratti appare bizzarro. Prima di tutto, perché Wikipedia? Perdonate la battuta, ma sono preoccupati per non poter più spulciare nelle lettere private di Napoleone e Talleyrand? E poi, la protesta segue a giro di ruota la querelle tra Vasco Rossi e Nonciclopedia. Una rockstar si scontra con un sito di satira online. Pare che Vasco Rossi intendesse difendere dalle offese la propria onorabilità. Dall’altra parte un sito di satira difende la libertà di parola. Citiamo il noto blogger progressista e liberale Malvino:  “Sfoggeremmo tutto il nostro vittimismo, grideremmo che vogliono metterci il bavaglio, troveremmo senza dubbio il caldo e solidale abbraccio della rete, quel “drogato che a volte spaccia e a volte canta, utilizzando sempre le solite tre parole e le solite tre note” si cagherebbe addosso per lo tsunami e ci perdonerebbe, senza dubbio.  Ma libertà di parola o libertà di insulti?” Hanno ragione un po’ tutti. Il limite all’insulto e alla calunnia è nel bilanciamento dei poteri in uno stato di diritto.

Ma stiamo dimenticando che questo è un blog di psicologia. Spesso nella nostra semplicità psicologica umana cadiamo in orrendi pensieri dicotomici: l’opposto di ciò che è brutto è certamente bellissimo, l’opposto di ciò in cui crediamo fortissimamente è certamente moralmente indegno. Avremmo voglia di un’iniezione di pensiero critico e di prudenza concettuale, avremmo desiderio di maggiori sfumature e prudentissime articolazioni del discorso. Ma questo ci rende deboli in una società in cui l’eccesso è premiato? Come ha dichiarato recentemente qualcuno, “se sei onesto rimani piccolo?” Purtroppo, non sono parole di La Rochefoucald.

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