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Rassegna Stampa: Mercoledì 02-11-2011

 

rassegna stampaBambini, working memory e il supporto genitoriale.

Il buon funzionamento della memoria di lavoro, quella che permette di conservare temporaneamente le informazioni utili allo svolgimento di un compito, è fondamentale nel problem solving e nell’apprendimento. un ampio studio in via di pubblicazione su Development and Psychopathology rivela che lo stress cronico elevato,provocato da situazioni di estrema povertà, favorisce deficit in questo tipo di memoria nei bambini. la responsività materna si è rivelata essere cruciale nel limitare gli effetti dello stress sul sistema mnestico, questa è misura della capacità del genitore di cooperare, aiutare il figlio, di adattarsi ai suoi stati d’animo a alle sue inclinazioni, ma anche di quanto un bambino si sente aiutato dal genitore o quanto questo si è mostrato disponibile a parlare e a fornire consigli quando necessario. il poter contare su un genitore attento e sensibile sembra essere un fattore protettivo potente, in grado di limitare significativamente gli effetti degli stressors ambientali sulla memoria di lavoro.

 

The face of love! Espressioni accomodanti e regolazione della tensione sociale.

Un interessante studio condotto da due ricercatori olandesi, sulla regolazione spontanea delle emozioni sociali si è occupata di stabilire se l’arrendevolezza, intesa come la tendenza a inibire consapevolmente una reazione negativa in risposta al comportamento aggressivo, può manifestarsi anche spontaneamente e in quali condizioni. durante i protocolli sperimentali i partecipanti alla ricerca hanno sorriso spontaneamente quando veniva mostrata la faccia arrabbiata del partner; i visi arrabbiati di sconosciuti invece venivano imitati, suscitando una spontanea reazione di disapprovazione. il livello di vicinanza interpersonale si è quindi rivelato un fattore importante nel promuovere il comportamento in esame, ma anche stili relazionali tipici dei partecipanti allo studio sembrano essere mediatori importanti: infatti le persone che si percepiscono parte della comunità, e tendono a percepire gli scambi interpersonali in modo collaborativo, mostrano spontaneamente maggiore mitezza e arrendevolezza nelle relazioni con gli altri, diversamente da quanto avviene in coloro che vivono le relazioni in termini di “do ut des”, cioè in modo maggiormente utilitaristico.


Zen or Revolution? Accettiamo ciò che è inevitabile, ma ci ribelliamo se si intravede una via d’uscita

Gli autori di un nuovo studio, che sarà pubblicato in un prossimo numero di Psychological Science, hanno indagato il perché le persone rispondono diversamente all’imposizione di regole e limiti. Da cosa dipende l’accettazione e il rispetto di una regola o di un limite? Perché a volte siamo disposti ad accettare una restrizione e altre lottiamo e protestiamo perché si giunga a una rettifica? La risposta sembra essere nella rigidità e immodificabilità della restrizione stessa. quando una regola viene percepita come immutabile, granitica, inevitabile, è più facile che venga accettata, cioè, se proprio dobbiamo convivere con una restrizione, meglio farla nostra che combatterla; quando  invece capiamo che una regola imposta non è definitiva ci riesce difficile accettarne i limiti, in questo caso trasgredire e lottare per un cambiamento dello status quo è una possibilità percorribile e non una perdita di tempo ed energia. Questo processo è responsabile inoltre della ristrutturazione cognitiva che investe anche i giudizi personali sulla positività o negatività della restrizione subita: ciò che è inevitabile finisce addirittura per essere considerato una buona idea!


Felicità = Salute?

Nell’ambito dello studio longitudinale inglese sull’invecchiamento  I ricercatori Andrew Steptoe e Jane Wardle hanno esaminato i dati raccolti in un un unico giorno, considerato una giornata tipo. A un gruppo di quasi 4000 persone, di età compresa tra i 50 e gli 80 anni, è stato chiesto fino a che punto si sentivano felici, eccitati, soddisfatti, preoccupati, ansiosi e timorosi su una scala da 1 a 4 e  in diversi momenti della giornata. Le misure di felicità, eccitazione e soddisfazione sono state combinate per ottenere il punteggio di buon umore, mentre le misure di preoccupazione, ansia e paura quelle di cattivo umore. a questo punto i partecipanti sono stati suddivisi in tre gruppi a seconda del loro quoziente di buon umore; a distanza di 5 anni i ricercatori hanno voluto verificare il tasso di mortalità del campione e confrontarlo con i punteggi di buon e cattivo umore ottenuti: la relazione inversa tra il punteggio di buon umore e il tasso di mortalità è stata così evidente da aver addirittura impressionato i ricercatori che hanno concluso affermando che la ricerca della felicità ha effetti diretti e incontestabili sulla salute fisica.


 

Craving – Pensiero Desiderante

Psicopedia - Proprietà di State of MindIl craving è descritto come un’esperienza soggettiva che motiva gli individui a cercare e raggiungere un oggetto o praticare un’attività (target) allo scopo di ottenere certi effetti (Marlatt, 1987). Per molti autori è considerato il cuore delle dipendenze patologiche e il processo nucleare che guida verso la perdita di controllo del proprio comportamento. Per queste ragioni è considerato un oggetto d’intervento chiave nel trattamento delle dipendenze patologiche (Kavanagh, Andrade & May, 2004).

Una domanda che resta aperta è: qual è il funzionamento cognitivo che alimenta o sostiene questa sensazione di desiderio e impulso incontrollabile (craving)? Recentemente alcuni studi hanno esplorato il modo in cui individui con disturbi da dipendenze patologiche e controllo degli impulsi pensano agli oggetti del proprio desiderio e hanno individuato uno stile di pensiero con specifiche caratteristiche. Il pensiero desiderante, questo è il suo nome tecnico, è una forma di elaborazione cognitiva volontaria di informazioni riguardanti oggetti e attività piacevoli e positive che avviene a due livelli interagenti (Caselli & Spada, 2010):

Verbal Perseveration: pensieri ripetitivi e automotivanti circa il bisogno di ottenere l’oggetto o di svolgere l’attività (es: devo farlo al più presto, ho bisogno di un bicchiere, devo provare a usare quella macchinetta)

Imaginal Prefiguration: immagini mentali multisensoriali dell’oggetto o attività desiderata e del contesto in cui l’individuo lo può realizzare o lo ha realizzato in passato (es: immagino il sapore del fumo nella bocca, mi immagino tutto ciò che ho dentro al frigorifero).

Gli studi preliminari non solo mostrano che il pensiero desiderante risulta un eccessivo in molti individui con problemi di controllo degli impulsi, ma sostengono che abbia caratteristiche trasversali e indipendenti dalla natura dell’oggetto del desiderio (cibo, alcool, fumo, gioco d’azzardo, attività sessuale ecc…). Questi risultati suggeriscono che certe modalità di usare il pensiero rispetto ai nostri desideri (quelle appunto identificate dal pensiero desiderante) possono influire sull’intensità dei nostri impulsi e sulle nostre capacità di autocontrollo.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Caselli, G., & Spada, M.M. (2010). Metacognition in Desire Thinking: A Preliminary Investigation. Behavioural and Cognitive Psychotherapy, 38, 629-637.
  • Kavanagh, D.J., Andrade, J, & May, J. (2004). Beating the urge: Implications of research into substance-related desires. Addictive Behaviors, 29, 1399-1372.
  • Marlatt, G.A. (1987). Craving notes. British Journal of Addiction, 82, 42-43.

 

Ansia

Psicopedia - Proprietà di State of Mind

Emozione caratterizzata da sensazioni di tensione, minaccia, preoccupazioni e modificazioni fisiche, come aumento della pressione sanguigna.
Le persone con Disturbi d’Ansia solitamente presentano pensieri ricorrenti e preoccupazioni. Inoltre, possono evitare alcune situazioni come tentativo di gestire (o non affrontare) le preoccupazioni. I sintomi fisici dell’ansia più frequenti sono sudorazione, tremolio, tachicardia e vertigini/capogiri.
voce adattata da: APA’s Encyclopedia of Psychology.

 

La rappresentazione della Psicosi in Roman Polanski: L’inquilino del terzo piano (1976)

L’inquilino del terzo piano di Roman Polanski: sull’onda di ciò che è stato detto e scritto riguardo a Carnage, certamente un film straordinario, vorrei parlarvi di un altro film dello stesso regista, pardon dello stesso Maestro, che affronta il tema della malattia mentale in modo quantomai chirurgico e sconvolgente.

Si tratta de L’inquilino del terzo piano, che insieme a “Repulsion” e a “Rosemary’s baby” completa la trilogia dedicata da Polanski al lato oscuro, ai meandri orrorifici della mente umana, sebbene gran parte della sua produzione possa a mio avviso ricondursi ad inquietudini sottili e morbose che l’essere umano sperimenta nella propria esperienza.

L’inquilino del terzo piano inizia e termina con la stessa scena, un paio di occhi che spuntano da un corpo quasi interamente bendato e ingessato. E l’urlo di chi riconosce il proprio carnefice ma non può indicarlo. Nella prima scena il letto d’ospedale è occupato da una ragazza, l’inquilina del terzo piano precedente all’arrivo di Roman Polanski – il regista dà il volto al proprio personaggio – che precipitando da una finestra in circostanze incomprensibili lascia la vita e l’appartamento. Polanski va a trovarla in ospedale, un’impeccabile visita di cortesia che il film ci suggerisce essere l’incontro tra un assassino e la sua vittima. Agli antipodi del film, quando cala il sipario, è Polanski a giacere immobile sul letto dopo essersi buttato per due volte dalla finestra maledetta ed è… Polanski ad osservare gli occhi che urlano.

 

La psicosi ne L’inquilino del terzo piano

Tra i due fotogrammi, una pellicola che illustra il processo dello scompenso psicotico con una straordinaria raffinatezza concettuale unita ad una potenza visiva a tratti difficile da sopportare. Polanski, il suo personaggio, che non sappiamo quanto sia distante dal padre artistico data la sconcertante precisione di ogni dettaglio e l’interpretazione a dir poco diabolica, si insedia nell’appartamento e inizia un progressivo ritiro nella follia: allucinazioni e deliri sono dapprima accennati allo spettatore sotto forma di piccoli dubbi, impercettibili perdite di controllo dinanzi ad un ambiente che sembra modificarsi per ragioni che il protagonista non comprende, poi prende forma sempre più consistente il ruolo dei vicini, irritati per i rumori sempre più intollerabili che provengono dall’appartamento del terzo piano.

Sono i rumori della follia, di Polanski, barricato in casa per sventare l’attacco dei persecutori che si moltiplicano; nulla è sufficiente, nemmeno trascinare i mobili contro la porta e rifugiarsi negli angoli più remoti della psiche. Gli occhi iniettati d’odio dei nemici entrano dappertutto e il protagonista può solo fuggire in un baratro sempre più profondo. La disperazione diventa quasi satanica e si avventa sull’identità sessuale del protagonista, Polanski inizia a travestirsi, a truccarsi e osserva con sanguigno compiacimento la propria opera notturna mentre la compie. Il risveglio, nelle vesti di una signora allo sbando, è terrificante e incomprensibile. Nella sua vestaglia l’uomo si trascina alla finestra, aprendola per l’ultimo rimedio. L’impatto è tremendo ma non fatale, Polanski si rialza con le poche ossa che possiamo immaginare siano rimaste sane e risale le scale davanti allo sguardo attonito dei vicini. Il secondo schianto, pochi istanti dopo, lo ridurrà sul letto d’ospedale ad osservare la propria agonia.

Si è rimproverato a molti film sulla patologia mentale di non essere realistici, di non trattare il tema con la dovuta accuratezza concettuale. L’inquilino del terzo piano va oltre il valore di una pellicola ben fatta, perché descrive i passaggi clinici di una patologia psichiatrica ma non li pone al centro della vicenda in modo didattico; si serve in primo luogo della pazienza narrativa, senza rifilare alla platea la figura immediata e grezza del matto Napoleone-dipendente. La mente folle è una mente travolta da emozioni insopportabili, da occhi che si infilano dappertutto, come il dolore che al contempo percepisce. E la realtà normale diventa nel film una delle diverse realtà possibili; bastano alcuni oggetti fuori posto, alcuni sguardi strani a modificarla di un frammento, generando nel protagonista un malessere al quale egli riesce ad attribuire significato solo elaborando un delirio.

Come spettatori del film e come addetti ai lavori della salute mentale assistiamo alla medesima scena, la sottile perdita di controllo di una diade spirito-materia che non si riconosce più. La mia seconda visione del film di Polanski, nel minuscolo e buio cinema Azzurro Scipioni – storica sala romana di cinema e di cultura in cui mi sono ritrovato in totale solitudine durante la proiezione – è stata qualcosa che Freud avrebbe incluso nel concetto di perturbante. Ma poiché siamo cognitivisti basterà il commento di un collega entrato nel cinema a pochi minuti dall’epilogo:

“L’ho visto un sacco di volte e ogni volta mi mette la stessa paura”.

 

L’inquilino del terzo piano (1976) di Roman Polanski, TRAILER:

Se mi lasci ti cancello: dalla fantacommedia alla realtà.

Memory - © marek_usz - Fotolia.comIl film di Michel Gondry Eternal sunshine of the spotless mind – Se mi lasci ti cancello (2004) potrebbe oggi rappresentare non più uno scenario fantascientifico per psicologi e visionari, ma una meta sempre più raggiungibile.

Un gruppo di neuroscienziati dell’Università di New York, guidati da Cristina Alberini, ha scoperto il meccanismo che sta alla base del consolidamento di specifici ricordi. L’applicazione clinica di questo meccanismo potrebbe essere, da un lato il rafforzare la memoria quando a causa di malattie degenerative, come ad esempio la demenza, va a deteriorarsi, e dall’altro il cancellare le memorie di eventi traumatici quali abusi, esperienze di guerra, incidenti, andando trasversalmente ad inibire lo sviluppo di un secondario disturbo post traumatico da stress.

Nel corso della VII Conferenza “The Future of Science” tenutasi a Venezia, la neuroscienziata presenta i dati di questo studio, finora condotto solo sui topi: ”Perché una memoria diventi a lungo termine – spiega – serve un certo livello emotivo, di stress ed eccitazione”. Tuttavia, se lo stress diventa troppo elevato, “si crea un deficit, si interrompe il processo di apprendimento e il ricordo non si consolida”. Alcune memorie, come quelle negative associate alla paura, sono ”legate al rilascio di ormoni, quali il cortisolo e l’adrenalina. Noi abbiamo visto – precisa – che si può intervenire per ridurre una memoria negativa, ad esempio legata al disturbo post-traumatico da stress o alla dipendenza da droghe, o invece aumentarla, nel caso ci si trovi a che fare con il decadimento indotto da demenze”.

La neuroscienziata parla di una specifica finestra temporale in cui è possibile intervenire con alcuni farmaci, da un lato bloccando i recettori del cortisolo facendo diminuire la nitidezza del ricordo nel caso di eventi negativi, dall’altro aggiungendo il fattore di crescita insuline growfactor 2 (IGF2), quando si vuole rafforzare il consolidamento del ricordo. Infatti dopo il verificarsi di un evento, vi è un lasso di tempo in cui è possibile agire farmacologicamente sul suo fissaggio sfruttando nella memoria. Solo successivamente avviene il consolidamento del ricordo. Dopo questa prima sperimentazione sui topi, i ricercatori verificheranno l’eventuale tossicità di questa procedura e proseguiranno gli studi sui primati non umani.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Chen, D.Y., Stern, S. A., Garcia-Osta, A., Saunier-Rebori, B., Pollonini, G., Bambah-Mukku, D., Blitzer, R. D. & Alberini, C. M. (2011). A critical role for IGF-II in memory consolidation and enhancement. Nature, 469, 491–497.

Telefoniamoci… e la nostra autostima cresce

Sabrina Cattaneo, Virna Graffeo.

Telephone - © Tomasz Wojnarowicz - Fotolia.comInternet, gli smartphone e i nuovi media operano un’influenza sempre crescente su alcuni processi psicologici quali lo sviluppo dell’identità, l’autostima, i comportamenti aggressivi; inoltre, in quest’epoca multimediale, sono cambiate molto le modalità con cui ci relazioniamo agli altri, sia in famiglia che nella società. Di questo tratta  la cyberpsicologia che si occupa di indagare le interazioni tra individui e ambienti profondamente pervasi dalla tecnologia e di studiare il nostro comportamento in relazione ai nuovi media.

Studiando l’effetto delle nuove tecnologie sugli adolescenti, alcuni autori (Ling, 2007; Stald, 2008) hanno osservato come l’uso del cellulare sembri influenzare in modo determinante lo sviluppo della loro identità tanto da parlare di “mobile identity”. Tale espressione infatti, non solo sottolinea l’influenza dei nuovi supporti tecnologici sullo sviluppo dell’identità, ma evidenzia anche la “fluidità” di tale costrutto che cambia da momento a momento e che vede gli adolescenti costantemente impegnati nel negoziare la propria immagine.

Le nuove tecnologie inoltre assumono  un significato sociale in quanto permettono ai ragazzi di sperimentare nella condivisione dei valori e delle norme proprie del loro gruppo sociale diventando così importanti mediatori di significati ed emozioni.

Questa importante funzione mediatrice emerge anche all’interno delle relazioni familiari. Weisskirch (2011) ha voluto indagare come l’uso del telefono cellulare influenzi le relazioni tra genitori e figli adolescenti. Studiare le diverse motivazioni che spingono genitori e adolescenti a comunicare è importante per comprendere la natura delle chiamate, i genitori infatti telefonano ai figli soprattutto per monitorare le loro attività, viceversa gli adolescenti sono più motivati dal bisogno di ottenere un “supporto sociale” inteso come ricerca di un consiglio, sostegno a fronte di vissuti emotivi negativi quali rabbia e paura o condivisione di momenti di gioia.

Da questo studio emerge che la frequenza con cui gli adolescenti chiamano per cercare supporto sociale dai genitori è un buon predittore di una migliore autostima nei ragazzi, al contrario, le chiamate che i figli ricevono da genitori turbati o arrabbiati sembrano predire negli adolescenti livelli di autostima più bassi.

Prendendo invece in considerazione l’autostima dei genitori la ricerca evidenzia come questa sia correlata positivamente a due tipologie di comunicazioni: da un lato quelle dei figli che chiamano o inviano messaggi per informare su dove si trovano o su cambi di programmi, o per chiedere il permesso di fare qualcosa e dell’altro quelle dei genitori stessi che usano il telefono per monitorare l’andamento scolastico e seguire i figli nei compiti. Viceversa, l’autostima dei genitori sembra calare notevolmente se i figli chiamano perché emotivamente turbati o in preda a emozioni negative quali rabbia o paura.

Le tipologie di chiamate così delineate sembrano essere correlate all’affermazione o negazione dell’identità genitoriale in quanto rispondere alle domande dei figli e interessarsi degli aspetti scolastici riflette l’immagine di un genitore che assolve al proprio ruolo e ai propri compiti, il che ovviamene incrementa l’autostima.

Alla luce di ciò sarebbe meglio evitare di chiamare i figli quando si è alterati o turbati, mentre ricevere una telefonata del figlio che chiede sostegno in un momento di difficoltà emotiva, rappresenta un segnale positivo in quanto offre una buona occasione per aiutare l’adolescente nella sua gestione emotiva, uno dei compiti fondamentali di un genitore.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Ling, R. (2007). Children, youth and mobile communication. Journal of Children and Media, 1(1), 60 – 67.
  • Stald, G. (2008) Mobile Identity: Youth, Identity, and Mobile Communication Media. Youth, Identity, and Digital Media, 143–164.
  • Weisskirch, R. (2011) No Crossed Wires: Cell Phone Communication in Parent-Adolescent Relationships. Cyberpsychology, Behavior, and Social Networking, 14, 447 – 451.

Le esperienze di rottura nel terapeuta e nel paziente

Terapia - © Lisa F. Young - Fotolia.comLa rivista della SPR (Society for Psychotherapy Research) di settembre ha pubblicato uno studio qualitativo molto interessante sulle rotture dell’alleanza terapeutica. Le rotture dell’alleanza terapeutica sono state definite come “momenti di tensione o breakdown nell’alleanza tra il terapeuta e il paziente, che generano emozioni intense negative” (Safran & Muran, 2000). In questa ricerca, Jeremy Safran con alcuni colleghi americani della University of Maryland e altri portoghesi dell’Universidade do Minho di Braga ha indagato le esperienze di rottura dell’alleanza terapeutica, sia dal punto di vista dei terapeuti che da quello dei propri pazienti, avvenute nelle prime quindici sedute di otto differenti psicoterapie con pazienti con disturbi di personalità (tre pazienti con diagnosi di Disturbo Borderline, due Disturbo Istrionico, un Disturbo Evitante, un Disturbo Paranoide e uno Ossessivo).

I ricercatori hanno preso in considerazione due tipi di rottura dell’alleanza: la withdrawal (WD – in cui il paziente si “allontana” dal terapeuta, tramite risposte corte e minime oppure spostando il focus della risposta verso un tema diverso da quello della domanda) e la confrontation (CF – in cui il paziente “attacca” il terapeuta, esprimendo rabbia o insoddisfazione nei suoi confronti).

Tutte le sedute sono state videoregistrate e valutate tramite il Rupture Resolution Rating System (Eubanks-Carter et al., 2009). Alcuni giorni dopo che una rottura dell’alleanza era stata rilevata dalle registrazioni, sia il paziente sia il terapeuta vengono intervistati (separatamente) in merito ai seguenti argomenti: cause della rottura, evoluzione conseguente all’interno della relazione terapeutica, impatto sulla terapia e esperienza emotiva durante la rottura. Le interviste sono state valutate da cinque “giudici” differenti, utilizzando il metodo qualitativo CQR (Hill, 2011).

Dall’analisi delle interviste dei terapeuti emerge che le cause delle rotture sarebbero da attribuire alla presenza di “un precedente” (“era già successo, allo stesso modo”), a eventi di vita del paziente e alle caratteristiche di personalità del singolo paziente (che lo portano a “preferire” una modalità piuttosto che un’altra di espressione conseguente alla rottura). In particolare, i terapeuti che hanno avuto più rotture WD hanno attribuito la rottura a difficoltà del paziente a processare e a esprimere le emozioni negative e nell’affermazione di sé. I terapeuti hanno riferito di essersi sentiti confusi, ambivalenti, colpevoli o incompetenti (in particolare di fronte a rotture “d’attacco” come le CF). Sembra che i terapeuti, una volta avvenuta e riconosciuta la rottura, abbiamo modificato la propria strategia terapeutica, optando per interventi di validazione emotiva, di comprensione dell’esperienza del paziente “nel momento presente” e di promozione dell’insight nel paziente dei propri pattern interpersonali. In merito alle credenze riguardanti l’impatto che la rottura ha avuto sul paziente, sono emerse alcune differenze tra i terapeuti che hanno avuto più rotture WD o più rotture CF: i terapeuti della prima categoria hanno ritenuto che i loro pazienti abbiamo integrato nella propria esperienza l’evento di rottura come un normale momento di difficoltà relazionale, nonostante abbiamo concluso la seduta sentendosi a disagio; i terapeuti “più inclini” alle rotture CF, hanno ritenuto invece che i loro pazienti abbiamo concluso la seduta sentendosi invalidati e/o rifiutati.

Ora veniamo ai risultati raccolti con le interviste dei pazienti. Non sembrano emergere categorie chiare in merito alle risposte date sulla loro esperienza di rottura dell’alleanza. Ciononostante, i pazienti che hanno vissuto maggiori rotture WD, hanno descritto l’esperienza come un momento molto poco soddisfacente, già accaduto in passato nella stessa terapia, causato da eventi personali accaduti negli stessi giorni con un familiare o un amico. I pazienti hanno riferito di essersi sentiti tristi, confusi e ambivalenti e di aver provato sensazioni di helplessness (“ero così triste che non c’era niente che il terapeuta avesse potuto dire in quel momento”). Per quanto riguarda, invece, le rotture CF, i pazienti hanno riferito di essersi sentiti abbandonati o criticati dal terapeuta, contrariamente ai pazienti che hanno vissuto maggiori rotture WD, i quali hanno riferito di essersi sentiti disperati o angosciati (“avevo paura di perdere il controllo”). In merito alla valutazione dell’intervento del terapeuta, i pazienti hanno riferito che, nei casi di rotture WD, non hanno tratto alcun beneficio dall’intervento del terapeuta e che non avevano alcuna aspettativa rispetto all’agire del terapeuta in quel momento. Nei casi di rotture CF, invece, i pazienti hanno riferito di essersi aspettati che il terapeuta cambiasse strategia e facesse qualcosa di diverso. La stessa aspettativa del paziente, probabilmente, ha influenzato l’agire terapeutico del momento. Rispetto all’impatto delle rotture sulla terapia, nel caso delle rotture CF, i pazienti hanno riferito un impatto negativo, che ha portato anche a casi di drop-out. Nel caso delle rotture WD, invece, i pazienti hanno riferito di aver concluso la seduta sentendosi vulnerabili, nervosi, stanchi o scoraggiati. Al contrario, le rotture CF hanno suscitato nei pazienti emozioni di rabbia e disapprovazione nei confronti del terapeuta.

Il risultato interessante riguarda l’impatto che le esperienze di rottura hanno avuto nei pazienti. Quelli che hanno vissuto maggiori rotture di tipo WD non hanno riferito alcun cambiamento significativo nel proprio processo terapeutico. Dalla ricerca sembra non emergere in modo chiaro se anche i pazienti che hanno esperito maggiori rotture CF non abbiamo riportato alcun cambiamento nel processo terapeutico.

Probabilmente a causa del numero relativamente esiguo di soggetti, gli autori non hanno preso in considerazione la eventuale prevalenza di un tipo di rottura in relazione alla diagnosi del paziente che le ha esperite. Sarebbe, comunque, interessante riflettere e discutere su come (e se) i tratti di personalità influenzino le “preferenze” dei pazienti verso una modalità di reazione alla rottura dell’alleanza piuttosto che un’altra.

Nonostante molteplici dati emersi da questa ricerca, l’aspetto più interessante risiede nel fatto che, sebbene l’alleanza terapeutica sia un tema studiato e approfondito in letteratura (nonché, a parere di chi scrive, molto affascinante), per la prima volta vengono confrontati i vissuti del terapeuta e del paziente durante questi intensi momenti relazionali. Tale approccio potrebbe fungere da trampolino di lancio per approfondire ancora di più la comprensione dell’alleanza terapeutica, delle sue débâcle e dei molteplici punti da cui si può osservare.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Coutinho J., Ribeiro E., Hill C & Safran J. (2011). Therapists’ and clients’ experiences of alliance ruptures: A qualitative study. Psychotherapy Research. 12(5): p. 525-540.
  • Eubanks-Carter, C., Mitchell, A., Muran, J.C. & Safran, J.D. (2009). Rupture resolution rating system (3RS): Manual. Unpublished manuscript.
  • Hill, C.E. (Ed.) (2011). Consensual qualitative research: A practical resource for investigating social science phenomena. Washington DC: American Psychological Association.
  • Safran, J.D., & Muran, J.C. (2000). Negotiating the therapeutic alliance: A relational treatment guide. New York, NY: Guilford.

Il Cristo nero in Padania e Barbalbero in Emilia

Cristo_Morado - Licenza d'uso: Creative Commons - Proprietario: http://www.flickr.com/photos/congresoperu/Il Signore dei Miracoli, il Cristo di Pachacamilla, il Cristo viola, il Cristo delle Meraviglie, il Cristo bruno e il Signore dei terremoti (Señor de los Milagros, Cristo de Pachacamilla, Cristo Morado, Cristo de las Maravillas, Cristo Moreno e Señor de los Temblores) è stato celebrato domenica a Milano da quattromila peruviani in una festa sacra con una messa e una processione in piazza del Cannone, al Castello.

Il Cristo viola è il patrono del Perù, e da quest’anno è celebrato anche dalla comunità peruviana milanese. L’immagine originale del Cristo viola e bruno fu dipinta in Perù nell’anno 1651 da uno schiavo nero deportato dall’Angola. Ed è giusto che il Cristo nero venga adorato anche a Milano, che è la città più mescolata d’Italia. Questo Cristo così intenso e brunito potrebbe muovere qualcosa nel cuore mediterraneo dei tanti milanesi arrivati qui dal sud, e negli stessi milanesi che da sempre oscillano tra vocazione europea e radice italiana…. CONTINUA A LEGGERE SU AFFARI ITALIANI

Dimmi se ti disgusta e ti dirò chi voti.

Disgust-© snaptitude - Fotolia.comNonostante alla gente piaccia credere che le proprie convinzioni siano frutto di una scelta puramente razionale, un crescente corpo di ricerca ha trovato un’associazione tra le scelte politiche e le risposte neurofisiologiche di fronte a determinati stimoli.

I risultati della scoperta provengono da un recente studio effettuato su persone sottoposte alla visione di immagini raccapriccianti ad esempio, l’immagine di un uomo che sta mangiando dei vermi. I soggetti che si erano dichiarati come politicamente conservatori, hanno reagito con un disgusto particolarmente profondo, soprattutto coloro che avevano espresso la propria opposizione al matrimonio tra coppie gay.

Lo studio suggerisce che le predisposizioni neurofisiologiche delle persone contribuiscono a modellare i loro orientamenti politici, hanno dichiarato i ricercatori Kevin Smith e John Hibbing della University of Nebraska-Lincoln. Secondo gli autori quindi, la reazione istintiva e soggettiva del disgusto profondo ha probabilmente anche un effetto sulle convinzioni razionali senza che vi sia consapevolezza della sua influenza.

Figure 1 - Licenza d'uso: Creative Commons - Retrievable from: "Disgust Sensitivity and the Neurophysiology of Left-Right Political Orientations" - http://www.plosone.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pone.0025552
Sopra: un esempio del tipo di immagine disgustosa mostrata ai partecipanti al test. Sotto: le differenze nella risposta di disgusto tra i sostenitori (a sinistra) e i contrari (a destra) al matrimonio gay. Immagini: Smith et al./PLoS One.

Le scoperte di Smith e Hibbing pubblicate il 19 Ottobre 2011 sul Public Library of Science One sono le ultime e più recenti di una serie di indagini sugli aspetti neurofisiologici della morale e della politica. Altri ricercatori in passato hanno dimostrato che gli individui politicamente conservatori tendono ad avere uno stile cognitivo più rigido e strutturato rispetto ai liberali, notoriamente riconosciuti come individui più aperti e disponibili alla accettazione delle ambiguità; è stato inoltre dimostrato che i conservatori hanno anche tempi di reazione più brevi di fronte ad uno stimolo potenzialmente pericoloso (sono cioè anche i più veloci nel sentirsi minacciati da qualcosa).

 

Il disgusto è particolarmente interessante per i ricercatori perché è un’emozione fondamentale, un elemento emotivo che ha caratteristiche primordiali. Sembra infatti che i sentimenti di ripugnanza morale traggano origine da processi neurobiologici paralleli alle emozioni di ripugnanza per il cibo avariato. In sintesi, negli studi effettuati tramite questionari, le persone inclini a profondi sentimenti di disgusto tendono a fare scelte politiche tipiche del versante conservatore.

I partecipanti al test (27 femmine e 23 maschi residenti di Lincoln, Nebraska, con un’età media di 41 anni, selezionati da un pool più ampio di 200 persone sottoposti ad un sondaggio politico) sono stati sottoposti alla visione di una serie di immagini “disgustose” e “non disgustose”. Tramite degli elettrodi applicati sulla loro pelle sono stati misurati i cambiamenti della conduttanza cutanea, uno tra gli indicatori fisiologici della risposta emotiva.

In linea con le precedenti osservazioni, si è visto che i conservatori politici reagivano con un disgusto significativamente superiore rispetto ai liberali politici. La presenza di convinzioni coscienti sulla legittimità o meno del matrimonio tra coppie gay, tema strettamente legato alle nozioni di purezza morale, sono risultate particolarmente predittive.

“È un grande esempio dell’esistenza di un ponte sempre più solido tra biologia e scienze politiche”, ha detto Jonathan Haidt, psicologo della New York University che studia il rapporto tra il disgusto e la moralità.

Smith e Hibbing sono stati attenti a sottolineare i limiti del loro lavoro. Il rapporto di causa ed effetto non è chiaro, ma il sospetto è che la popolazione graviti attorno alle convinzioni politiche che si adattano ai loro sentimenti. Potrebbe anche essere però che siano le stesse convinzioni politiche a modificare il modo in cui le persone percepiscano emozioni e sentimenti.

Riconoscere il ruolo della biologia significa evitare inutili ostilità e conflitti con le persone che non sono d’accordo con il nostro orientamento politico. Secondo questo punto di vista, sarebbe preferibile considerare le persone con convinzioni morali diverse dalle nostre non come semplicemente stupide o cattive, ma come influenzate da abitudini diverse radicate nella mente.

“Dopo tutto, se le differenze politiche sono riconducibili in parte al fatto che le persone variano nel modo in cui fisicamente hanno esperienza del mondo, la certezza che ogni particolare visione del mondo sia oggettivamente la più corretta può diminuire, riducendo l’arroganza che alimenta il conflitto politico”, scrivono Smith and Hibbing.

 

BIBLIOGRAFIA:

Assisi 2011: Ricordi del IV Forum sulla Formazione in Psicoterapia

IV Forum sulla Formazione in Psicoterapia - Assisi 14-16 Ottobre 2011 -Copyright immagine: © Roberto Zocchi - Fotolia.comIl convegno di Assisi si è concluso in un giorno in cui un vento caldo accarezzava la nostra pelle, ancora scoperta ai raggi del sole, e la flebile sensazione che ne scaturisce è simile a quella che ogni intervento realizzato dai partecipanti ha lasciato nelle nostri menti.

Un fiume di voci, di cori e di notizie scientifiche risuona nell’aria. Speranze, sogni, e lamenti: tutto questo è stato Assisi, IV Forum sulla formazione in psicoterapia. Molte ricerche sono state presentate, toccavano temi disparati, presentati attraverso slide dai mille colori, che con un tocco di fantasia facevano emergere i risultati più interessanti e curiosi.

Mille spunti clinici, milioni di ricerche e tanti volti. Proprio questi ultimi mi hanno colpito più di tutto; il terrore di affrontare una platea di gente affamata di conoscenza incuteva timore e ansia in coloro che avevano scelto di condividere con tutti il proprio lavoro, che sforzi e speranze aveva alimentato per lungo tempo.

Assisi 2011 - Autore: Francesca FioreOgnuno mostrava e offriva alla platea un’espressione diversa: chi sorrideva forzosamente, chi sudava e chi seriamente affrontava la situazione come un soldatino chiamato alle armi. Tanti argomenti, mille forme: dai disturbi dell’alimentazione al rimuginio, dalla schizofrenia alla depressione, dal disturbo ossessivo compulsivo ai processi cognitivi, dalla paura alla felicità.

Infatti, dopo aver esposto la propria ricerca e aver ricevuto plausi all’unisono i volti si rilassavano e dei sorrisi liberatori sbocciavano e fluivano come l’acqua del ruscello, ma la paura era in agguato e il rimuginio partiva: ed ora cosa potranno chiedermi? e se non riuscissi a rispondere? Alla fine tutto andava per il meglio e la felicità regnava sovrana.

Poi la sera, come per magia, con un tocco di bacchetta magica tutti cambiano e le angosce e le emozioni spariscono per dare spazio all’allegria, alla festa, alle risate, alla vita. Tutti allegri e spensierati, pronti a godersi i frutti dell’agognato lavoro.

Assisi, magica Assisi, regali sempre a tutti un arcobaleno di emozioni, che per sempre inebrieranno i nostri ricordi. Quella splendida e mistica città regala,con un tocco di mistero, una indicibile sensazione si soave pace che accompagna l’evento e unita alla bravura indiscussa dei partecipanti ci porta a dire un solenne e profondo grazie e arrivederci al prossimo forum.

Musica, comunicazione e universali culturali.

Musica - © -Misha - Fotolia.comCome è noto, dove c’è vita c’è musica. Ogni essere umano, di qualsiasi cultura conosciuta, ascolta o suona musica. Anche nel mondo animale i suoni e le “melodie” hanno spesso una funzione adattiva per le specie che li producono. Nella musica c’è sempre un messaggio, un desiderio comunicativo potente e irrinunciabile e l’intenzione di esprimere uno (o più) stati emotivi che vengono interpretati e letti dalla maggior parte delle persone nello stesso modo (pensiamo alle emozioni fondamentali). Pensiamo all’incertezza e allo stordimento che trascinano l’ascoltatore per ore della incompiuta Arte della Fuga di Bach ma anche, senza scomodare i maestri, ai tempi malinconici e sconfortanti di una banale ballata in minore.

Inoltre, molti elementi comportamentali legati all’azione dell’ascoltare la musica possono essere letti come gesti attachment-related: pensiamo al calore di una ninna nanna cantata ad un bambino, che promuove l’attaccamento ai propri genitori, a come suonare musica d’insieme si fondi sul lavoro in squadra e sull’ascolto reciproco, oppure al senso di coesione e di cooperazione che si prova a “rincorrere” il compagno che ha accelerato un po’ troppo sul tema che sta suonando.

Le basi biologiche della musica sono evidenti a tutti, ma in uno studio della University of Helsinki and Sibelius-Academy di Helsinki tali basi sono state indagate sperimentalmente. Un campione di 437 persone (appartenenti a 31 famiglie finlandesi), di età compresa tra gli 8 e i 93 anni, con cultura musicale differente (dai professionisti ai “musicalmente ignoranti”) hanno compilato un questionario in cui veniva indagato proprio l’atto dell’ascoltare musica, sia in modo attivo (ascolto attento, andare ad un concerto…) sia in modo passivo (ascoltare musica in sottofondo, alla radio mentre si lavora…). A tutti i partecipanti sono stati fatti alcuni test di attitudine musicale ed è stato prelevato un campione di DNA. Nello studio, i partecipanti hanno riportato una media di ascolto attivo settimanale pari a 4.6 ore e una media di ascolto passivo settimanale di 7.3 ore. È stato inoltre notato che all’aumentare della educazione musicale e dei punteggi ottenuti ai test attitudinali aumentava il tempo di ascolto attivo. Inoltre, sono stati riscontrate correlazioni genetiche tra membri della stessa famiglia in termini di tone-deafness (in termini meno tecnici “l’essere stonati come una campana”), orecchio assoluto, attitudine musicale, funzioni superiori legate alla creatività ma anche rispetto al desiderio di ascoltare musica.

Lo studio finlandese ha individuato il legame che il gene AVPR1A avrebbe proprio con le attitudini musicali. AVPR1A è lo stesso gene associato alla comunicazione sociale e ai comportamenti di attaccamento negli umani in altre specie (ad esempio, migliora le vocalizzazioni negli uccelli e influenza lo sviluppo dei piccoli di lucertola).

I risultati di questa ricerca aprono la strada ad un campo molto affascinante e forse ancora poco studiato rispetto alle sue potenzialità e, allo stesso tempo, conferma tutto ciò che molti musicisti hanno da sempre saputo: “La musica è l’esempio unico di ciò che si sarebbe potuta dire – se non ci fosse stata l’invenzione del linguaggio, la formazione delle parole, l’analisi delle idee – la comunicazione delle anime” (Marcel Proust).

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Ukkola-Vuoti L., Oikkonen J., Onkamo P., Karma K., Raijas P. & Järvelä I. (2011). Association of the arginine vasopressin receptor 1A (AVPR1A) haplotypes with listening to music. Journal of Human Genetics. 56: 324–329.

Sofferenza e bassa autostima? Colpa della postura

Postura - © Jaeeho - Fotolia.comOltre che a far venire il mal di schiena e ad attirare i rimproveri di nonne e mamme, sembrerebbe che una postura curva possa esser connessa ad una autostima e a una soglia del dolore più bassi.

La ricerca, della Marshall University in California, condotta da Vanessa K. Bohns e Scott S. Wiltermuth e pubblicata sul Journal of Experimental Social Psychology, ipotizza che mantenere la testa alta e le spalle dritte, non solo riduca la sensibilità al dolore fisico, ma conduca anche ad un maggior benessere psicologico e ad una visione più positiva e sicura di noi stessi nel rapporto con gli altri.

I partecipanti dello studio, condotto dal ricercatore S. Wiltermuth, sono stati sottoposti a due situazioni: in una dovevano mantenere testa e spalle dritti e farsi misurare la soglia del dolore, nell’altra veniva valutavo il modo in cui la postura incideva nel rapporto con un interlocutore durante una situazione stressante come un colloquio. I risultati hanno mostrato che chi manteneva una posizione “dominante” riusciva a sopportare meglio il dolore e aveva l’impressione di essere più potente nei confronti dell’altro, di avere la situazione più sotto controllo e di tollerare maggiormente lo stress rispetto a chi mostrava una postura dimessa o scomposta.

Secondo i ricercatori mantenere la postura quando si sta male fisicamente, evitando al contrario di mettersi in posizione fetale, rannicchiandosi su se stessi, come solitamente si è portati a fare, permetterebbe di mantenere un senso di controllo sulle proprie sensazioni e di ridurre il dolore esperito. Lo studio, che si ricollega a ricerche passate, ha messo in evidenza come il rilascio di testosterone, nelle situazioni in cui si ha una postura aperta, sia maggiore e come questo sia in rapporto con una significativa riduzione del cortisolo, l’ormone dello stress, rendendo così una situazione spiacevole meno dolorosa e più tollerabile.

Lo stress a cui si allude non è solo quello fisico, ma anche quello emotivo a cui si è costretti nella vita quotidiana, per questo secondo Wiltermuth, la ricerca potrebbe avere delle ripercussioni utili anche nella vita di persone con un ridotto senso di efficacia e potere.

 

BIBLIOGRAFIA:

L’Inguaribile ottimismo degli uomini in fatto di sesso!

Stalking - © zonch - Fotolia.comMi sono sempre chiesta attraverso quali meccanismi cognitivi gli uomini riescano ad interpretare un timido sorriso femminile come una chiara dichiarazione di disponibilità a intraprendere una relazione sessuale. Per un po’ mi sono risposta che evidentemente in casi come questo un altro organo si sostituisse al cervello, ma mi sbagliavo.

Ciò non è infatti banalmente dovuto al loro essere mitologicamente un po’ umani e un po’ maiali, è una questione evolutiva: gli uomini sono geneticamente predisposti ad avere un atteggiamento eccessivamente ottimistico nell’interpretare possibili segnali di interesse da parte delle donne.

La teoria dell’investimento genitoriale  (Trivers, 1972) suggerisce infatti che  la femmina, essendo più coinvolta nell’aspetto riproduttivo, sia per natura più selettiva dell’uomo nella scelta del compagno, mentre il maschio si dimostri più competitivo nell’aggiudicarsi il partner sessuale.

La conferma arriva da una ricerca del 2003, condotta su un campione di circa duecento studenti universitari del Texas. Ai soggetti è stato chiesto di rispondere a due questionari, il primo destinato alla raccolta di informazione biografiche e il secondo volto ad indagare le modalità attraverso cui si interpretano gli eventi di natura sessuale.

I risultati confermano l’ipotesi di partenza: gli uomini, a differenza delle donne, sono vittime del cosiddetto sexual overperception bias, la tendenza cioè ad attribuire alla potenziale partner intenzioni sessuali che in realtà non possiede.

Del resto, nella gara per la riproduzione, i costi per una mancata occasione sono superiori a quelli di un possibile rifiuto ed è tale asimmetria, in accordo con la teoria della gestione dell’errore (Haselton e Buss, 2000), a generare distorsioni cognitive di questo tipo.

Ecco spiegata anche la tanto inflazionata espressione maschile “ogni lasciata è persa!”.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Haselton, G. M. (2003). The sexual overpercption bias: Evidence of a systematic bias in man from a survey of naturally occurring events, Journal of Research in Personality 34, Academic Press.
  • Trivers, R. L. (1972). Parental Investment and sexual selection. In B. Campbell (ed.), Sexual selection and the descent of man: 1871-1971. Chicago: Aldine
  • Haselton, M. G.,  Buss, D. M. (2000). Error management theory: a new perspective on biases in cross-sex mind reading, Journal of Personality and Social Psychology, 78.

Rassegna Stampa: Venerdì 28-10-2011

rassegna stampaPensare al concetto di Dio può diminuire la motivazione per il raggiungimento di obiettivi individuali.

La pratica religiosa, ingrediente fondamentale dei modelli di ciascuna cultura, può influenzare gli atteggiamenti, i comportamenti, le priorità, le motivazioni e la progettualità degli individui. Una ricerca di Kristin Laurin, University of Waterloo in Canada, e pubblicata su Journal of Personality and Social Psychology, ha coinvolto più di trecento studenti universitari di età media di 19 anni in una serie di sei esperimenti con la finalità di verificare come l’idea e la concezione di Dio possa influenzare indirettamente la motivazione individuale, anche tra coloro che si definivano persone non religiose. Mediante una serie di espedienti di manipolazione sperimentale basata sul priming si è verificato che le persone che indirettamente erano state spinte a pensare a Dio  presentavano un livello di motivazione e di performance minore in un compito di produzione linguistica rispetto al gruppo di controllo. Per di più, tra tutti gli studenti sottoposti al “priming divino”, coloro che, in fase pre-sperimentale avevano dichiarato di ritenere che, fattori divino-religiosi, potessero influenzare in qualche modo la loro futura carriera lavorativa tale effetto di priming divino è risultato ancora più saliente e significativo. Un secondo gruppo di esperimenti ha invece valutato la capacità degli individui di resistere alle tentazioni: di nuovo, coloro ai quali poco prima era stato chiesto di leggere un breve brano religioso, riportavano una maggiore volontà di resistere alle tentazioni.

 

Paura, avidità e crisi finanziarie: il punto di vista delle neuroscienze cognitive.

Segnaliamo un interessante contributo di Andrew W. Lo, Professore di Finanza e Direttore del Laboratory for Financial Engineering presso il MIT Sloan School of Management, che propone una lettura cognitiva e neuroscientifica delle crisi finanziarie e relativi stati mentali individuali. Partendo dalla prospettiva storica che identifica la paura e l’avidità come comuni denominatori delle crisi finanziarie, il professore di finanza si avventura nella lettura  e in tentativi di analis delle dinamiche emotive e comportamentali umane in relazione a tali eventi con il supporto delle recenti evidenze empiriche nell’ambito della neuroscienza cognitiva. Secondo l’autore, esplorando le basi neuroscientifiche della cognizione e del comportamento sarebbe auspicabile identificare i fattori implicati nelle crisi finanziarie e quindi costruire modelli di previsione e intervento efficaci. Il contributo, capitolo del libro Handbook on Systemic Risk, Cambridge University di J.P. Fouque  e J. Langsam è scaricabile online gratuitamente qui.

Segnaliamo inoltre: Cognitivismo ed Economia.

 

Cannabis: un caos cognitivo nel cervello

L’uso di Cannabis sarebbe associato a difficoltà di concentrazione e di memoria: ecco i risultati di una ricerca guidata dall’Università di Bristol e pubblicata su Journal of Neuroscience.  Nello specifico è stato identificato che l’attività cerebrale diventa scoordinata e inaccurata durante questi stati di alterazioni della mente, ricordando in qualche modo le deficitarietà neurofisiologiche e comportamentali rilevate anche nella schizofrenia. L’attività cerebrale può essere paragonata alla prestazione di un’orchestra filarmonica, tale per cui diverse strutture cerebrali, proprio come diversi strumenti musicali, lavorano sintonizzandosi a specifiche frequenze: la loro attività ritmica da origine a onde cerebrali, e la sintonizzazione di queste onde cerebrali sostanzialmente consente il processamento delle informazioni finalizzato a orientare il nostro comportamento. I ricercatori hanno misurato l’attività elettrica di centinaia di neuroni nei topi ai quali era stata somministrato un farmaco simulatore dei principi psicoattivi della marijuana. Mentre gli effetti sulle singole regioni cerebrali sono risultati lievi, il farmaco ha profondamente scompaginato la coordinazione delle onde cerebrali tra ippocampo e corteccia prefrontale (regioni essenziali per la memoria e i processi di presa di decisione) proprio come se due parti dell’orchestra stessero suonando in modo asincrono. A livello comportamentale, i topi si sono dimostrati incapaci di prendere decisioni efficaci durante i loro spostamenti all’interno del labirinto.  In senso più allargato, gli esiti di questa ricerca presentano importanti implicazioni e inviti a rilanci scientifici futuri volti a ottenere una maggiore comprensione dell’attività ritmica del cervello in associazione a condizioni disfunzionali e psicopatologiche.

 

L’importanza della curiosità nello studio.

Un nuovo studio pubblicato su Perspectives in Psychological Science basato su una meta analisi di 200 studi dimostra che la curiosità rappresenta una parte rilevante delle prestazioni in ambito accademico. Il tratto di personalità della curiosità infatti sembra essere tanto importante quanto l’intelligenza nel determinare il rendimento scolastico degli studenti universitari. Tra gli altri tratti di personalità che correlano con il funzionamento a scuola vi è la coscienziosità: non è una grande sorpresa nell’affermazione, ma ora empiricamente verificata, che chi mostra maggiore inclinazione a frequentare le lezioni e a svolgere i propri compiti tende ad avere un buon rendimento accademico. Ad ogni modo, la curiosità, intesa metaforicamente come “fame esplorativa” e secondo gli autori concettualizzabile come curiosità intellettuale e percettiva, sarebbe un ingrediente chiave, ancor di più se associata al tratto della coscienziosità, per avere una brillante carriera universitaria.

Sonno e Memoria: Ti serve un’idea brillante? Dormici sopra

Sonno e Memoria: ti erve un'idea brillante? Dormici sopra - Immagine: © Jean B. - Fotolia.comSe è vero quello che dicono le statistiche, ovvero che ciascuno di noi spende circa un terzo della propria vita dormendo, deve pur esserci una ragione, giusto? Come confermato dalle ricerche degli ultimi 50 anni, oggi sappiamo che il sonno non è uno stato di incoscienza in cui non succede nulla, piuttosto si tratta di un periodo di cambiamenti ciclici regolari tra l’attività del corpo e del cervello.

La prima fase è quella dell’assopimento, in cui tutto l’organismo si prepara alla dimensione vera e propria del sonno: il battito del cuore diminuisce, così come il respiro, e la temperatura del corpo inizia ad abbassarsi. È così che ci addormentiamo. Durante la fase d’inizio, il cervello modifica il suo stato bioelettrico: si passa dalle onde alfa, caratteristiche di una condizione di rilassamento, alle onde theta, tipiche dello stato di dormiveglia, fino alle onde delta del sonno profondo.

Dormi che ti passa! Le proprietà terapeutiche della fase REM - Immagine: © Valua Vitaly - Fotolia.com
Articolo consigliato: Dormi che ti passa! Le proprietà terapeutiche della fase REM

Il sonno vero e proprio consiste in una serie di cinque cicli della durata di circa novanta minuti ciascuno e caratterizzati da una fase di sonno profondo (sonno non REM), seguita da una fase di sonno più leggero (stadio REM); solo quest’ultima è caratterizzata dalla presenza dei sogni ed è in questa fase che si organizzano e si fissano i ricordi.

È quello che si legge su un articolo pubblicato dall’ Association for Psychological Science e riportato su Psypost alcune settimane fa. Le dottoresse Payne e Kensinger, psicologhe rispettivamente dell’università di Notre Dame e del Boston College e coautrici di una review sugli effetti del sonno sul nostro organismo, affermano che il sonno non solo consolida i ricordi, ma farebbe qualcosa in più, ovvero ricostruirebbe e riorganizzerebbe le nostre memorie.

In particolare, la persona addormentata tenderebbe a immagazzinare la parte emozionale di un ricordo: ad esempio, se alle persone vengono mostrate scene ad alto impatto emotivo (come gravi incidenti stradali), esse tendono a ricordare e fissare, durante il sonno, proprio la parte emotiva dell’esperienza più che i dettagli del fatto. Ai partecipanti dello studio in questione è stato proposto proprio qualcosa di simile: venivano loro mostrate scene emotivamente attivanti prima di addormentarsi, dopodiché veniva loro misurata l’attività del cervello durante il sonno e il loro ricordo effettivo al risveglio. Ciò che emerge è il fatto che queste persone ricordano meglio l’emozione provata e non, ad esempio, i dettagli presenti nella scena. Anche a livello cerebrale si evidenzia che le regioni attive durante il sonno sono quelle della memoria e delle emozioni.

La nicotina migliora la memoria ed aiuta a combattere i Deterioramenti Cognitivi. Immagine: © dalaprod - Fotolia.com -
Articolo consigliato: La nicotina migliora la memoria ed aiuta a combattere i Deterioramenti Cognitivi.

Un altro studio pubblicato su The Journal of Neuroscience mette in evidenze come il sonno sia fondamentale per il consolidamento della memoria a lungo termine. Analizzando il tracciato elettroencefalografico di 191 volontari è emerso che, durante la fase di sonno REM vi è un aumento dell’attività cerebrale: in particolare, più il cervello è attivo durante questa fase, migliore sarà il ricordo. Ciò che gli autori sostengono è che durante la veglia è come se il nostro cervello “catalogasse” nella corteccia prefrontale tutte le informazioni che gli arrivano, mentre sarebbe l’attività dell’ippocampo durante il sonno a consolidarle.

Nelle attuali società occidentali con ritmi di vita frenetici, tra le prime cose a pagarne le conseguenze sono proprio le ore di sonno, probabilmente perché vi è ancora una convinzione alla base che dormendo “non si fa niente”. Ma questo non è vero: il cervello è impegnato, non solo a consolidare ciò che abbiamo fatto, letto e pensato, ma anche a riorganizzare tutte queste informazioni scegliendo tra le più rilevanti e rendendoci creativi. Se abbiamo una buona idea, insomma, ci verrà in mente probabilmente al mattino. Perciò, dormiamoci sopra.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Cartwright, R. D., (2010). The twenty-four hour mind: the role of sleep and dreaming in our emotional lives. Oxford University press.
  • Diekelmann, S., & Born, J., (2010). The memory function of sleep, Neuroscience.
  • Sleep Makes memories stronger. Psypost.

Psychological/social factors enhancing political radicalism

Shaul Kimhi.

 

Radicalism - © Alexey Afanasyev - Fotolia.comPolitical radicalism or simply radicalism is adherence to radical views and principles in politics. The meaning of the term radical (from Latin radix, root) in a political context has changed since its first appearance in late 18th century. Nevertheless, it preserves its sense of a political orientation that favors fundamental, drastic, revolutionary changes in society, literally meaning “changes at the roots”. Its specific forms vary from reformism (early 19th century, antonymous to conservative) to the contemporary synonym of extremism (antonymous to moderate). The 19th century American Cyclopaedia of Political Science states that “radicalism is characterized less by its principles than by the manner of their application”. Conservatives often used the term radical as a pejorative.

The following list contains possible socio-psychological factors that enhance or assist people who join terror groups and help them to justify their acts. Each of these concept followed by possible social psychology concepts (usually very well researched) that might shed some light on the suggested factor.

  1. Ideology/religion that promises clear and simple solutions to all or most problems. For example, religious who promises their followers that if only certain steps will be taken, that the messiah will come and all our problems will be solved. Social psychology concepts: Persuasion, massive social pressure creating conformity, prevention of criticism, use of ceremonies, special techniques such as sleep deprivation, isolation from the rest of the world.
  2. Strong belief that there are no other alternatives but the one proposed by ideology/religion. For example, research on suicide terrorist indicated that many of them believed that explode themselves in order to harm their enemies is the only way to victory, achieving their goal, and the like. Social psychology concepts: Narrowing the cognitive spectrum (psychopathology such as depression, extreme stress).
  3. The world is interpreted according to one “overall” perception which is not subject to any doubts. Social psychology concepts: Narrowing the cognitive spectrum, characteristics of cult.
  4. Charismatic leader who attracts followers. The followers fully accept and conform with the leader’s ideology and instructions. Social psychology concepts: Conformity and obedience, group thinking, cults.
  5. Clear sense that “my” in-group is in danger: It is “we against them”. Social psychology concepts: In-group vs. out-group.
  6. Stereotypical thinking in black/white with no gray or possible compromising. Compromising is perceived as surrender. Social psychology concepts: Stereotypes and prejudice.
  7. Atmosphere of support for the steps being taken (such as use of violence). Social psychology concepts: Norms and values.
  8. The goal is more important than the person and all means are legitimate to achieve that goal. Psychology concepts: Moral disengagement (Bandura): moral justification, euphemistic labeling, advantageous comparison, displacement of responsibility, diffusion of responsibility, disregard or distortion of consequences, dehumanization and attribution of blame.
  9. Sense of futility – A sense that nothing will work out but tough measures such as use of violence. Social psychology concepts: Situation effect (Zimbardo Prison Experiment), de-individuation, de-humanization.
  10. Destroying the system/regime/world is perceived as unavoidable.
  11. Sense of time limit: the change has to come now.
  12. Young age might facilitate the above processes. Young people who are –among other- looking for their own identities are more prone toward these processes.
  13. Group dynamic processes.

However, it is impossible to account for what combinations of the above factors are necessary to lead people to radicalism. Probably this differs according to cultures/ethnic/groups and historical periods. In other words, there are many roads to political radicalism. As a result, our ability to predict political radicalism (when, where and way) is limited and much more research is needed.

Le psicoterapie che non funzionano: il punto di vista della ricerca empirica

Che cosa accade quando le psicoterapie non sono efficaci o sono addirittura dannose? Queste domande hanno una rilevanza scientifica ed etica da non trascurare. 

Psychoterapy - © Athanasia Nomikou - Fotolia.comNegli ultimi cinquant’anni la ricerca in psicoterapia ha compiuto grandi progressi nell’identificare i fattori di processo e di esito che sono associati al cambiamento e che favoriscano un outcome positivo in terapia. È stata dimostrata un’efficacia generale nell’esito delle psicoterapie che si attesta attorno al 60%. Ma viene da chiedersi: cosa ipoteticamente accade al restante 40% del campione che non rientra all’interno della categoria delle terapie efficaci?

Che cosa accade quando le psicoterapie non sono efficaci o sono addirittura dannose? Queste domande hanno una rilevanza scientifica ed etica da non trascurare.

La letteratura scientifica si è focalizzata parzialmente sull’aspetto dell’inefficacia o della dannosità della terapia. I risultati positivi dell’esito delle terapie hanno spesso offuscato quelli negativi, che, seppur meno rilevanti, sono comunque presenti. Questo atteggiamento, più attento a confermare l’efficacia delle terapie che a comprenderne i limiti, ha lasciato una zona d’ombra su un aspetto che è in realtà molto più significativo di quanto si pensi. In una recente ricerca Boisvert e Faust (2002) sostengono che mediamente i pazienti in terapia vanno incontro nel 3-10% dei casi a peggioramento con ricadute gravi e irrimediabili per il paziente stesso.

Quindi non solo le psicoterapie possono essere inefficaci, ma talvolta possono far peggiorare e danneggiare un paziente. Questo fenomeno meriterebbe una certa attenzione, sia trovando maggiore spazio nella letteratura specialistica sia stimolando nuove ricerche empiriche.

Un articolo particolarmente pregevole è quello scritto da Barlow nel 2010. L’autore presenta una revisione della letteratura degli ultimi 40 anni in merito agli effetti negativi dovuti a trattamento psicologico e all’atteggiamento dei ricercatori rispetto a questo fenomeno. L’attenzione dell’autore è posta sul problema della pericolosità e del rischio iatrogeno insito in alcuni processi terapeutici o nelle tecniche usate in questi processi.

In primo luogo l’autore si sofferma sul problema inerente la chiarezza concettuale: la difficoltà di definire una terapia negativa. Per un clinico di un modello terapeutico, infatti, potrebbe essere negativo un effetto non considerato tale da un clinico di un altro modello. Questo problema riguarda sia gli obiettivi terapeutici, sia la tecnica specifica sia il modello teorico a cui il clinico appartiene. Per definire in generale cosa sia considerato un effetto terapeutico negativo, Barlow parte dalla definizione del problema proposta negli anni ’60 da Bergin.

L’autore coniò il termine deterioration con cui si designava il processo di “scadimento” psicologico nel paziente a seguito di una terapia. Egli partì dalla posizione provocatoria di Eysenck, che nel 1952 aveva sostenuto la generale inefficacia della terapia. Bergin dimostrò la presenza del fenomeno dopo un’ampia revisione meta-analitica di alcuni dei risultati terapeutici ed evidenziò il fenomeno in un campione clinico in psicoterapia rispetto ad uno di controllo, in una valutazione pre e post-trattamento (Fig.1).

Figura 1 - Bergin: Deterioration

Fig.1: L’effetto del Fenomeno di Deterioramento in due campioni (M1: campione di controllo; M2: campione clinico) nella fase pre e post trattamento in una valutazione di outcome terapeutico (Barlow, 2010 p.15).

Secondo Barlow, negli ultimi anni, si è assistito a un rinnovato interesse rispetto allo studio del problema, determinato da alcuni cambiamenti concettuali e metodologici nel campo della psicologia:

  • Alcuni autori hanno effettuato delle attente disamine del problema;
  • La possibilità di impiegare nelle ricerche metodi più sofisticati sia quantitativi che qualitativi;
  • Una maggiore attenzione dei clinici stessi al problema;
  • Un maggior dialogo tra i diversi orientamenti teorici;
  • Una più chiara definizione delle procedure terapeutiche da utilizzare rispetto alla specifica psicopatologia del paziente;
  • Infine una politica pubblica attenta ad investire nelle ricerche sulle terapie di dimostrata efficacia, con la creazione di vere e proprie linee guida di trattamento (mettendo quindi in luce, per converso, anche ciò che non funziona).

Uno dei risultati più rilevanti è pervenuto dalla ricerca di Lilienfeld (2007), che analizzando alcuni studi RCT (Randomized Controlled Trial: questo disegno di ricerca è considerato in medicina ed in psicologia in grado di produrre evidenze piuttosto robuste), identifica una lista di trattamenti potenzialmente dannosi (potentially harmful therapies) che sembrano causare danni su certi pazienti. Tra questi possiamo menzionare, ad esempio, il Rebirthing e la Recovered-memory techniques. Questo tipo di studi, con le dovute cautele, può essere importante per informare sia i clinici in formazione sia il grande pubblico rispetto alle psicoterapie che alcuni autori hanno definito “folli” (Singer & Lalich, 1996).

Le ricerche quindi, non solo, hanno confermato la possibilità generale di effetti dannosi nel caso di terapie mal condotte ma soprattutto la presenza di un possibile rischio iatrogeno rispetto a specifiche categorie di pazienti e nell’accoppiata terapia specifica – paziente specifico. I dati, però, in questo senso non sono però ancora abbastanza convincenti.

Un’altra domanda importante concerne il fatto di come sia possibile, consapevoli dell’incidenza di negatività terapeutica, ridurre il rischio di manifestazione del fenomeno. Barlow propone di intervenire precocemente, cercando di cogliere le micro-modificazioni durante il processo di cambiamento per individuare prematuramente il fenomeno di deterioramento e le eventuali cause scatenanti, anche tramite la somministrazione in terapia di questionari auto valutativi del paziente.

Non vi è però ancora chiarezza su quali siano, come si manifestino e come agiscano questi fattori precoci di cambiamento negativo. L’individuazione di questi indici precoci potrebbe giovarsi di ricerche empiriche che poggino su studi approfonditi su singoli soggetti (single-case). Questo tipo di disegno intensivo e non estensivo, secondo l’autore non è importante solo nello studio degli esiti positivi, ma anche per osservare più chiaramente l’emergere di effetti negativi.

Nonostante la proposta di classificazione di indici precoci di deterioramento nel paziente presentata da Barlow sia fondamentale nello studio del fenomeno non è, però, sufficiente ad evitare il rischio iatrogeno insito nelle terapie.

Una prospettiva utile sarebbe quella di indagare empiricamente anche la natura e l’azione degli “errori” del terapeuta che sono associati agli esiti negativi. Ovviamente quando si cerca di comprendere cosa non funziona e perché le ricerche incontrano tutta una serie di reticenze e difficoltà. In merito al tentativo di chiarificazione concettuale e all’identificazione precoce dell’errore in psicoterapia, presso l’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, stiamo portando avanti un progetto di ricerca per l’identificazione di una tassonomia di errori psicoterapeutici.

Lo scopo è identificare una serie di “errori” per poter avere una mappa concettuale che contenga una tassonomia degli errori, i fattori che predispongono all’errore, gli errori legati agli orientamenti teorici di psicoterapia o condivisi da tutti gli orientamenti. La tecnica utilizzata è il CQR di Hill, una metodologia di ricerca qualitativa, basata sull’analisi di trascritti di interviste semistrutturate somministrate ad esperti.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Barlow, D.H. (2010). Negative Effects From Psychological Treatments. A Perspective. American Psychologist, Vol. 65, No. 1, 13–20.
  • Boisvert, C.M. & Faust, D. ( 2002). Iatrogenic symptoms in psychotherapy: A theoretical exploration of the potential impact of labels, language, and belief systems. American Journal of Psychotherapy; 56, 2.
  • Lilienfeld, S. O. (2007). Psychological treatments that cause harm. Perspectives on Psychological Science, 2, 53–70.
  • Singer, M., & Lalich, J. (1996). Crazy therapies: What are they? How do they work? San Francisco: Jossey-Bass. (Tr. It: Psicoterapie folli”, Edizioni Erickson, Trento, 1998).

Psicologia di Guerre Stellari: Una diagnosi per Darth Vader

Darth Vader - Disturbo di identità - Autore: Costanza Prinetti

Il cinema e la letteratura rappresentano da sempre un’importante risorsa per noi psicoterapeuti. Anche per i professionisti del campo non è sempre facile collegare il mondo della scienza a quello dell’esperienza personale, in modo chiaro e convincente. I personaggi di film e libri ci vengono in soccorso per capire e far capire il significato concreto e tangibile di un disturbo psicologico e delle sue implicazioni.

Molti lettori conosceranno la saga fantascientifica di Star Wars (Guerre Stellari), un indiscutibile successo commerciale iniziato oltre venti anni fa e recentemente rilanciato da una nuova trilogia. Il protagonista di tutti i capitoli della saga è Anakin Skywalker, dapprima cavaliere Jedi protettore della Repubblica e poi principale alleato dell’impero nelle vesti del cattivo Darth Vader.

Alcuni ricercatori hanno suggerito che il successo della saga, soprattutto tra gli adolescenti, non sia semplicemente dovuto all’epicità della trama o alla qualità della regia, bensì al processo di identificazione che i suoi protagonisti, Anakin su tutti, riescono a produrre nell’osservatore (Buy et al., 2011).

Psicologia di Guerre Stellari 2: Mindful Yoda - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
Articolo consigliato: Psicologia di Guerre Stellari 2: Mindful Yoda

In particolare, Anakin/Darth Vader è il cattivo di cui un ragazzo si innamora, non il cattivo che si desidera ardentemente vedere morto. Questo forse perché Darth Vader non è un semplice cattivo, ma un personaggio afflitto da Disturbo Borderline di Personalità, un personaggio sofferente. In effetti, i criteri diagnostici ci sono tutti o quasi, basta fare il confronto con il manuale diagnostico internazionale di riferimento (il DSM-IV-TR). Anakin è certamente impulsivo e mostra in diverse occasioni una certa difficoltà nel controllare la sua rabbia. I suoi rapporti con le persone significative, come il suo maestro Jedi, sono caratterizzati da una continua alternanza tra idealizzazione e svalutazione. L’intensa paura di essere abbandonato o di perdere altre persone care, prima fra tutte la moglie, governano il suo comportamento e lo spingono a tradire tutti i suoi compagni. Non mancano poi le esperienze dissociative, almeno due. La prima dopo la morte della madre, durante il quale stermina un’intera tribù Tuskan. Il secondo nel momento in cui si volge al lato oscuro della Forza e massacra tutti i giovani allievi Jedi. Infine, Bui e colleghi sottolineano come la trasformazione in Darth Vader e il cambio di identità possa essere facilmente interpretato come sintomo di un disturbo d’identità, altro criterio del DBP.

Cosa c’entra questo con il processo di identificazione? Sappiamo che l’adolescenza è di per sé un periodo di cambiamenti in cui l’essere umano inizia a confrontarsi da solo con il mondo esterno. Il viaggio nell’adolescenza ha lo scopo di crescere l’adulto che verrà, la costruzione di un identità, la capacità di regolare le proprie emozioni così come di mediare nelle relazioni intime con l’altro. Per questa ragione molte caratteristiche del Disturbo Borderline di Personalità si riscontrano con frequenza nel comune adolescente. E per questa ragione il comune adolescente può sentire più vicini i vissuti emotivi di un personaggio contrastato e irrequieto come Anakin Skywalker. Un personaggio, ricordiamo per dovere di cronaca, che é riuscito a trovare alla fine l’equilibrio tra le forze che lo dominavano.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bui et al., (2011). Is Anakin Skywalker suffering from borderline personality disorder? Psychiatry Research 185(29), 299.
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