Mentalizzazione: una lente per leggere comportamenti, emozioni, obiettivi e desideri
La mentalizzazione è una capacità posseduta esclusivamente dagli esseri umani, che permette e facilita l’attività sociale: saper interpretare i comportamenti altrui come frutto dei loro obiettivi, desideri ed emozioni ci permette di comprenderli e moderare la nostra risposta. Questa abilità, infatti, si è verosimilmente sviluppata nel corso dell’evoluzione per permettere alla nostra specie una maggiore capacità di cooperazione grazie alla comprensione dell’altro (Fonagy et al., 2015; Tomasello & Vaish, 2013). Il concetto di mentalizzazione è stato introdotto in psicologia da Peter Fonagy, psicanalista ungherese, che ha approfondito questo tema ponendo le sue basi nella teoria dell’attaccamento di John Bowlby. Secondo Fonagy, infatti, la mentalizzazione è un’abilità che si sviluppa nel corso della crescita, dove il rapporto tra caregiver primario e bambino riveste un’importanza cruciale. Il pianto di un bambino, ad esempio, permette al genitore capace di mentalizzazione di inferirne il motivo e soddisfare il suo bisogno primario.
Lo stesso autore ha anche sviluppato un trattamento, chiamato Mentalization-Based Therapy (MBT), che si propone di lavorare sulle capacità di mentalizzazione del paziente, le quali risultano spesso compromesse, specialmente nei disturbi di personalità. Migliorare la capacità di mentalizzare in questi pazienti risulta quindi fondamentale per poter lavorare all’interno di un percorso terapeutico.
Le capacità di mentalizzazione
La mentalizzazione è una funzione che può essere organizzata lungo quattro dimensioni (Luyten et al., 2020): mentalizzazione automatica e controllata, nei confronti di sé stessi o degli altri, basata su aspetti esterni o interni, emotiva o cognitiva. Una mentalizzazione efficace si verifica quando ci si muove, bilanciandosi a seconda delle richieste del contesto, tra i vari poli delle dimensioni (Luyten et al., 2024). In altri termini, avere delle buone capacità di mentalizzazione significa saper passare da una modalità automatica a una controllata, integrando fattori cognitivi ed emotivi, portando attenzione in modo bilanciato ai propri e altrui stati mentali con consapevolezza della loro variabilità e sapendo conoscere e integrare le caratteristiche esterne ed interne di sé e dell’altro come indicativi degli stati mentali. Al contrario, una mentalizzazione inefficace è caratterizzata da inflessibilità nel valutare gli stati interni propri o degli altri, basandosi su supposizioni automatiche, spesso distorte e ingenue (Bateman & Fonagy, 2019; Choi-Kain & Gunderson, 2008). Quando la mentalizzazione diventa deficitaria, mettiamo in atto strategie fallaci che permettono un certo grado di funzionamento della persona, lasciando però l’individuo con sensazioni di vuoto, frustrazione, ansia e incoerenza (Luyten et al., 2024), che lo portano ad esternalizzare aspetti non mentalizzati di sé nel tentativo di gestire la realtà sociale.
La mentalizzazione efficace è un’alleata in psicoterapia?
Luyten e collaboratori (2024) si propongono di portare una prima revisione della letteratura sul tema al fine di comprendere se e come la mentalizzazione possa giocare un ruolo nel decorso delle psicopatologie in terapia, con l’obiettivo di indagare se la mentalizzazione possa mediare il cambiamento in psicoterapia e moderare l’esito del trattamento. In altre parole, i ricercatori si domandano se la suddetta capacità possa spiegare la relazione di causalità tra la terapia e l’attenuazione dei sintomi e se vada a condizionare il risultato del trattamento. La presente revisione sistematica prende in analisi i risultati di 33 studi le cui domande di ricerca interessano i seguenti temi: la mentalizzazione pre-trattamento ha una relazione di causalità con l’esito della terapia? I cambiamenti dei livelli di mentalizzazione durante il trattamento incidono sull’esito dello stesso? L’aderenza al trattamento MBT ha un effetto sull’esito del percorso? Rafforzare la capacità di mentalizzazione in seduta può avere un impatto sulla terapia attraverso il miglioramento dell’alleanza terapeutica, del funzionamento interpersonale o dell’attenuazione dei sintomi?
Rispetto invece al disegno di ricerca, modalità di trattamento, strumenti e disturbi interessati non sono stati applicati particolari criteri di esclusione; pertanto, gli studi presentano una discreta eterogeneità.
La mentalizzazione favorisce la guarigione
Gli studi da cui i ricercatori hanno attinto spaziano tra condizioni diagnostiche molto varie, dai disturbi di personalità, alla depressione, ai disturbi alimentari. Tutti i soggetti sono stati sottoposti a un intervento psicologico, con l’aggiunta, in alcuni casi, di una componente psicoterapeutica.
Gli studi sono stati raggruppati in diverse categorie, ognuna con un focus specifico, da cui è emerso che condizioni di mentalizzazione pre-terapia, cambiamenti nelle abilità di mentalizzazione e uso del modello MBT nel corso della terapia predicono, nella maggior parte dei casi, dei cambiamenti positivi negli esiti della terapia psicologica.
Si può dunque affermare che una buona capacità di mentalizzazione posseduta prima dell’inizio della terapia risulta essere un buon predittore dell’efficacia della terapia. Tuttavia, i risultati sono ancora generali e lasciano aperti gli orizzonti di ricerca per approfondire la capacità dell’applicazione della mentalizzazione di predire e migliorare l’esito di un percorso psicologico.
È opportuno non limitarsi alle conclusioni di questa ricerca: l’eterogeneità degli studi e il loro numero così ampio apre infatti le porte per maggiori approfondimenti, volti a chiarire se miglioramenti nella mentalizzazione richiedano un focus su stati mentali specifici, o se questi cambiamenti siano un risultato di interventi psicologici senza un focus sugli stati mentali.
In conclusione, i risultati suggeriscono che la mentalizzazioneè un concetto multidimensionale e che i relativi cambiamenti terapeutici possono essere correlati ad alcune dimensioni più di altre, mentre altri, che cambiamenti nella mentalizzazione non sono strettamente necessari ai fini di cambiamenti nella terapia. I ricercatori hanno lasciato campo aperto, con alcuni suggerimenti, per future ricerche e approfondimenti del tema.