La validazione in psicoterapia
La “raison d’être” della psicoterapia è costituita dall’accettazione del paziente così come egli è, all’interno di un contesto che tuttavia lo aiuti a cambiare (Linehan, 1997, p. 354).
Come teorizzato da molteplici approcci psicologici, elementi quali l’empatia, la vicinanza, il rispecchiamento emotivo, l’accettazione positiva incondizionata e la compassione sono fondamentali per il successo di un processo terapeutico diadico (Rogers, 1965; Gilbert, 2007; Greenberg, Safran, 1987; Safran, Muran, Samstag, Stevens, 2002). La Terapia Dialettico-Comportamentale (DBT), in particolare, ha evidenziato il ruolo centrale della validazione come strategia sia di accettazione sia di cambiamento (Linehan, 1997).
La validazione, infatti, comunica a una persona che i suoi stati d’animo, i suoi pensieri e le sue azioni hanno senso (Rathus, Miller, 2016) e che si possono comprendere all’interno di una specifica situazione e di un contesto di vita quotidiana. Essa si riferisce all’abilità di legittimare l’autenticità di uno stato d’animo (“Molti si sentirebbero come te in questa situazione”), senza sminuire, negare o banalizzare quanto esperito; dimostra al paziente di accogliere e comprendere il suo punto di vista, nonostante non lo si condivida (“Capisco quanto trascorrere più tempo con gli amici ti dia gioia, ma penso che sia controproducente per te fare tardi la sera, in questo periodo in cui hai difficoltà a scuola”); invita la persona a esprimere e riconoscere le sue emozioni, fornendole un setting protetto e rispettoso in cui cercare credenze e significati sottesi a tali emozioni (“Sembra che tu sia delusa perché pensi che nessuno ti capirà mai e non riuscirai a risolvere i tuoi problemi”).
La validazione comporta il riconoscimento di quanto è valido e possiede valore per l’altro in terapia, non crea significati “ex novo” in base alla prospettiva del terapeuta, ma mette in risalto emozioni, credenze di base e interpretazioni di vissuti personali, preesistenti rispetto all’azione terapeutica, in quanto portati nel setting dal paziente stesso (Linehan, 1997). Alla luce di tali considerazioni, comportamenti problema, cognizioni disfunzionali e sintomi psicopatologici acquistano senso, poiché inseriti nella cornice delle relazioni storiche e dei contesti di vita della persona.
Storie di attaccamenti insicuri e invalidazioni
La capacità di validare appartiene non solo alla relazione terapeutica, ma a ogni tipo di relazione umana, inclusa quella con se stessi: validare gli altri significa sviluppare in loro la percezione di essere accettati e rispettati, la stessa che offriamo a noi quando ci validiamo. È cruciale, pertanto, imparare a validare e validarsi.
Si tratta di processi che traggono origine sin dalle prime interazioni tra bambino e adulto accudente, e dagli stili di attaccamento su di esse fondati: sicuro, insicuro evitante, insicuro ambivalente e disorganizzato (Ainsworth, Blehar, Waters, Wall, 1978; Urban, Carlson, Egeland, Sroufe, 1991). Secondo alcuni autori, la qualità del legame di attaccamento infantile costituirebbe un buon predittore delle competenze sociali dell’individuo in tarda adolescenza e in età adulta (Cassidy, 1995; Main, Kaplan, Cassidy, 1985).
In questa prospettiva, la capacità del genitore di validare bisogni e stati emotivi del bambino, assicurando presenza, conforto e disponibilità, faciliterebbe la formazione di schemi di relazione positivi ed empatici. Al contrario, comportamenti genitoriali di invalidazione verbale e non verbale (alzare gli occhi al cielo, sbuffare, sguardo e prossemica giudicanti) sarebbero associati allo sviluppo di schemi disfunzionali precoci (Guidano, Liotti, 1983; Smucker, Dancu, 1999).
Un bambino a cui, nei momenti di sofferenza e distress, vengono offerte rassicurazioni (“Passerà presto, ci sono qui io”), spiegazioni dei suoi stati emotivi (“Ti sei spaventato perché il tuono era molto forte”) e occasioni per condividerli (“Mi vuoi raccontare cosa ti è successo?”), sarà in grado di internalizzare la capacità del genitore di individuare emozioni perturbanti, comprenderle e lenirle, diventando a sua volta un adulto validante.
All’opposto, un bambino esposto ad atteggiamenti genitoriali sistematici di negazione (“Piangi, tanto non ti sto a sentire”), sanzione (“Se continui a frignare, ti chiudo da solo in stanza”) o eccessiva semplificazione o giudizio (“Sei una cattiva bambina, te lo sei meritata!”) dei suoi stati emotivi negativi, difficilmente apprenderà a riconoscerli e regolarli in se stesso e negli altri, divenendo a sua volta un adulto invalidante e auto-invalidante (Eisenberg, Fabes, 1994; Leahy, 2005).
Gli stili di attaccamento sono evidenti nel corso della terapia e si caratterizzano per l’adozione di strategie disfunzionali di validazione. Nel pattern ansioso si osservano comportamenti “adesivi” e bisogno di costante rassicurazione, indici della preoccupazione di non ricevere la validazione sperata dal terapeuta. Una credenza tipica di questi pazienti riguardo la validazione potrebbe essere: “Per capire come mi sento, devi provare esattamente ciò che provo io” (Leahy, Tirch, Napolitano, 2018, p. 69).
Lo stile evitante si manifesta con comportamenti di diffidenza, distacco emotivo ed evitamento dell’apertura emotiva nel setting. Nei pazienti con attaccamento disorganizzato si possono riscontrare modalità esasperate di ricerca di validazione, come escalation di lamentele, urla, esternazioni eccessive, o ritiro (ibidem). Si tratta di modalità derivanti dalla convinzione profonda che i loro bisogni emotivi resteranno incompresi e inascoltati.
Validazione e disregolazione emotiva
Diversi studi hanno evidenziato come ambienti invalidanti favoriscano l’insorgenza di depressione, abuso di sostanze, disturbo borderline di personalità e di un meccanismo ad essi trasversale, la disregolazione emotiva (Leahy, Napolitano, 2005, 2006; Linehan, 1993). Nella disregolazione emotiva, l’incapacità dell’individuo di elaborare efficacemente le emozioni si traduce in una loro eccessiva intensificazione o disattivazione, con una conseguente percezione soggettiva di perdita di controllo (Leahy, Tirch, Napolitano, 2018, p. 11). L’eccessiva intensificazione è caratteristica di emozioni estreme quali panico, terrore, trauma, orrore o un senso di incombente sopraffazione e che vengono difficilmente tollerate (ibidem); la disattivazione emozionale, invece, è un fenomeno tipico delle esperienze dissociative e del sintomo di appiattimento dell’affettività, elicitato in risposta a stimoli emotivamente attivanti.
Alla luce di queste considerazioni, emerge come la mancanza di validazione sia un fattore coinvolto nell’eziopatogenesi di molti disturbi psichici.
Credenze disfunzionali sulla validazione ed effetti in psicoterapia
Molte persone affette da disregolazione emotiva riferiscono di sentirsi invalidate sia nella vita quotidiana che nel setting terapeutico.
Secondo Leahy (2001), l’adozione di particolari credenze in merito alla validazione e di strategie maladattive per conseguirla, sarebbe alla base di risposte di non aderenza e di resistenza terapeutica da parte del paziente. Analizziamo alcuni casi specifici.
- Convinzioni sulla validazione: taluni individui si mostrano resistenti ai tentativi di validazione del terapeuta, in quanto pervasi dalla convinzione che, per essere realmente capiti, questi debba fornire loro appoggio incondizionato e vivere i loro medesimi sentimenti.
- Reazioni problematiche all’invalidazione: Alcuni pazienti appaiono talmente sensibili alla percezione che il terapeuta consideri inutili o nevrotiche le loro emozioni che anche affrontando l’argomento possono sentirsi “invalidati”: “Sta dicendo che sono troppo sensibile, ma non è vero. E questo mi fa stare proprio male!” (Leahy, Tirch, Napolitano, 2018, p. 72).
- Strategie problematiche di ricerca della validazione: alcuni pazienti adottano strategie problematiche e controproducenti per ricercare la validazione nel momento in cui si percepiscono invalidati. Tra queste si osservano: ruminazione (ripetizione vorticosa di pensieri ed emozioni negative, nella speranza di ricevere validazione), catastrofizzazione (esasperazione delle proprie difficoltà, affinché l’altro “colga il messaggio” e capisca “quanto si sta male”, ibidem) e manipolazioni per suscitare simili emozioni nel terapeuta (“Se stesse così anche lei, allora capirebbe come sto io”).
- Auto-invalidazione: alcuni individui si auto-invalidano e non si riconoscono il diritto di vivere le proprie emozioni. Le reputano inutili, incomprensibili agli occhi degli altri e irrisolvibili: un autentico segno di debolezza. Per questo in terapia appaiono resistenti ad esprimere e processare i loro ricordi, scelgono la Terapia Cognitivo Comportamentale ritenendo erroneamente che non li esponga all’elaborazione di vissuti intimi, si scusano per la propria emotività (“Starà pensando che sono uno sciocco infantile”), sviluppano somatizzazioni o sintomi dissociativi.
I problemi di validazione e di disregolazione emotiva spesso intaccano la vita sociale delle persone, rendendole lamentose, esigenti, pretenziose, punitive e incapaci di esprimere riconoscenza o gratitudine per il sostegno a loro fornito. La difficoltà nel validarsi e nel validare gli altri produce, a sua volta, invalidazione e solitudine. I pazienti possono cercare di reagire mettendo in campo le uniche strategie che conoscono per guadagnarsi le attenzioni degli altri: le strategie disadattive apprese nei contesti emotivamente disfunzionali in cui sono cresciute.
La psicoterapia può aiutare le persone a cambiare, pur restando in contatto con le proprie emozioni, percepite come risposte “normali” e legittime.