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L’ingresso al nido: vantaggi e possibili criticità

L’inserimento al nido può rivelarsi fonte di situazioni stressogene, ma apporta anche numerosi vantaggi allo sviluppo del bambino

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 13 Feb. 2024

L’ingresso al nido

Dopo lo svezzamento, l’ingresso al nido rappresenta l’evento separativo più rilevante che il bambino deve affrontare, oltretutto in un periodo della vita in cui la vicinanza all’oggetto materno è necessaria al mantenimento del benessere e dell’equilibrio psicofisico.

Ma al di là del disagio infantile, gestire funzionalmente gli aspetti dell’inserimento non è facile nemmeno per la madre che, abituata all’intensa reciprocità della diade, è portata a vivere con disagio ogni evento in grado di infrangere il legame esclusivo, per certi aspetti simbiotico, che la unisce al figlio. Sono queste le motivazioni che contribuiscono a gettare un’ombra di diffidenza sull’inserimento al nido, il cui valore evolutivo rischia spesso di venire offuscato da una genitorialità non ancora pronta all’evento separativo. 

I vantaggi dell’ingresso al nido

Per quanto comporti un’inevitabile recisione diadica, l’inserimento al nido è in realtà pensato per una separazione consapevole, graduale e non traumatica, da cui prende il via il processo di indipendenza dalla madre. 

Prima di tutto sotto un punto di vista emotivo. Grazie all’inserimento in una dimensione diversa dalla famiglia, ma ad essa così vicina per dinamiche e funzioni, il bambino apprende a tollerare un’angoscia di separazione che, da emozione aggressiva e incontenibile, diviene un’esperienza emotigena da interiorizzare e gestire adattivamente. Il tutto in linea con una gradualità personalizzata, un timing costruito sulla base delle sue esigenze e delle sue capacità assimilative. 

Il nido rappresenta un contesto alternativo e tuttavia piuttosto affine a quello familiare (Agosta, 2021; Crocetti, 2012), in cui l’intento separativo viene stemperato dalla compresenza di un’altrettanto marcata funzione accudente, volta a gratificare le esigenze di vicinanza e protezione ancora così forti nel bambino. Potremmo definire la distanza implicata nell’inserimento come una sorta di oggetto transizionale, uno spazio di scoperta del Sé  propedeutico ad un vero e proprio distacco, a sua volta latore di un processo di crescita in cui la separazione non è abbandono, ma un’esperienza di evoluzione e autoconferma. 

L’inserimento al nido, nello specifico: 

  • assolve funzioni di distacco psicosomatico, attraverso le quali è possibile rafforzare la consapevolezza del Sé corporeo, e con essa la capacità di integrare il vissuto emotivo all’interno della dimensione somatica (in poche parole, il bambino apprende ad associare l’insorgenza di determinate sensazioni corporee ad uno stato d’animo specifico, anche senza l’intervento mediatore della madre); 
  • fornisce le prime doti di competenza relazionale, utili alla costruzione del Sé sociale; 
  • favorisce una regolazione dell’arousal e della risposta agli stimoli ambientali, in una prospettiva di contenimento; 
  • potenzia lo sviluppo di capacità verbali e di lessico emotivo, amplia il vocabolario espressivo, potenzia la flessibilità di pensiero e la capacità di problem solving (Belsky et al., 2003); 
  • agevola la diversificazione dei legami oggettuali e di attaccamento, da cui un più agevole distacco dalla madre e una più sviluppata capacità di tollerare emozioni negative e frustrazioni; 
  • favorisce la regolazione emotiva, resa più autonoma grazie al contatto con esperienze esplorative non protette dall’ambiente familiare (Berk, 2013); 
  • sviluppa comportamenti collaborativi ed empatici, favorendo competenze di auto contenimento e la relativa inibizione di  vissuti egocentrici; 
  • sotto un punto di vista strettamente logistico, l’inserimento al nido si rivela un aiuto prezioso per tutti quei genitori che, a causa dei rispettivi impegni lavorativi, non possono accudire il bambino con continuità, e devono rivolgersi ad una struttura supportiva in grado di sostituirli in questo compito. Il ruolo custodiale del nido viene legittimato dall’art. 2 della legge 1044/77: “L’asilo nido assolve ad una funzione di custodia temporanea dei bambini, per assicurare una adeguata assistenza alla famiglia e anche per facilitare l’accesso della donna al lavoro nel quadro di un completo sistema di sicurezza sociale” (Art. 2).

L’altra faccia della medaglia: il nido come possibile fonte di stress

Malgrado i vantaggi sopra descritti, l’inserimento al nido può rivelarsi fonte di effetti stressogeni anche intensi, specificamente attribuibili alla modalità con cui viene affrontato il distacco diadico. 

La rivista Child Development”, nel quarto numero del 2003, ha a tal proposito indicato due studi riferiti da Langlois e Liben (2003), di cui il primo evidenzia una correlazione positiva tra l’inserimento al nido e l’insorgenza di disturbi comportamentali tra 4 e 6 anni (Belsky et al. 2003), e il secondo rileva un incremento della produzione di cortisolo, legato soprattutto allo svolgimento delle attività di gruppo pomeridiane e alla separazione dalla madre dopo l’ingresso mattutino (Watamara, Donzella, Alwin, Gunnar, 2003). 

Per quanto isolati e da approfondire, si tratta di studi indicativi della presenza di un  oggettivo effetto stressogeno che, in certi casi, può accompagnare l’inserimento al nido, rendendolo un evento critico da gestire con cautela. 

In particolare, in seguito ad un inserimento stressogeno, è possibile il verificarsi dei seguenti effetti. 

Nella madre:

  • una regressione a stati affettivi fusionali in cui l’allontanamento dal bambino viene giudicato pericoloso;
  • l’emergere di vissuti di colpevolizzazione, che contribuiscono a connotare l’inserimento di significati abbandonici (la madre si sente come se avesse abbandonato il bambino al nido);
  • invidia verso l’educatrice, vista come una rivale in grado di spodestarla dal suo ruolo.

Nel bambino:

  • disagio emotivo espresso attraverso disregolazione emotiva, comportamentale e psicosomatica (frequenti crisi di pianto, insonnia, problemi alimentari, enuresi notturna e disturbi del sonno, innalzamento delle soglie di allerta, stati di angoscia invasivi, spesso gestiti attraverso sintomatologia psicosomatica o spostamenti di carattere fobico) (Berk, 2013; Shaffer, Kipp, 2013); 
  • stati regressivi che comportano la perdita di autonomie consolidate, appannaggio di una dipendenza dall’oggetto materno che ostacola il processo evolutivo. 

L’inserimento al nido come esperienza soggettiva

In qualità di esperienza separativa il nido mette alla prova la capacità della diade di gestire le ansie collegate alla differenziazione e al distacco psicofisico. Un quantum di ansia successivo all’allontanamento dalla madre risulta fisiologico nella maggioranza dei bambini; ma se per alcuni si tratta di un fenomeno transitorio, per altri il distacco materno si trasforma in uno stimolo ansiogeno strutturato, che rende la permanenza all’asilo un vissuto traumatico intollerabile. 

La capacità di affrontare la separazione materna non è garantita né standardizzabile. Ognuno ha una storia a sé. La stessa Anna Freud (1965) propende per la costruzione di un modello evolutivo soggettivizzato, discriminato dalle caratteristiche individuali e dalla capacità di assumere un’adeguata consapevolezza della realtà- a sua volta determinato dal livello di maturità delle risorse egoiche, considerate imprescindibili per la gestione adattiva della separazione: se i giusti livelli di gestione egoica sono stati raggiunti, l’evento dell’inserimento all’asilo si mostrerà proficuo per il bambino; in caso contrario…..il piccolo si sentirà sopraffatto, letteralmente abbandonato ad una serie di angosce aggressive e persecutorie, in grado di destabilizzarne l’equilibrio interno e relazionale” (Freud, ibid., p. 76). 

All’intuito genitoriale il compito di riconoscere il raggiungimento di tale competenza, nella consapevolezza che una separazione dalla figura materna, anche temporanea, non si rivelerà traumatica soltanto ove risulti raggiunta la fase della costanza dell’oggetto (Spitz, 1958), che comporta l’interiorizzazione di una traccia mnestico-affettiva della madre, rievocabile anche durante i periodi di distacco. 

In questo caso la separazione dalla madre sarà considerata meno sconvolgente, e il bambino sarà disposto ad unirsi a nuove persone, accettando nuove esperienze e nuovi rischi” (Freud, 1965, p. 78). Soprattutto apprenderà a tollerare la solitudine e a neutralizzarne i fattori potenzialmente distruttivi, perché sarà in grado di diversificare i propri legami affettivi, dirigendo la libido verso oggetti relazionali alternativi dalla madre (ad esempio i compagni o le educatrici). 

Per quanto riguarda la capacità del bambino di comportarsi adeguatamente all’interno della scuola materna, questo dipenderà dal grado di maturazione delle relazioni tra il suo Es e il suo Io ( Freud, A. 1965, p. 79), e dunque nella capacità del processo primario di accettare un ruolo periferico, procrastinante e persino abdicativo, in favore di un inserimento nel gruppo che precorre alla gestione del Sé sociale, forte della presenza di un oggetto materno interiorizzato non solo come presenza fisica, ma come parte securizzante del Sé. 

Non è una capacità che tutti raggiungono con le medesime tempistiche e finalità. È necessario ribadirlo. Ogni bambino è un universo a parte, e la sua condizione evolutiva richiede un approccio individualizzante che ne valorizzi l’unicità a dispetto di ogni tentazione generalizzante

Le regole dell’inserimento al nido

L’inserimento al nido è un’esperienza cui approcciarsi con estrema cautela, nel rispetto dei singoli tempi evolutivi e di una serie di imprescindibili cautele: 

  • sicurezza del contesto operativo: è necessario scegliere con attenzione la struttura educativa, optando per quelle in grado di fornire servizi all’altezza delle esigenze materiali ed affettive del bambino, in ogni caso prioritarie;
  • gestire le tempistiche di separazione: è preferibile favorire un inserimento graduale, in cui il distacco dalla figura materna venga somministrato a piccole dosi, in una sorta di abituazione che limiti gli stati ansiogeni e favorisca l’assimilazione. Magari si può optare, almeno all’inizio, per una compresenza tra la figura della madre e quella dell’educatrice, in modo da favorire il distacco dalla prima e la familiarizzazione con la seconda. Può essere utile anticipare la separazione già nell’ambiente familiare, strutturando la presenza di microcontesti simulativi del distacco e un timing crescente dei periodi di separazione;
  • rete relazionale casa-famiglia: superato il trauma iniziale, è raccomandabile il mantenimento di uno stretto rapporto collaborativo tra asilo nido e nucleo familiare, in modo da garantire un modello di assistenza coerente. Uno stretto legame con la famiglia consente inoltre la possibilità di identificare precocemente eventuali criticità legate all’inserimento, al fine di una gestione più tempestiva e proficua delle stesse;
  • no all’inserimento “a tutti i costi”: se il bambino manifesta crisi ingestibili o eccessivi turbamenti è opportuno avvertire la famiglia per chiederne l’intervento; è preferibile non forzare un distacco precoce o emotivamente non sostenibile, al fine di non debilitare la presenza di risorse egoiche ancora fragili o non adeguatamente maturate; il rischio potrebbe essere quello di creare un’esperienza separativa destabilizzante e potenzialmente traumatica, con effetti anche sul lungo termine: “Nessuno sforzo, da parte di insegnanti e genitori, potrà evitare al bambino forte disagio, difficoltà ed un senso di insuccesso che spesso assumeranno dimensioni drammatiche” (Freud, 1965, p. 76). Inoltre, un ripetuto tentativo regolatore da parte delle educatrici potrebbe provocare il consolidarsi di un’associazione stressogena alla loro presenza, ostacolando la costruzione di un rapporto affettivo e rassicurante con le stesse;
  • attenzione al momento d’ingresso. Per quanto riguarda le tempistiche di inserimento è necessaria una precisazione: un ingresso al di sotto degli 8 mesi può essere reso meno traumatico dal fatto che, in questo preciso stadio evolutivo, la paura dell’estraneo non si è ancora sviluppata e con essa il legame di attaccamento esclusivo alla madre; al contempo, una separazione precedente a questa fase viene giudicata precoce, e per questo non fronteggiabile da parte del bambino, le cui esigenze di prossimità fisica all’oggetto materno risultano intense almeno per i primi 12 mesi di vita (Spitz, 1958; Berk, 2013). È ancora una volta opportuna una valutazione soggettiva, effettuata in base alle risorse psicofisiche ed emotive del piccolo; ma in ogni caso, ove l’inserimento al di sotto degli 8 mesi fosse inevitabile, sarebbe preferibile scegliere una struttura pseudoriproduttiva dell’ambiente materno, come ad esempio un micronido o un nido familiare, le cui dimensioni contenute favoriscono la costruzione di relazioni affettive coese e partecipate, in grado di trasmettere la sicurezza necessaria in questa particolare fase evolutiva.
  • gestione dello stress: affinché i vissuti emotivi, anche quelli più critici, vengano regolati con stabilità e non introiettati come fonte di angoscia destrutturante, è importante potenziare nel bambino una buona capacità di gestione dello stress, la c.d. coping efficacy (Esisenberg, 1997), con l’impiego di interventi di autogestione rivolti in tre direzioni fondamentali: 1) conoscere e regolare lo stress attraverso il controllo delle risposte fisiologiche, incrementando il contatto e la prossimità fisica, esattamente come accadrebbe con una madre (magari l’educatrice può abbracciare il bambino rassicurandolo sulla situazione stressogena che sta vivendo e cercando di normalizzarne l’intensità); 2) conoscere e regolare i comportamenti associati all’emozione, favorendo una verbalizzazione del vissuto emotivo in una prospettiva di sharing esplorativo (ad esempio si può chiedere al bambino che cosa sta provando, spronarlo a costruire un adeguato vocabolario emotivo e aiutarlo a comprendere la ragione del proprio disagio); 3) diminuire l’intensità e la frequenza di quei fattori che possono favorire la risposta stressogena: ad esempio riducendo la conflittualità e la competizione all’interno dei giochi di gruppo al momento dell’ingresso mattutino, mediante l’impiego di strategie comportamentali che prevedano la presentazione graduale dello stimolo temuto e la somministrazione di rinforzi al superamento dello stesso;
  • competenza degli operatori: il ruolo di educatore di scuola d’infanzia prevede l’impiego di conoscenze che, per funzioni e finalità, sono affini a quelle genitoriali (in termini di regolazione, accudimento, empatia, premura e vigilanza). Da qui l’esigenza di una preparazione completa, e per questo all’altezza delle molteplici e non trascurabili esigenze del target (Bosi, 2013). Il tutto in linea con un ruolo educativo che, in questa più che in qualsiasi altra istituzione scolastica, richiede la compresenza tra competenze didattiche e profondi contenuti motivazionali, al fine di consentire un processo di separazione definito e definitivo, grazie al quale l’esperienza dell’inserimento si veda riconoscere il significato evolutivo che le è proprio.
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Agosta, R., Mancini, G., Naldi, A. (2021), Insegnare nella scuola primaria e dell’infanzia, un approccio psicodinamico, Il mulino, Bologna;
  • Berk, L. (2013), Child Development, IX ed., Boston, MA, Allyn e Bacon;
  • Belsky, J., Burchinal, M., McCartney, K., et al. (2003), Are There Long-Term Effects of Early Child Care?in Child Development, 78 (2), pp. 681-701;
  • Berti, A.E., Bombi, A.S. (2005), Corso di psicologia dello sviluppo, Carocci, Bologna;
  • Bosi, R. (2013) Pedagogia al nido. Sentimenti e relazioni. Carocci, Faber Roma;
  • Crocetti, G. (2012)   I bambini vogliono la coppia. Per una genitorialità responsabile,  Elledici, Roma;
  • Eisenberg N, Fabes, RA, Guthrie, IK (1997). Coping with stress: The roles of regulation and development. Wolchik, SA & Sandler, IN (Eds), (1997). Handbook of children’s coping: Linking theory and intervention.Issues in clinical child psychology., (pp. 41-70). New York, NY, US: Plenum Press, xv, 549 pp.
  • Freud, A. (1965), Normalità e patologia del bambino. Valutazione dello sviluppo, Feltrinelli, Milano;
  • Langlois, J.H., Liben, L. (2003), Child care research: an editorial perspective, in Child Development, 74, pp. 969-975;
  • Shaffer, D.R., Kipp, K. (2013) Psicologia dello sviluppo: infanzia e adolescenza, Piccin, Padova.
  • Spitz, R. ( 1958) Il primo anno di vita del bambino, Giunti, Firenze;
  • Watamura, S. E., Donzella, B. Alwin, J., Gunnar, M.R. (2003), Morning-to-afternoon increases in cortisol concentrations for infants and toddlers at child care: age differences and behavioral correlates, In Child Development, 74 (4), 1006-1020.

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