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Neuropsicologia del Disturbo Dissociativo dell’Identità

Per attribuire credibilità a un argomento controverso come il Disturbo Dissociativo dell'Identità, le neuroscienze potrebbero rivelarsi risolutive

Di Simona Vitale

Pubblicato il 09 Set. 2022

L’articolo affronta il tema della neuropsicologia del Disturbo Dissociativo dell’Identità (DID) e di come lo studio delle basi neurobiologiche del DID potrebbe eliminare ogni scetticismo su di esso.

 

Il Disturbo Dissociativo di Identità

La diagnosi del Disturbo Dissociativo dell’Identità (DID, Dissociative Identity Disorder) ha provocato non poco dibattito all’interno del panorama psichiatrico, presentandosi fin da subito come un disturbo tanto affascinante quanto controverso. Ad oggi, il Disturbo Dissociativo dell’Identità viene definito dalla maggior parte degli autori come l’esito dei processi dissociativi, che operano affinché si crei una sconnessione o interruzione delle normali funzioni integrative dell’identità, della memoria, della coscienza e della percezione dell’ambiente circostante, per far fronte a eventi emotivi travolgenti, come violenze, abusi e maltrattamenti (Gabbard, 2014).

La dissociazione può, in un primo momento, essere di aiuto per sopravvivere a un trauma, ma diviene un ostacolo quando non si disattiva, esitando nella formazione di due o più identità distinte (Chefetz, 2015). Il Disturbo Dissociativo dell’Identità si manifesta quando una o più identità isolate operano in maniera indipendente, controllando il comportamento del soggetto e compromettendo la sua capacità di agire (Steinberg e Schnall, 2006). Queste identità, o parti del Sé isolate, possono avere caratteristiche differenti come età soggettiva, identità sessuale, malattie, allergie, tracciati dell’elettroencefalogramma, calligrafia, dipendenza da sostanze, conoscenza di lingue, etc (McWilliams, 2012). Tali differenze, che conferiscono ai soggetti con Disturbo Dissociativo dell’Identità un’impostazione bizzarra, hanno sollevato un velo di incredulità che, per molto tempo, ha sepolto il disturbo sotto uno strato di scetticismo e convinzioni errate. Rammentando inoltre che la nascita del Disturbo Dissociativo dell’Identità si allinea a un periodo storico in cui le credenze sui riti satanici pervadevano la società, non sorprende che le manifestazioni del disturbo siano state erroneamente associate a fenomeni quali la possessione demoniaca, la stregoneria o l’emulazione.

Sebbene il disturbo abbia guadagnato una sufficiente rispettabilità diagnostica da essere incluso già nel DSM III (APA, 1980) e successive edizioni, la leggenda del paziente con “personalità multiple” come una sorta di rarità bizzarra persiste tutt’oggi, alimentata dalle considerevoli dubbiosità sull’eziologia del disturbo (vedi ad esempio Lynn et al., 2019). Così, per attribuire credibilità a un argomento controverso come la dissociazione, o la “scissione in parti del sé”, la prospettiva delle neuroscienze potrebbe rivelarsi risolutiva.

Neurobiologia della dissociazione

Alcuni studi riportano che esperienze di abuso, maltrattamento, o trascuratezza minacciano il normale funzionamento delle aree cerebrali che elaborano le esperienze, come la corteccia prefrontale mediale, il cingolo anteriore e posteriore, la corteccia parietale o il talamo (Frewen e Lanius, 2017). In particolare, studi sul trauma hanno evidenziato che in soggetti traumatizzati la corteccia mediale prefrontale diventa incapace di inibire l’attivazione dei centri dell’amigdala: un sistema di allarme che rende difficile pensare o parlare quando si attiva (Schore e Schore, 2008). Ciò suggerisce che il cervello risente delle emozioni connesse al trauma e non riesce a disinnescare la convinzione di essere ancora in pericolo. Le funzioni logiche dell’emisfero sinistro non riescono a decifrare le preoccupazioni scaturite dal circuito emotivo dell’emisfero destro, arrivando a concludere che forse non è conveniente motivare tali turbamenti (Chefetz, 2015).

Il fenomeno dello split-brain è una convincente prova neurobiologica a sostegno del fatto che la mente è in grado di mantenere pensieri di cui il soggetto non conosce esplicitamente la provenienza. Ad una paziente sottoposta alla procedura di separazione tra i due emisferi, fu mostrato un video contenente scene di violenza: dato che le aree deputate al linguaggio erano disconnesse dalle aree aree deputate al processamento di informazioni visive, la paziente guardando il filmato sperimentava consciamente solo un fascio di luce. Tuttavia al termine della procedura riferì allo sperimentatore di provare una sensazione ben definita, terrore, e che non trovasse una giustificazione per motivare tale paura (Carter, 1999). Un altro paziente che aveva perso entrambi gli ippocampi si ritrovò con un prevedibile deficit della memoria a breve termine e l’incapacità di creare nuove memorie a lungo termine: dunque ciò che imparava rimaneva solo per poco all’interno della sua memoria. Quando gli fu riferito che la madre era molto malata, questa informazione lo destabilizzò solo per alcuni minuti, ma una volta dimenticata il paziente riferì di stare bene. Tuttavia dopo alcuni minuti affermò di voler chiamare la madre, non sapeva il perché ma voleva sapere come si sentisse. In questo caso, come nel precedente, il paziente è ignaro della fonte della sua preoccupazione e non riesce a definire esplicitamente il problema (Squire, Kandel 1999). Questi casi suggeriscono che un’esperienza non integrata possa provocare azioni e sensazioni senza che se ne comprendano le origini.

Le emozioni legate al trauma

Le emozioni soverchianti indotte dal trauma causano nel soggetto uno stato di iper-vigilanza, che provocherà un aumento del rilascio di dopamina e adrenalina, e un aumento dell’attività dei circuiti glutammatergici e aceticolinergici. L’eccitazione di questi neurotrasmettitori attiverà il rilascio di neurotrasmettitori inibitori (oppioidi e cannabinoidi endogeni) da parte del sistema dorso-vagale. Questo processo esiterà in una iperpolarizzazione del talamo, che provocherà a sua volta la disconnessione di aree corticali coinvolte nella trasmissione di informazioni sensoriali e nell’esperienza emotiva irruenta: un processo chiamato Disritmia Talamo Corticale (DTC; Llìnas e Ribary, 2001). La DTC sarebbe responsabile del fallimento nell’integrazione di comportamento, memoria, sensazione ed emozione, alla base dei sintomi del disturbo da stress post-traumatico e dei disturbi dissociativi (Lanius e Bergmann, 2014). L’interruzione della trasmissione delle informazioni sensoriali alla corteccia frontale, al giro del cingolo, all’amigdala e all’ippocampo causata dall’alterazione talamica, conferma l’idea che la dissociazione sia il risultato del fallimento delle capacità integrative di fronte alle esperienze traumatiche (Frau e Pilloni, 2017). Comunque, una piccola quantità di informazione sensoriale viene inviata alle aree corticali, mantenendo la memoria sensoriale frammentata: è proprio questa informazione che potrebbe associarsi all’attivazione di un determinato circuito emozionale, appartenente a uno stato del Sé legato al trauma. Infine, il deficit di elaborazione dell’informazione spiegherebbe la presenza di un’amnesia molto accentuata conseguente all’emergere di uno stato dissociato del sé nella memoria (Frau e Pilloni, 2017).

La compartimentazione sotto stress

Janina Fisher (2017) offre una base biologica per la comprensione del fenomeno della compartimentazione sotto stress. Secondo l’autrice la “linea di faglia” che permette la scissione corrisponde alla divisione tra i due emisferi: mentre il sinistro è deputato all’uso del linguaggio per descrivere esperienze, il destro è più “visivo”, ricorda in forma implicita ed episodica. Alcuni ricercatori (Gazzaniga, 2015) sostengono che, nonostante le emozioni siano esperite da entrambi gli emisferi, solo il sinistro può verbalizzarle, mentre il destro può agire in base ad esse: dunque senza lo scambio di informazioni tra i due emisferi, il sinistro potrebbe non ricordare le azioni o reazioni guidate dalle emozioni dell’emisfero destro. Questi studi sostengono l’ipotesi di una tendenza innata alla compartimentazione sotto stress. Ancora, Van der Hart, Nijenhuis, Steele e collaboratori (2004, 2006) sostengono come la compartimentazione dissociativa possa verificarsi in un altro insieme di linee di faglia, costituito dai “sistemi di azione” o motivazioni innate: nei bambini si possono osservare diversi tipi di sistemi di azione, ad esempio nella propensione innata a formare legami di attaccamento, oppure nelle difese animali istintuali come il grido di aiuto, l’attacco o la fuga. Per far fronte alle mutevoli richieste esterne e interne, possono essere necessari entrambi questi tipi di sistemi di azione o “parti della personalità”: adattarsi all’ambiente circostante, soprattutto se questo è avverso, è più semplice utilizzando un sistema di sè molteplici, piuttosto che un unico “sé” integrato. Nel Disturbo Dissociativo dell’Identità, le oscillazioni tra stati di coscienza sempre più autonomi ed elaborati, conferiscono al paziente la sensazione di essere “dirottato” da parti che agiscono all’infuori dalla consapevolezza del Sé che va avanti con la vita quotidiana. Si tratta di individui che lottano contro l’eredità del loro trauma, che sperimentano sintomi intrusivi e soverchianti e che hanno perso la capacità di funzionare, mentre combattono contro impulsi autodistruttivi che li portano a comportamenti suicidari o autolesionistici (Fisher, 2017).

Non riconoscere la frammentazione interna può essere estremamente dannoso per il paziente, in quanto concretizza la sua idea di essere “difettoso” e contribuisce a farlo sentire stigmatizzato o “ancora più matto”. Attraverso un paradigma esemplificativo che spieghi queste contraddizioni, invece di negarle, il paziente avrà modo di sapere che la dissociazione non è altro che un modo straordinario che la mente ha scovato per guarire le ferite di un passato traumatico.

 

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • American Psychiatric Association. (1980). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (3rd ed.). Washington, DC: American Psychiatric Association.
  • Carter, R. (1999). Mapping the mind. University of California Press.
  • Chefetz, R. A. (2015). Psicoterapia intensiva per processi dissociativi persistenti. La paura di sentirsi reali. Giovanni Fioriti.
  • Fisher, J. (2017). Guarire la frammentazione del sé. Come integrare le parti di sé dissociate dal trauma psicologico. Raffaello Cortina.
  • Frau, C., Pilloni, I. (2017). Neurobiologia della dissociazione traumatica. Elaborazione adattiva dell’informazione e l’importanza della terapia a fasi. In Psichiatria e Psicoterapia - No 3 Settembre 2017. Giovanni Fioriti Editore.
  • Frewen, P., Lanius, R. (2015). La cura del sé traumatizzato. Coscienza, neuroscienze, trattamento. Giovanni Fioriti Editore.
  • Gabbard, G. O. (2014). Psichiatria psicodinamica. Quinta edizione basata sul DSM-5. Raffaello Cortina.
  • Gazzaniga, M. S. (2015). Tales from Both Sides of the Brain: A Life of Neuroscience. Harper-Collins.
  • Lanius, U. F., Bergmann, U. (2014). Dissociation, EMDR, and adaptive information processing: the role of sensory stimulation and sensory awareness. In U.F. Lanius, L. S. Paulsen, F. M. Corrigan (a cura di) Neurobiology and Treatment of Traumatic Dissociation. Toward an embodied self, pp. 5-28. Springer Publishing Company.
  • Llinás, R., Ribary, U. (2001). Consciousness and the brain. The thalamocortical dialogue in health and disease. Annals of The New York Academy of Sciences 929, pp. 166-175.
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  • McWilliams, N. (2012). La diagnosi psicoanalitica. Astrolabio.
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  • Steinberg. M., Schnall, M. (2001). La dissociazione: i cinque sintomi fondamentali. Raffaello Cortina.
  • Van der Hart, O., Nijenhuis, E. R. S., Steele, K. (2006). Fantasmi nel sé. Trauma e trattamento della dissociazione strutturale. Raffaello Cortina.
  • Van der Hart, O., Nijenhuis, E. R. S., Steele, K., Brown, D. (2004). Trauma-related dissociation: Conceptual clarity lost and found. In Australian and New Zeland Journal of Psychiatry, 38, pp. 906-914.
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