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Disturbo da stress post-traumatico: una considerazione diagnostica differenziale per i sopravvissuti al COVID-19

Delineare i profili cognitivi dei sopravvissuti al Covid è complesso: l’eziologia della disfunzione cognitiva è infatti molto eterogenea in questi pazienti

Di Arianna Belloli

Pubblicato il 23 Set. 2021

La ricerca sull’impatto neuropsicologico del COVID-19 si colloca attualmente a uno stadio preliminare: dati recenti suggeriscono che SARS-CoV-2 può influenzare il sistema nervoso centrale (SNC) e il successivo funzionamento neuropsicologico per vie dirette e indirette.

 

Mentre le prime prove da studi di casi di COVID-19 suggeriscono che questi sopravvissuti possono presentare un’ampia gamma di deficit neurocognitivi (a carico di funzioni esecutive, memoria verbale e attenzione sostenuta), derivanti da gravi condizioni neurologiche legate alla malattia o al suo trattamento (tra cui ictus, lesioni cerebrali ipossiche, encefalopatie, encefalite e disseminazione acuta encefalomielite) (Ashrafi et al., 2020), è probabile che la capacità di discernere i deficit oggettivi da quelli soggettivi sia complicata da comorbidità psichiatriche.

In effetti, la ricerca sulle precedenti epidemie di coronavirus, tra cui la sindrome respiratoria acuta grave (SARS) e la sindrome respiratoria mediorientale (MERS), indica un’alta probabilità di sintomi e disturbi psichiatrici nei sopravvissuti a COVID-19, in particolare sintomi riconducibili a quelli del disturbo da stress post-traumatico (PTSD) (Lee et al., 2019).

La ricerca sull’impatto neuropsicologico del COVID-19 si colloca attualmente a uno stadio preliminare: una piena comprensione degli effetti collaterali a lungo termine della malattia e del suo trattamento potrebbe, dunque, richiedere ancora molti anni per essere catalogata. Gli studi sui precedenti coronavirus umani (HCoV) e un flusso costante di dati recenti suggeriscono che SARS-CoV-2 può influenzare il sistema nervoso centrale (SNC) e il successivo funzionamento neuropsicologico per vie dirette e indirette; SARS-CoV-2 sembra, dunque, essere sia neuroinvasivo che neurovirulento (Li et al., 2016). Un’attenta considerazione delle implicazioni neuropsicologiche associate a COVID-19 deve valutare anche l’impatto del trauma vissuto dai sopravvissuti; tuttavia, sono state riportate scarse informazioni in merito a potenziali esiti psichiatrici (Kaseda & Levine, 2020). Il disturbo da stress post traumatico è definito come lo sviluppo di sintomi legati all’intrusione, all’evitamento, alle alterazioni negative delle cognizioni e dell’umore, all’arousal e alla reattività, in seguito all’esposizione a un evento traumatico; anche tra coloro che non soddisfano i criteri diagnostici completi, è stata registrata compromissione funzionale (Shalev et al., 2017). Sulla base delle informazioni raccolte dai precedenti focolai di coronavirus umano, in particolare SARS e MERS, è possibile prevedere un’elevata incidenza di sintomi da PTSD nei sopravvissuti a COVID-19. Allo stesso modo, quasi il 26% dei sopravvissuti alla SARS ha soddisfatto i criteri diagnostici completi per il PTSD 30 mesi post-trattamento e tutti hanno identificato l’infezione da SARS come evento traumatico elicitante (Mak et al., 2010).

Delineare attualmente i profili cognitivi dei sopravvissuti al COVID-19 risulterebbe complesso, in quanto l’eziologia della disfunzione cognitiva è estremamente eterogenea in questa popolazione di pazienti. Sia i deficit neurocognitivi persistenti, che il declino della salute mentale sono stati osservati nei sopravvissuti alla sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS), due anni dopo la dimissione dall’ospedale (Hopkins et al., 2005), e il deterioramento cognitivo è stato associato a una peggiore qualità di vita correlata alle conseguenze della malattia (Rothenhäusler et al., 2001). Inoltre, il 79% dei pazienti con ARDS, trattati in terapia intensiva, ricorda vividi incubi e allucinazioni (Larson et al., 2007). Altre stime suggeriscono che tra un quarto e la metà di tutti i pazienti in terapia intensiva hanno una memoria limitata o nulla del loro trattamento (Kaseda & Levine, 2020).

La disfunzione del sonno è un altro fattore di complicazione all’interno della variegata costellazione di sintomi da PTSD. Lo scarso sonno, tipicamente caratterizzato da veglia, un’alta percentuale di tempo trascorso nel sonno superficiale e una percentuale relativamente bassa di tempo trascorso nel sonno REM, è un elemento frequentemente riscontrato nei sopravvissuti al trattamento in terapia intensiva (Weinhouse et al., 2009) e i problemi del sonno possono persistere anche dopo la dimissione (Dhooria et al., 2016). Pertanto, ci si può aspettare che la disfunzione del sonno sia riscontrabile in un sottogruppo di sopravvissuti a COVID-19 grave, trattati in terapia intensiva. È stata documentata una diminuzione della qualità del sonno anche nei non pazienti durante le ondate di COVID-19, associata a stress e ansia (Marelli et al., 2020). Una scarsa efficienza del sonno, dopo la dimissione dalla terapia intensiva, può contribuire al deterioramento cognitivo post-terapia (Wilcox et al., 2013). Un’altra considerazione, che include i pazienti con anamnesi di malattia lieve, è il ruolo dell’aspettativa di effetti cognitivi nei sopravvissuti a COVID-19. Data la copertura mediatica del coinvolgimento neurologico nel COVID-19 e gli effetti ancora sconosciuti della malattia sulla cognizione, è possibile che i pazienti possano sperimentare effetti iatrogeni. Nel contesto pandemico da COVID-19 potrebbero essere necessari diversi anni prima di poter delineare un confine di demarcazione netto in merito al contributo del PTSD rispetto al danno cerebrale sul funzionamento cognitivo, poiché potrebbero non esserci prove chiare del danno cerebrale, in assenza di un esame neuropatologico dettagliato. Sebbene la valutazione diagnostica di PTSD nei sopravvissuti a COVID-19 possa essere relativamente semplice, determinare il contributo relativo di tali disturbi e della neuropatologia correlata a COVID-19 ai deficit neurocognitivi risulta particolarmente ostico.

Non sono disponibili dati pubblicati sui profili neuropsicologici dei sopravvissuti a COVID-19 e, considerando la miriade di cause indirette, sarebbe improbabile un profilo coerente. È probabile che i deficit noti nell’attenzione, nelle funzioni esecutive e nella memoria, osservati nei pazienti con disturbo da stress post-traumatico, si sovrappongano ai disturbi cognitivi legati al COVID-19. Inoltre, i disturbi cognitivi soggettivi possono essere guidati più da sintomi psichiatrici e aspettative, piuttosto che da effettive neuropatologie sottostanti. A tal proposito, è stato dimostrato che le psicoterapie focalizzate sul trauma di matrice cognitivo-comportamentale migliorano le prestazioni cognitive: la normalizzazione dei sintomi psichiatrici nei sopravvissuti al trattamento in terapia intensiva può essere un primo passo significativo (Kaseda & Levine, 2020). In conclusione, è possibile ribadire quanto il trauma psicologico sia una variabile chiave che va ad impattare il profilo neuropsicologico e la qualità di vita dei sopravvissuti a COVID-19. Indipendentemente dai deficit neuropsicologici oggettivi, l’esperienza soggettiva del deterioramento cognitivo potrebbe anche essere molto angosciante dal punto di vista emotivo per i sopravvissuti e gli specialisti dovrebbero, dunque, considerare attentamente come sia il danno cerebrale secondario a COVID-19, che secondario a PTSD, possono avere un impatto sulla cognizione (Kaseda & Levine, 2020).

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