L’articolo mette in luce quali potrebbero essere le strategie necessarie per poter proteggere i professionisti della salute mentale dal rischio di burnout, tra queste emergono le tecniche di mindfulness.
Al giorno d’oggi, si è ancora soliti sottovalutare il lavoro dei professionisti del campo della salute mentale quando, in realtà, la pandemia di Covid-19 ha rivelato quanto esso possa essere necessario, nonché particolarmente stressante, determinando un incremento del rischio di burnout (Luther et al., 2017).
Difatti, a causa della naturale propensione al voler aiutare il maggior numero possibile di clienti, i clinici costituiscono una popolazione particolarmente vulnerabile per questo fenomeno.
Rokach e Boulazreg (2020) si sono proposti di effettuare una revisione sistematica, al fine di poter richiamare l’attenzione su alcuni dei principali pericoli connessi all’ambito clinico e, allo stesso tempo, mettendo in luce quali potrebbero essere le strategie necessarie per poter proteggere questi professionisti dal rischio di burnout.
È bene specificare come, a dispetto di ciò che si potrebbe pensare, i clinici possono incorrere nel rischio di isolamento sia fisico che emotivo. Difatti, il trattamento prevede che il terapeuta riceva i pazienti per tutto il giorno, in sessioni consecutive, determinando quasi l’assenza di un contatto con le persone del “mondo esterno”; dunque, non sorprende che l’isolamento e la solitudine siano tra i principali rammarichi degli operatori (Gündoğan, 2017).
Il terapeuta, inoltre, essendo impegnato costantemente nelle differenti sedute, rischia di non essere informato rispetto alle notizie quotidiane, il che è abbastanza paradossale in questa era caratterizzata da notifiche immediate (Rokach, 2019).
Ulteriormente, è la stessa stanza di consultazione ad essere isolante e, se si aggiunge l’insufficiente movimento fisico esercitato dal terapeuta quotidianamente, ciò potrebbe determinare una vera e propria deprivazione ambientale.
Di fronte a questi fattori di stress, la frustrazione da parte del clinico cresce e, specialmente per i novizi nel campo, la capacità di essere autentici, mentre si presta attenzione al cliente, può diminuire (Levitt & Jacques, 2005).
Paradossalmente, nonostante l’intenso contatto relazionale che caratterizza la pratica psicoterapeutica, l’isolamento emotivo viene sperimentato da molti terapeuti (Rokach & Sha’ked, 2013). Concentrarsi esclusivamente sui clienti lascia poco spazio, se non nullo, per dar voce alle emozioni e ai bisogni del clinico. Infatti, si è soliti aspettarsi che lo psicoterapeuta sia in grado di mettere da parte le sue preoccupazioni personali, al fine di agire “nel migliore interesse del cliente”. Pope e Tabachnick (1993) hanno scoperto che l’80% dei terapeuti che sperimentano ansia e rabbia durante il loro lavoro hanno dichiarato di dover essere in grado di contenerli ed evitare di condividerli.
Andando oltre, non si può sottovalutare il fatto che i terapeuti abbiano a che fare principalmente con popolazioni patologiche, la cui percezione delle persone o della società talvolta appare distorta (Pearlman & Saakvitne, 1995).
La letteratura indica che ben il 50% di tutti gli psicoterapeuti vengono molestati o addirittura attaccati fisicamente da un cliente nel corso della loro carriera (Pope & Tabachnick, 1993). Naturalmente, tali attacchi possono aumentare la vulnerabilità personale, diminuire il benessere emotivo e incrementare i dubbi sulle proprie competenze (Hill et al., 2003).
Talvolta ci si dimentica che i clinici, prima di essere professionisti, sono persone e, come tali, non sono esenti da eventi di vita personali che potrebbero incrementare in loro una significativa angoscia. Può accadere che le terapeute decidano di non comunicare ciò che accade nella loro vita privata, per esempio, quando restano incinte (Miller & Giffin, 2019), nutrendo un senso di colpa dovuto al solo fatto di essere in dolce attesa. La mancata comunicazione può portare ad una stanchezza mentale che potrebbe compromettere l’efficacia del professionista (Bienen, 1990).
L’atteggiamento appena descritto viene talvolta generato dalla credenza di dover essere perfetto, che caratterizza molti professionisti nel campo della salute mentale. Fu Albert Ellis che per primo decise di esplorare le credenze irrazionali tipiche degli psicoterapeuti (Ellis & Grieger, 1977) e il suo lavoro suggerì che spesso i terapeuti si trovano a mettere in atto proprio quei comportamenti che solitamente cercano di estinguere nei loro pazienti.
Sulla base di quanto appena esposto, appare dunque necessario per questi professionisti esercitare una maggior cura personale.
Sebbene la ricerca sull’autocura sia aumentata intorno agli anni ‘70 (Levin, Katz, & Holst, 1976), la sua concettualizzazione iniziale ha suscitato un dibattito tra gli operatori sanitari. Difatti vi era, e vi è ancora, chi ritiene che tale pratica sia de-professionalizzante, narcisistica e inaccettabile (Segall & Goldstein, 1989).
In realtà, essendo la psicoterapia una vocazione impegnativa, irta di rischi professionali, bisognerebbe iniziare il processo di auto-cura stabilendo aspettative realistiche, rendendosi conto che è normale sentirsi stanchi e sopraffatti. È importante riconoscere gli eventi stressanti ed è altrettanto essenziale rendersi conto che essi sono condivisi dalla maggior parte, se non da tutti, i terapeuti.
A volte, questa consapevolezza potrebbe essere raggiunta attraverso la supervisione. Sarà dunque necessario essere inseriti all’interno di un team di professionisti che possano condividere il carico di lavoro ed alleggerire così il peso di ogni membro coinvolto.
Allo stesso tempo, la cura di sé dovrà essere personalizzata. Questo implicherà sapersi prendere cura del proprio corpo attraverso una dieta adeguata, un sonno abbondante, esercizio fisico e le interazioni significative con gli altri.
L’autoconsapevolezza è il precursore di qualsiasi tentativo atto a ridurre lo stress, motivo per cui dev’essere una caratteristica distintiva del clinico (American Psychiatric Association, 2010).
Essa può essere raggiunta in diversi modi, tra cui la mindfulness, che implica una focalizzazione deliberata e non giudicante dei pensieri e/o delle sensazioni corporee nel momento presente.
Le pratiche di mindfulness determinano innumerevoli benefici legati al benessere, alla prevenzione del burnout e alla cura di sé (Norcross & VandenBos, 2018).
Wise, Hersh e Gibson (2012) hanno coniato un modello che sottolinea la necessità di guardare gli aspetti positivi dell’occupazione, l’importanza di accettare potenziali debolezze e promettere a sé stessi di cambiare l’atteggiamento per affrontare le suddette e l’importanza di essere coerenti e di creare routine che implichino la cura di sé.
Concludendo, con questo articolo si è voluto mettere in luce come la pratica clinica, al pari di altre professioni, celi innumerevoli rischi ai quali gli operatori potrebbero sfuggire mettendo in atto una maggior cura personale, smettendo di vedere quest’ultima come un atteggiamento narcisistico, bensì come una pratica necessaria al benessere personale e all’efficacia professionale.