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Mindful eating per condire la vita. La mindfulness applicata all’alimentazione: temi trattati, efficacia dimostrata e sviluppi terapeutici futuri

La mindful eating è un approccio innovativo al cibo basato sulla mindfulness che non prescrive cosa mangiare e cosa non mangiare, ma insegna come mangiare

Di Denise Pizzo

Pubblicato il 10 Dic. 2020

La mindful eating è l’alimentazione consapevole: è la capacità di portare piena attenzione e consapevolezza all’esperienza alimentare e al cibo.

Denise Pizzo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

La ricerca scientifica da oltre trent’anni evidenzia i benefici della mindfulness.

Da quando Jon Kabat Zinn implementò il programma MBSR (Mindfulness- Based Stress Reduction) nella Clinica per la Riduzione dello Stress del Massachussetts numerosi sono stati i protocolli sviluppati, sia in psichiatria che in altri specifici ambiti di vita.

Ora la mindfulness trova spazio in contesti aziendali, ospedalieri, oncologici, sportivi, scolastici; è stata declinata per specifiche fasce d’età e specifiche psicopatologie. È risultata talmente potente da essere stata inserita in alcune psicoterapie, come la Terapia cognitiva basata sulla mindfulness (MBCT, Mindfulness-Based Cognitive Therapy) per depressioni recidivanti, e la Terapia dialettico-comportamentale (DBT, Dialectical Behaviour Therapy) per il disturbo borderline di personalità. Insegnamenti di mindfulness sono presenti in altri setting clinici, come ad esempio l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) di Steve Hays, la Schema Therapy di Young e Klosko, la Compassion Focused Therapy (CFT) di Paul Gilbert e altre.

La mindfulness sta sempre più espandendo i suoi confini, ipersettorializzandosi su specifici ambiti. Tra questi non poteva non prendere forma la mindfulness applicata all’alimentazione: la mindful eating.

La mindful eating è l’alimentazione consapevole: è la capacità di portare piena attenzione e consapevolezza all’esperienza alimentare e al cibo. Permette di diventare consapevoli dei nostri stati interni (sensazioni fisiche, emozioni, pensieri) relativi al mangiare, riconnettendoci con la nostra innata saggezza interiore.

L’ente internazionale di riferimento per la mindful eating è il Center For Mindful Eating (TMCE), organizzazione non-profit fondata nel 2006 che si propone di diffonderne i principi e di fare ricerca scientifica.

Tra i soci fondatori della TMCE c’è Jean Kristeller, ideatrice del programma MB-EAT, che descrive la mindful eating come il ‘prestare deliberatamente attenzione all’esperienza con gli alimenti e la nutrizione, senza giudicare’ (2015). La definizione di Kristeller riecheggia quella della mindfulness di Jon Kabat Zinn, con cui peraltro ha lavorato in stretto contatto: ‘la mindfulness è porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, al momento presente e in modo non giudicante’ (1994).

La Mindfulness-Based Eating Awareness Training (MB-EAT, Kristeller, Baer & Quillian-Wolever, 2006; Kristeller & Hallett, 1999) è un programma evidence based, che integra MBSR e CBT. La MB-EAT si struttura in nove incontri e due di follow-up finalizzati al miglioramento del proprio comportamento alimentare e più in generale allo sviluppo di un più salutare ed equilibrato atteggiamento verso il cibo.

Il programma implementato da Kristeller, strutturato ma flessibile, è coerente con il modello della regolazione affettiva (Wilson, 1984), la teoria della restrizione (p.e. il modello della dieta cronica di Herman e Polivy, 1980), il modello dell’evitamento delle emozioni (Heartherton e Baumeister, 1991), il controllo mentale (Wegner, 1994) e i modelli neuro-cognitivi e terapeutici della mindfulness. Alla base del training di mindful eating ci sono quindi le pratiche di mindfulness che incrementano la capacità di essere consapevoli, di dirigere l’attenzione al momento presente, di sospendere il giudizio e le reazioni automatiche. Queste abilità possono essere direzionate alle attività della vita di tutti i giorni – come l’MBSR insegna – compresa l’alimentazione, come già Jon Kabat Zinn aveva suggerito in Full Catastrophe Living (1990), edito in Italia con il titolo Vivere momento per momento.

Tre sono i pilastri su cui si erge la MB-EAT: le pratiche di mindfulness, la psicoeducazione e le tecniche cognitivo-comportamentali.

Le tecniche di neuroimaging hanno ampiamente dimostrato le modificazioni neurologiche causate da una regolare pratica di mindfulness: l’inspessimento corticale della corteccia prefrontale mediale, deputata alle funzioni esecutive – quali la pianificazione, il problem solving, la regolazione delle emozioni, la memoria, l’attenzione (Lazar et al., 2005), un’attenuazione dell’attivazione dell’amigdala a fronte di stimoli minacciosi (Creswell et al., 2007), la stimolazione dell’ippocampo in cui avviene la neurogenesi (Hölzel et al., 2007). Senza contare l’abbassamento del livello di cortisolo (l’ormone nello stress) nel sangue, comportando anche effetti neuroprotettivi sul cervello (Xiong & Doraiswamy, 2009). La mindfulness è in grado di incrementare la capacità di autoregolazione, disinnescando comportamenti automatici di risposta (Brown, Ryan & Creswell, 2007). In tal modo, è in grado di ridurre il processo di inferenza automatica, migliorando il controllo cognitivo, facilitando l’insight metacognitivo e la prevenzione di pensieri distorti (Kang et al., 2013).

Complessivamente, questa funzione de-automatizzante della mindfulness promuove strategie autoregolatorie adattive e outcomes salutari. Si noti l’importanza dell’incremento delle capacità di autoregolazione nei comportamenti alimentari: spesso apriamo il frigo in modo automatico o mangiamo una patatina dietro l’altra di fronte alla TV senza nemmeno renderci conto di essere arrivati alla fine del pacchetto; fino ad arrivare a disturbi conclamati del comportamento alimentare, come accade nella bulimia nervosa e nel disturbo da alimentazione incontrollata (BED) dove esiste una problematica correlata alla disregolazione emotiva e degli impulsi.

Il secondo grande pilastro che compone la MB-EAT è la psicoeducazione. Attraverso contenuti più didattici, i partecipanti vengono informati sui contenuti emotivi e cognitivi che emergono nei confronti del cibo. Vengono date nozioni sui bias cognitivi che si attivano di fronte al cibo (come ad esempio, il pensiero dicotomico, l’attenzione selettiva, il catastrofismo, le affermazioni prescrittive, il doppio standard valutativo per sé e per gli altri, l’effetto violazione del controllo), sui condizionamenti che ci ritroviamo a vivere costantemente sulle nostre tavole (come ad esempio, ‘Mangia tutto quello che hai nel piatto’, ‘Se rifiuto altro cibo penserà che non ho gradito’, ecc.), sui meccanismi di regolazione ipotalamica in piena connessione alla saggezza interiore e di fame/ vuoto gastrico e sazietà/ pienezza; vengono spiegati (ed esperiti) i nove tipi di fame, le sei fasi del mangiare e il livello di soddisfazione delle papille gustative.

Il terzo pilastro della MB-EAT è costituito da tecniche cognitivo-comportamentali. Nello specifico, si accompagna il paziente nell’esposizione graduale al cibo trigger, fonte di ansia. Il cibo viene qui trattato come vero e proprio oggetto fobico a cui esporsi per estinguere poi l’evitamento esperienziale e l’ansia associata. In questo modo, il paziente apprenderà un modus operandi più funzionale per gestire qualsiasi cibo trigger,  traendone una relazione più sana e meno ansiosa e colpevole.

La mindful eating risulta davvero un approccio innovativo al cibo: non prescrive cosa mangiare e cosa non mangiare, ma insegna come mangiare. Attraverso graduali esercizi di alimentazione consapevole e meditazioni guidate tratte dalla MBSR (sitting meditation di tipo vipassana e samatha, body scan, movimenti consapevoli), il paziente sviluppa una relazione salutare con il cibo, basata sull’ascolto dei segnali interni del corpo, sull’uso dei cinque sensi, sulle emozioni, sui pensieri, imparando a disattivare il ‘pilota automatico’ e coltivando accettazione, auto-compassione e perdono.

Insegna a coltivare fiducia nei confronti del nostro corpo e ad esservi sensibili, riscoprendo la saggezza interiore connaturata nell’infanzia. I bambini sono, infatti, puri esseri mindful, che sperimentano il mondo interamente con i sensi, by-passando le metacredenze e i giudizi. Poi, intorno ai tre anni, si sviluppa la teoria della mente (ToM) che ci rende sensibili alle opinioni altrui, alle aspettative sociali e ai condizionamenti che incessantemente ci vengono ripetuti nell’infanzia (ad esempio, ‘Mangia tutto che ci sono bambini che muoiono di fame’, ‘Se mangi la verdura, avrai il dolce’, ‘Finisci quello che hai nel piatto così fai felice la mamma’). Prestando attenzione a quello che ci viene detto dall’esterno, finiamo gradualmente col disconnetterci dal nostro corpo, da quella che in mindfulness viene definita ‘saggezza interiore’. E la saggezza interiore non è altro che il nostro ipotalamo che sa perfettamente cosa e quanto mangiare per sentirsi bene. Un esperimento degli anni Trenta (Davis, 1939) ha messo in evidenza che i bambini con età compresa tra i 6 gli 11 mesi osservati per una settimana ai quali veniva offerta una varietà di cibo sul vassoio, mangiavano un appropriato numero di calorie con una distribuzione adeguata fra i vari nutrienti, come se fossero guidati da un nutrizionista interiore. La mindful eating dà voce a quel nutrizionista interiore, in piena connessione con il proprio corpo e la propria mente.

Con la MB-EAT si scopre quando si è davvero affamati e quale fame si attiva (fame degli occhi, fame della bocca, fame del naso, fame delle orecchie, fame del tatto, fame cellulare, fame dello stomaco, fame del cuore, fame della mente), si impara a scindere la sazietà dalla pienezza gastrica, conduce a scelte alimentari più consapevoli (a partire dall’acquisto del cibo).

La mindful eating è in grado di amplificare la godibilità del cibo: ogni morso diventa un’esperienza unica che amplifica l’esperienza del momento presente. Le diete (intese in senso restrittivo- e non etimologicamente come ‘stile di vita’) non solo ci disconnettono dal nostro corpo, ma violano anche il principio di piacere associato al cibo. La soddisfazione legata al cibo può assumere configurazioni diverse: godere del cibo che sto mangiando, sentirmi piacevolmente pieno, una situazione conviviale che riunisce amici e/o familiari. Le diete rimuovono il senso di soddisfazione legato al cibo: non mangi perché ‘è buono’, ma mangi perché ‘devi’. L’idea di controllo, limitazione, sacrificio interferiscono pesantemente con la sensazione fondamentale su cui si basa il nostro rapporto con il cibo: il piacere. Questo rappresenta un paradosso. La soluzione è rappresentata dalla mindfulness che enfatizza la soddisfazione del cibo non nella quantità, ma nella qualità: grazie a esercizi guidati, si scopre di essere in grado di trarre piacere da piccole quantità di cibo. E la soddisfazione legata al cibo non verrà poi seguita da sensi di colpa – come accade spesso negli emotional eaters: si coltiva l’astensione da posizioni giudicanti e rigide rispetto a sensazioni, pensieri, emozioni e comportamenti che riguardano il nostro modo di nutrirci. Questo aspetto è fondamentale per imparare a sviluppare un atteggiamento di amorevole gentilezza in contrasto con quegli atteggiamenti colpevolizzanti che spesso esistono nei confronti del cibo. Questa esperienza consente di coltivare l’arte del lasciare andare e dell’essere più accettanti.

Da anni, la ricerca scientifica documenta i benefici della mindful eating, anche nella popolazione clinica. Nello specifico, risulta utile nel trattamento della bulimia nervosa (Proulx, 2007), efficace nel ridurre i comportamenti di binge eating ed emotional eating (Godsey, 2013; Katterman et. al. 2014; Godfrey et. al., 2015). Trattamenti basati sulla mindful eating aiutano il mantenimento della perdita del peso in soggetti obesi o sovrappeso (Mantzios et al., 2015) e dopo interventi di chirurgia bariatrica (Chacko, 2016). Ci sono studi in merito all’efficacia della mindfulness in soggetti diabetici (Medina et al., 2009) e nel mantenimento del peso nei soggetti con sindrome di Prader-Willi (Singh et al., 2011). Discordanti sono i dati in merito all’impiego della consapevolezza alimentare nell’anoressia nervosa (Rodriguez et al., 2013): alcuni studi riportano dati incoraggianti (Albers, 2011) ma sono da verificare con ulteriori ricerche che coinvolgano un maggior campione: il rischio è che con l’aumento dei tempi di latenza tra stimolo e risposta, il controllo (in questo caso alimentare) aumenti, determinando un peggioramento delle condizioni cliniche.

In uno dei primi studi (1999), Kristeller et al. dimostrarono le potenzialità di un trattamento basato sulla mindfulness con soggetti con binge eating. Lo studio coinvolse 18 donne di età compresa tra i 25 e i 62 anni, con problemi di alimentazione compulsiva e di peso corporeo. Nessuna di loro aveva mai fatto meditazione in precedenza. I risultati di questo piccolo studio furono entusiasmanti: la frequenza e l’entità delle abbuffate si riduceva a più della metà (da 4.02 a settimana a 1.57 a settimana) in sei settimane e i partecipanti avevano nettamente ridotto i problemi generali con l’alimentazione; anche l’ansia e la depressione erano diminuite. In aggiunta, più queste donne applicavano le pratiche mindfulness all’alimentazione, più forti erano i miglioramenti riscontrati. Questi risultati furono incoraggianti per l’implementazione del programma MB-EAT.

L’efficacia del programma MB-EAT è stata poi testata con uno studio controllato e randomizzato eseguito in due centri, comparandolo con un programma psicoeducazionale basato sulla TCC e una lista di attesa come gruppo di controllo (Kristeller, 2013) in un campione con diversi gruppi etnici di donne e uomini obesi con BED o con BED subclinico. Un’analisi intent-to-treat ha mostrato una diminuzione delle abbuffate oggettive, della loro gravità e dei sintomi depressivi in entrambi i gruppi in trattamento. Tuttavia, soltanto le persone assegnate al gruppo MB-EAT mostravano un minore livello di locus of control rispetto al cibo, suggerendo una maggiore interiorizzazione del cambiamento. I risultati mostravano che, inoltre, dopo 4 mesi dalla fine dell’intervento, il 95% di chi era stato sottoposto a trattamento MB-EAT usciva dalla diagnosi di BED contro il 76% di chi era stato trattato con TCC.

Viviamo in una società opulenta, dove i comportamenti alimentari disfunzionali sono spesso il sintomo di problematiche emotive e relazionali più ampie. Uno strumento come la mindful eating e, più nello specifico, la MB-EAT può rivelarsi vincente nel combattere questi disagi che arrecano tale sofferenza. Come terapeuti formati, avere nella ‘borsa degli attrezzi’ uno strumento di tale potenza, sostenuto dalle evidenze scientifiche, può sicuramente aiutarci nel lavoro con i nostri pazienti.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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