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Inconsci e coscienza: un confronto tra distinte prospettive psicologiche

Ben lungi da una definizione condivisa di coscienza,non ci si stupisce se in merito al concetto di inconscio esistono ancora interpretazioni contraddittorie

Di Benedetto Tangocci

Pubblicato il 11 Set. 2019

Un aspetto fonte di grandi divergenze nell’ambito della Psicologia è stato – e troppo spesso ancora è – il concetto di inconscio: essenziale per tutta la Psicoanalisi; relegato nella famosa “scatola nera” dal Comportamentismo; ribattezzato con termini come “implicito”, “tacito”, “non consapevole”; o addirittura negato.

 

La plus belle des ruses du diable est de vous persuader qu’il n’existe pas
(Charles Baudelaire)

 

Abstract

In Psychology terms as “consciousness” or “unconscious” have often different meanings depending on different theories. So in order to understand them it’s useful to compare them. Starting from the developing of the Freud’s unconscious and continuing whit Jung’s view, the Foulkes’ social unconscious or the Henderson’s cultural unconscious, the cognitive unconscious, the unconscious aspects in Evolutionary psychology and in Social psychology. Likewise different point of view about consciousness are explored, both in our species and in animals or in artificial intelligence.

Introduzione

Lo sappiamo, la psicologia non è una disciplina monolitica bensì un variegato insieme di modelli, teorie e orientamenti solo parzialmente sovrapponibili, quando non in aperta contraddizione. Un aspetto fonte di grandi divergenze è stato – e troppo spesso ancora è – il concetto di inconscio: essenziale per tutta la Psicoanalisi; relegato nella famosa “scatola nera” dal Comportamentismo; ribattezzato con termini come “implicito”, “tacito”, “non consapevole”; o addirittura negato. A tutt’oggi non è inconsueto leggere due articoli che citando le scoperte delle neuroscienze affermano, l’uno che non essendo stata trovata in alcun luogo la sede l’ inconscio non esisterebbe, l’altro che i processi sottocorticali ne proverebbero l’esistenza.

D’altronde la Scienza è ben lungi dall’avere trovato anche solo una definizione condivisa di “coscienza”, meno che mai la sua sede, non può pertanto stupire che relativamente al concetto di inconscio le sue scoperte si prestino ad interpretazioni contraddittorie. Inevitabilmente, cercando di comprendere noi stessi intraprendiamo un complicato lavoro di “reverse engineering”, ci costruiamo rappresentazioni di come pensiamo che siamo fatti e con esse operiamo, poi le sottoponiamo sì (o almeno dovremmo) a verifica sperimentale, tuttavia la rappresentazione stessa determina tanto la prospettiva da cui osserviamo, quanto l’interpretazione delle osservazioni.

Troppo facilmente dimentichiamo che “a map is not the territory it represents” (Korzybski, 1933, p.58). Lo stesso territorio può essere rappresentato da mappe più o meno conformi ad esso, ma anche da mappe basate su aspetti diversi (cartine politiche, idrogeologiche, climatiche, altimetriche, ecc…), ovvero tra loro incommensurabili (Kuhn, 1970), e poiché in psicologia lavoriamo con costrutti non univocamente definiti, come “coscienza” o “inconscio”, è facilmente comprensibile l’esistenza di opinioni, studi ed interpretazioni differenti, giacché probabilmente essi non stanno neppure parlando della stessa cosa. Ecco perché ritengo sia utile esplorare i significati dei lemmi, probabilmente non per giungere in questa sede ad un’univoca definizione, ma quantomeno per avere consapevolezza dell’esistenza di linguaggi diversi e tentare di arricchirsi comprendendone le reciproche sfumature.

Inconscio e inconsci

L’aggettivo “inconscio” deriva dal latino tardo “inconscius”, formato dal prefisso “in” e da “conscius”, a sua volta derivato da “scire” (sapere) col prefisso “con” (dalla stessa radice latina derivano l’inglese “unconscious” e il francese “inconscient”). Similmente in tedesco “unbewusst” (“unbewußt” nella grafia non riformata) è formato dal prefisso “un” e “bewusst”, alterazione tramite l’influenza dal moderno “gewusst” participio passato di “wissen” (sapere), dell’antico tedesco “bewist” participio passato di “bewissen”, dall’analogo significato. Nelle lingue europee il termine si attesta primariamente come aggettivo per designare ogni aspetto della psiche che non è conosciuto.

Il suo uso come sostantivo è invece più recente e solitamente riportato nei vocabolari come specifico dell’ambito psicoanalitico, benché sia rintracciabile in letteratura prima di essere diffuso da Freud; ad esempio in System des transzendentalen Idealismus (Schelling, 1800), o addirittura nel titolo del saggio Philosophie des Unbewussten (Hartmann, 1869). Inoltre – come magistralmente espone lo storico della psicoanalisi Henri Ellenberger nel suo monumentale The Discovery of the Unconscious (1970) – non è imputabile a Freud la “scoperta” del concetto di inconscio, che bensì affonda le sue radici nello sciamanesimo, nella letteratura esoterica di ogni tradizione, e in epoca moderna nel Romanticismo e nell’ipnotismo.

A Freud è tuttavia certamente riconoscibile il merito di avere studiato l’ inconscio al di là della sua comprensione in negativo (ciò che non è conscio) teorizzandone caratteristiche e modalità di interazione che confluiscono in un moderno sistema da lui definito Psicoanalisi; e per quanto Freud non abbia propriamente “scoperto” che “l’io non è padrone in casa propria”, è stato certamente lui ad averlo insegnato alla moderna cultura occidentale.

Sigmund Freud e l’inconscio

Il pensiero di Freud evolve nel corso delle sue opere, nuove formulazioni talvolta affiancano talaltra sostituiscono vecchie definizioni, creando la necessità, parlando del suo pensiero, di riferirsi ad una specifica pubblicazione. Non è tuttavia questa la sede per esplorare tale evoluzione, già ampiamente ripercorsa da numerosi studi scientifici e testi divulgativi. Ai fini del presente articolo è sufficiente rilevare alcuni aspetti più macroscopici necessari per essere messi in relazione con altre prospettive nel prosieguo della trattazione. Iniziando dal sottolineare il passaggio dall’uso sostantivale del termine inconscio nella prima topica, nel quale le caratteristiche inconsce sono proprie di uno specifico “luogo mentale”, appunto denominato Inconscio, alla seconda topica, a partire dalla quale il termine, come aggettivo, si riferisce sia all’Es, che alle parti non consce dell’Io e del Super-Io (Ellenberger, 1970).

Relativamente ai contenuti dell’Inconscio occorre innanzitutto ricordare che Freud stesso (1915) afferma che:

Tutto ciò che è rimosso è destinato a restare inconscio; tuttavia […] il rimosso non esaurisce tutta intera la sfera dell’ inconscio. L’ inconscio ha un’estensione più ampia; il rimosso è una parte dell’ inconscio (p.49).

Per Freud sono pertanto inconsci anche contenuti che non sono mai precedentemente stati consci, aspetti non derivanti dalla storia personale, di origine filogenetica (soggetti alla cosiddetta “rimozione primaria”, attiva fin dalla nascita e precedente la “rimozione secondaria” relativa l’esperienza personale), condivisi da ogni essere umano ed influenti sulla storia della nostra specie. La visione psicoanalitica dell’inconscio e la sua visione della psiche è dinamica – dal greco δυναμικός (dynamikós), derivato di δύναμι (dýnamis), ovvero “forza” – nella duplice accezione di scontro tra forze da cui deriva uno spostamento di energia psichica e di movimento tra la dimensione conscia e inconscia, e viceversa, dei contenuti della psiche.

Altro elemento della visione freudiana ricorrente in modo trasversale alle sue opere è la necessità di favorire il dominio della coscienza sull’ inconscio, o in termini successivi, che per quanto non sovrapponibili ne ricalcano gli aspetti di principale sede della coscienza e di istanza totalmente inconscia, dell’Io sull’Es. Freud (1932) infatti scrive:

Dove era l’Es, deve subentrare l’Io. Un’opera di civiltà, come, ad esempio, il prosciugamento dello Zuiderzee (p.190)

Lo Zuiderzee era il mare che una volta sommergeva buona parte dell’Olanda, poi prosciugato tramite un sistema artificiale di dighe, consegnando all’uomo nuove terre coltivabili.

L’ inconscio nel pensiero di Carl Gustav Jung

Come è noto, per Jung l’ inconscio rappresenta molto di più di quanto individuato da Freud, in una sua definizione (1946) scrive:

Tutto ciò che io so, ma a cui momentaneamente non penso; tutto ciò che per me una volta è stato cosciente, ma che ho dimenticato; tutto ciò che viene percepito dai miei sensi, ma che non viene notato dalla mia coscienza; tutto ciò che io sento, penso, ricordo, voglio e faccio senza intenzione e senza attenzione, cioè inconsciamente; ogni cosa futura che si prepara in me e che affiorerà alla coscienza solo più tardi, tutto questo è contenuto dell’inconscio. […] in questo fenomeno marginale dovuto a un’alternanza di luce e d’ombra rientra anche il risultato cui è giunto Freud. […] dobbiamo includere nell’ inconscio anche le funzioni psicoidi incapaci di coscienza e della cui esistenza abbiamo solo conoscenza indiretta (p. 204).

Per Jung (1927) è inoltre necessario distinguere tra:

1) la coscienza; 2) l’ inconscio personale […]; 3) l’ inconscio collettivo, che è un patrimonio ereditario di possibilità rappresentative non individuale, ma comune a tutti gli uomini e forse a tutti gli animali, e costituisce la vera e propria base della psiche individuale. (p. 170);

e ancora (Jung, 1936):

L’ inconscio collettivo è una parte della psiche che si può distinguere in negativo dall’ inconscio personale per il fatto che non deve, come questo, la sua esistenza all’esperienza personale e non è perciò un’acquisizione personale. Mentre l’ inconscio personale è formato essenzialmente da contenuti che sono stati un tempo consci, ma sono poi scomparsi dalla coscienza perché dimenticati o rimossi, i contenuti dell’inconscio collettivo non sono mai stati nella coscienza e perciò non sono mai stati acquisiti individualmente, ma devono la loro esistenza esclusivamente all’ereditarietà. L’ inconscio personale consiste soprattutto in ʻcomplessiʼ; il contenuto dell’ inconscio collettivo, invece, è formato essenzialmente da ʻarchetipiʼ. Il concetto di archetipo, che è un indispensabile correlato dell’idea di inconscio collettivo, indica l’esistenza nella psiche di forme determinate che sembrano essere presenti sempre e dovunque. (p. 78).

Inoltre, lungi dall’essere come per Freud uno “Zuiderzee” da prosciugare, per Jung (1928):

L’ inconscio è negativo o pericoloso soltanto perché noi siamo disgiunti e quindi in contrasto con esso. […] Se si riesce a produrre la funzione che ho chiamato trascendente, si abolisce questa disgiunzione e si può quindi attingere serenamente al lato favorevole dell’ inconscio. Allora l’ inconscio fornisce tutti gli appoggi e gli aiuti che una natura benevola può dare in sovrabbondanza all’uomo. L’ inconscio ha infatti possibilità che sono precluse alla coscienza; esso dispone di tutti i contenuti psichici subliminali, di tutto ciò che è stato dimenticato e trascurato, e per di più della saggezza derivante da un’esperienza vecchia di secoli, sepolta nelle sue strutture archetipiche. L’ inconscio è costantemente attivo e crea combinazioni dei suoi materiali che prefigurano il futuro. Esso produce combinazioni subliminali, anticipatrici, come fa la nostra coscienza, ma le combinazioni dell’inconscio sopravanzano assai quelle della coscienza per finezza e portata. L’ inconscio può essere quindi una guida senza uguali per l’uomo, se questi è in grado di far fronte al rischio di essere fuorviato. (pp. 117, 118).

In queste righe, tanta appare la fiducia nella capacità teleologica delle forze inconsce che viene quasi da dire, parafrasando il titolo della celebre acquaforte di Goya, che “il sonno della ragione non genera mostri”, a condizione che sia liberamente guidato dai sogni dell’ inconscio.

Altri inconsci psicodinamici

Oltre all’ inconscio personale e l’ inconscio collettivo in ambito psicodinamico sono stati teorizzati almeno altri due tipi di inconsci: l’ inconscio sociale, costrutto derivato in parte dalla sociologia, dall’antropologia, dal lavoro degli psicoanalisti Erich Fromm (1930) e Karen Horney (1937), ed in particolar modo del padre della gruppoanalisi, Siegmund Heinrich Foulkes (1964); e l’ inconscio culturale di cui scrive l’analista junghiano Joseph Lewis Henderson (1962).

Il concetto di inconscio sociale è descritto in tempi più recenti dallo psicoanalista Earl Hopper (1996) che così ne riassume gli aspetti fondanti:

The effects of social facts and forces are more likely to be unconscious than conscious. The concept of the social unconscious refers to the existence and constraints of social, cultural, and communicational arrangements of which people are unaware, in so far as these arrangements are not perceived (not known), and if perceived, not acknowledged (denied), and if acknowledged, not taken as problematic (given), and if taken as problematic, not considered with an optimal degree of detachment and objectivity. Although social constraints are sometimes understood in terms of myth, ritual, and custom, such constraints are in the realm of the “un- known” to the same extent as the constraints of instincts and fantasies. (p. 9).

Hopper (1996) tiene inoltre a specificare che:

the concept of the social unconscious differs from the traditional Jungian concept of the collective unconscious, with its emphasis on the inheritance of acquired characteristics (p. 11).

Sull’ inconscio culturale, scrive Henderson, nella traduzione italiana della sua relazione al 2° Congresso Internazionale di Psicologia Analitica di Londra (1975):

l’inconscio culturale non deriva dall’inconscio collettivo e neppure da quello personale. In parole povere, ritengo che molto di ciò che Jung chiamava personale fosse, in realtà, culturalmente condizionato. (p. 11).

Prosegue poi prendendo come esempio il Complesso di Edipo che non sarebbe

strettamente personale, come sosteneva Freud, né strettamente archetipico come voleva Jung. (p. 12);

riconosce poi a Fromm il merito di avere per primo inquadrato il mito di Edipo nel contesto della cultura greca, di conseguenza che

il complesso di Edipo può prodursi soltanto in un bambino che, nell’ambito della propria famiglia, sia esposto ad un modello culturale del genere. (p. 12).

Non mi risulta tuttavia una definizione più strutturata di quello che Henderson chiama inconscio culturale, né esso mi sembra pertanto chiaramente distinguibile dal concetto di inconscio sociale precedentemente esposto. Nondimeno, a prescindere dal nome e dai confini che si voglia delineare, ritengo utile distinguere dall’ inconscio personale e da quello collettivo una dimensione che chiamerei socio-culturale. Nel mondo globalizzato di oggi, nel quale anche le differenze culturali a livello conscio si assottigliano sempre più, non è semplice individuare tracce di ipotetici inconsci socio-culturali, ma a ben vedere a cos’altro sarebbero altrimenti imputabili le cosiddette Sindromi Culturalmente Caratterizzate descritte nel DSM-5 (APA, 2013, p. 967)?

Un esempio più estremo, più ipotetico, ma certamente più esemplificativo può offrircelo un’interpretazione del fenomeno chiamato “Voodoo death” dal medico americano Walter Bradford Cannon, l’autorevole scopritore della cosiddetta “Fight-or-Flight Response”. Cannon (1942), studiando numerose osservazioni riportate da vari antropologi tra i nativi sudamericani, africani, e gli aborigeni australiani, rileva l’alta frequenza con cui alcuni indigeni additati dallo stregone della tribù, gesto equiparato in tali culture ad una condanna a morte, effettivamente muoiono nei giorni successivi. Col ripetersi di tali osservazioni antropologiche le morti sono difficilmente considerabili casuali e, a meno di accettare spiegazioni soprannaturali, la loro causa più plausibile sembra dovuta a suggestione, al grande spavento provato e al conseguente effetto nocebo. Sugli innegabili ed importanti effetti somatici degli effetti placebo e nocebo ho già scritto altrove (Tangocci, 2018) e non ritengo sorprendente che il loro effetto possa perfino condurre alla morte. Più sorprendente è invece che, come riportano suddette osservazioni, con altrettanto stupore degli studiosi che hanno osservato le morti dei membri della tribù additati dallo stregone, quest’ultimo presumibilmente constata l’inefficacia dei suoi poteri sugli stranieri che, anche se forse in soggezione e spaventati da quanto hanno assistito, appartengono ad una cultura che non ritiene possibili tali fenomeni. L’indigeno e l’antropologo occidentale, se entrambi additati da uno stregone, non hanno solo distinte credenze consce sul fenomeno, bensì anche e soprattutto diverse credenze inconsce più profondamente radicate e pertanto refrattarie, nel caso dell’indigeno, a tentativi di convincimento che l’atto è innocuo e, nel caso dello studioso, allo spavento provato dall’avere precedentemente assistito alla morte di individui cui è toccata la stessa sorte. Tali credenze inconsce non possono essere considerate strettamente personali, poiché presenti nella maggior parte degli individui che condividono una certa cultura, né strettamente collettive, poiché anche se riscontrabili in società tra loro distanti, e probabilmente virtualmente accessibili ad ogni società, sono di fatto assenti in altre culture.

Inconscio cognitivo

Il concetto di inconscio è stato per decenni estraneo alla psicologia cognitiva che, pur riconoscendo l’innegabile esistenza di aspetti non consapevoli della psiche, preferiva ricorrere ad altri termini per riferirvisi. Finché lo psicologo americano John Frederick Kihlstrom pubblica su Science l’articolo The cognitive unconscious (1987). In esso sarebbero compresi i processi mentali automatici, la memoria implicita o procedurale, la percezione subliminale, i fenomeni ipnotici di analgesia e amnesia.

L’ inconscio cognitivo così descritto si differenzia tuttavia da quello psicodinamico per essere composto da processi, invece che da contenuti. Mentre i contenuti sono per l’appunto dinamici, ovvero forze soggette a conflitti intrapsichici che determinano uno spostamento di energie, nonché capaci di trasformarsi da consci a inconsci e viceversa; il concetto di processo non contiene in sé alcuna di queste caratteristiche. Per quanto si potrebbe obbiettare che nei processi automatici inconsci rientri a ben diritto anche quello che potremmo chiamare “inconscio biologico”, ovvero il controllo da parte del cervello di funzioni biologiche, tra cui ad esempio le funzioni omeostatiche governate dall’ipotalamo, come la termoregolazione; ed in tali casi, tramite antiche tecniche meditative, in parte assimilate nel Cognitivismo col nome di Mindfulness, è dimostrata (ad esempio: Kozhevnikov, Elliott, Shephard, & Gramann, 2013; Kox et al., 2014) la possibilità di modificare alcuni paramatri biologici abitualmente governati dal Sistema Nervoso Autonomo, ovvero di far diventare conscio un processo inconscio.

Oramai inglobata nella prospettiva cognitiva è anche la Teoria dell’attaccamento, sviluppata a partire dai primi lavori dello psicanalista britannico John Bowlby (1969), con i suoi stili di attaccamento e i conseguenti Internal Working Model (Modelli Operativi Interni). Nell’assimilazione di tale teoria da parte del Cognitivismo possiamo ad ogni modo sorvolare sull’estrazione psicoanalitica di Bowlby, mentre non possiamo ignorare che la teoria prevede che delle relazioni del passato influenzino il comportamento attuale attraverso processi non consapevoli, ovvero inconsci, che si voglia o meno utilizzare il termine.

Psicologia evoluzionistica

Appare paradossale che un’intera branca della psicologia, la Psicologia Evoluzionistica, sviluppata a partire della pionieristica pubblicazione, curata degli antropologi Jerome Barkow e John Tooby e dalla psicologa Leda Cosmides, The Adapted Mind: Evolutionary Psychology and the Generation of Culture (1992), si occupi pressoché interamente di cercare le cause di comportamenti non consapevoli, o solo parzialmente tali, senza mai, a quanto mi risulta, utilizzare il termine “inconscio”. La disciplina, nella quale confluiscono contributi dall’etologia comparata, della psicologia cognitiva e dell’antropologia, prende le mosse da due concetti cardine, quello della modularità della mente e quello dell’adattamento dei suoi moduli secondo gli stessi principi darwiniani della selezione naturale e della selezione sessuale, comunemente accettati dalla biologia.

Senza addentrarsi oltre nella sua impostazione teorica, ai fini della presente esposizione è sufficiente affermare che la psicologia evoluzionistica ha rilevato l’esistenza di tendenze comportamentali, condivise da tutte le società umane e da tutte le specie animali che si trovano in condizioni comparabili, che sovente si presentano senza che gli individui ne siano consapevoli, o addirittura in contraddizione a quanto, probabilmente in buona fede, sostengono e affermano del proprio comportamento. Naturalmente occorre tenere presente che si tratta di tendenze distribuite lungo una gaussiana, la quale per sua natura prevede l’esistenza di singole deviazioni; che nell’eventualità di cambiamenti sociali o ambientali tali tendenze muteranno adattandosi ad essi; e che secondo la teoria il comportamento osservato è multifattoriale e pertanto le contingenze di uno specifico caso possono essere maggiormente influenzate da fattori estranei a quelli inerenti la tendenza osservata. Nondimeno, studi cross-culturali, di confronto con altre specie, di neuroimaging, questionari self report, osservazioni, dati socio-statistici e studi genetici, mostrano l’esistenza di alcune tendenze universali (Buss, 2012).

Tenendo ben a mente tutti i punti precedenti, un buon esempio può essere offerto dai diversi criteri eterosessuali maschili o femminili di preferenza nella scelta del partner a lungo termine in relazione al diverso investimento parentale. Nella nostra specie la donna ha un’ovulazione mensile e se fecondata porterà in grembo un figlio per nove mesi e dovrà successivamente provvedere all’allattamento. In senso strettamente biologico l’uomo dispone invece di milioni di spermatozoi ogni giorno, ed il suo ruolo si esaurisce lì, a meno che sia interessato alla sopravvivenza della prole ed in grado di accudirla. Questi ultimi due aspetti dovrebbero pertanto essere preferiti dalle femmine di ogni specie caratterizzata da un analogo investimento parentale, mentre i maschi dovrebbero prediligere compagne sane e fertili. Ed infatti, gli studi (Buss, 2012) confermano che le femmine sono maggiormente attratte da indicatori di capacità di protezione, tra cui principalmente elevato status sociale, ricchezza, prestanza fisica (altezza, ampiezza delle spalle), e indicatori di disponibilità ad offrire protezione, tra cui affidabilità e impegno; mentre i maschi da indicatori di fertilità (giovane età, basso rapporto vita/fianchi) e di buon accudimento della prole (dolcezza, disponibilità, affidabilità). Per entrambi è inoltre importante la bellezza, in quanto indicatore di salute e pertanto di capacità di trasmettere buoni geni alla prole; ma in particolar modo questo criterio diviene rilevante per la femmina in caso di rapporti occasionali o di tradimenti, mentre in tali casi il maschio diviene coerentemente molto meno selettivo.

In quello che Schopenhauer (1819) chiamava il grande inganno della Natura per perpetuare la specie, raramente si è tuttavia consapevoli di conformare il comportamento a delle tendenze universali, anche nei casi in cui la tendenza corrisponda esattamente alla media della gaussiana. Esempi a tutti noti sono offerti dalle cronache rosa di matrimoni tra uomini anziani potenti e facoltosi e compagne giovani e attraenti; ma nell’odierna società liquida, col mutare della distribuzione delle ricchezze tra i generi e l’attribuzione di un minore legame tra sessualità e procreazione, non è impossibile neppure assistere al caso contrario. Difficilmente i protagonisti di questi esempi affermeranno che le motivazioni sovraesposte abbiano avuto influenza nelle loro scelte, è bensì più probabile che perfino le loro presumibilmente sincere narrazioni interne adducano tutt’altre motivazioni. Probabilmente non ci è dato saperlo con certezza, ma ad ogni modo ai fini del presente lavoro – quali che siano le motivazioni realmente in atto e la correttezza delle interpretazioni proposte – la questione è qui presentata con il solo scopo di esemplificare che per la psicologia evoluzionistica il nostro comportamento risulta quantomeno influenzato da tendenze non necessariamente consapevoli. Ovvero nuovamente, che si voglia o meno utilizzare il termine, è evidente che la disciplina si occupa di situazioni nelle quali gli individui subiscano dinamiche inconsce, nello specifico, di tipo filogenetico.

Psicologia sociale

Altra disciplina psicologica su cui è necessario soffermare l’attenzione relativamente allo studio di comportamenti non consapevoli è la psicologia sociale. Ben noti a qualsiasi studente di psicologia sono i pionieristici lavori di Muzafer Sherif, Kurt Lewin, Solomon Asch, o Stanley Milgram. Non ritengo pertanto necessario presentare la disciplina né soffermarmici oltre il riportarne alcuni esperimenti emblematici. Ad esempio, quelli citati da Myers (2008) sullo studio dei pregiudizi impliciti (inconsci): in esperimenti nei quali viene chiesto ai soggetti di premere velocemente i bottoni “sparare” o “non sparare” in corrispondenza all’improvvisa comparsa su uno schermo di immagini di uomini bianchi o di colore, con in mano una pistola o un oggetto innocuo, anche i partecipanti che consapevolmente non presentano pregiudizi espliciti (consci) commettono più spesso l’errore di sparare agli uomini di colore.

In questa e nelle molte altre circostanze di incongruenza tra comportamento effettivo e convinzioni consapevoli rilevate dalla psicologia sociale, è palese l’esistenza di due distinti livelli di elaborazione. La disciplina si limita tuttavia a rilevare l’esistenza di influenze non consapevoli sul comportamento, non indaga se la natura di queste influenze consista di processi, in senso cognitivo, o di forze, in senso dinamico. Peraltro, profittando della questione per ampliarla ad una dimensione più generale, la differenza tra le due visioni è realmente sostanziale o forse più imputabile alla prospettiva di osservazione, come la natura ondulatoria o corpuscolare della luce? Chiaramente la domanda rimane aperta ed è qui posta col solo scopo di suscitare una possibile riflessione sull’effettiva esistenza di quei confini che troppo spesso sono stati fonte di conflittualità tra differenti orientamenti.

A questo punto, dopo avere evidenziato la presenza in psicologia di più “inconsci”, in alcuni casi parzialmente sovrapponibili ed in parte tra loro complementari, è giunto il momento di indagare cosa si intenda invece con “coscienza”.

Coscienza: cos’è? Come possiamo definirla?

Si potrebbe dire che ognuno di noi sa cosa sia la coscienza, finché non gli viene chiesto di definirla. A quel punto, come avviene usualmente per quanto diamo per scontato, iniziano i problemi, forse ancora maggiori di quelli incontrati per il concetto di “inconscio”, che ha quantomeno beneficiato dell’essere stato messo in discussione dalle distinte correnti psicologiche. Pochi tuttavia sarebbero pronti a mettere in discussione l’esistenza stessa della coscienza, per quanto tesi funzionaliste che la coscienza non sia altro che un epifenomeno della mente, ed in quanto tale non realmente esistente, ci siano (Dennet, 1991). La difficoltà di una definizione nondimeno resta, amplificata dal fatto che il termine può assumere i distinti significati, correlati ma non certo sovrapponibili:

  • di consapevolezza e/o padronanza sui processi mentali e i comportamenti;
  • di stato di maggiore o minore vigilanza e attivazione del sistema nervoso;
  • di capacità di riflessione su se stessi, di attribuzione di significato ai propri atti, in un contesto autobiografico;
  • di funzione attribuente un senso ad ogni esperienza;
  • inerente la dimensione morale.
  • inerente la dimensione spirituale

Padronanza e vigilanza

La prima accezione si collega al precedente breve excursus sull’ inconscio, a partire dalla prima topica freudiana, ed in forma diversa in tutte le successive prospettive esplorate. In realtà in tali prospettive la capacità di consapevolezza e padronanza si può dire sia il punto di partenza, dato per implicito, a cui vengono gradualmente sottratte aree mentali di competenza. Si scopre – e talvolta ci si stupisce – di “non essere padroni in casa propria”, poiché la padronanza, ovvero la coscienza nella sua prima accezione, era scontata. Quindi, come abbiamo visto, gli studi si sono concentrati sulle presunte eccezioni in cui così non è.

La seconda accezione è più fisiologica, medica, neuropsicologica o pertinente la cosiddetta psicologia generale. Il termine “coscienza” assume i significati di vigilanza, attivazione, reattività, capacità di intendimento. Si parla pertanto di stati di coscienza relativi alla veglia, il sogno, o il sonno senza sogni, correlati con definite frequenze cerebrali; di stati alterati di coscienza provocati da specifiche pratiche o da sostanze psicoattive; ma anche di mancanza di coscienza dovuta ad anestesia, al coma, a lesioni cerebrali o di pazienti in stato vegetativo; della coesistenza di più coscienze in pazienti affetti da personalità multiple o di differenze qualitative di coscienza nella schizofrenia o in altri disturbi psichiatrici. L’interesse è focalizzato sulla quantità di coscienza o sulla qualità dei suoi contenuti, non su cosa la coscienza sia.

Coscienza di Sé

Un’altra prospettiva da cui guardare al termine “coscienza” concerne la coscienza di Sé, come entità definita, avente una propria continuità biografica. Anche il termine “Sé” necessiterebbe di distinzioni con i termini “Io” o “Ego”, solo in parte sovrapponibili, qui tuttavia può essere usato nella sua più generica accezione di differenziazione tra se stessi e il resto del mondo. Con tale significato di senso di identità è stato indagato soprattuto per quanto riguarda il suo sviluppo da uno stato inizialmente indifferenziato, da autori come William James, George Herbert Mead, Margaret Mahler, Donald Woods Winnicott, e molti altri.

Più recentemente, il neurologo Antonio Damasio (1999) ha distinto tra tre livelli di sviluppo del Sé: Proto-sé (uno stato preconscio, centrato sul mantenimento dei bisogni omeostatici dell’organismo), Coscienza nucleare (consapevolezza di sé limitata al presente), Coscienza estesa (autobiografica, dipendente dallo sviluppo delle aree della memoria e del linguaggio). Una teorizzazione affine era già stata offerta dallo psicoanalista Daniel Stern (1985) con la sua ripartizione tra le fasi di sviluppo del Sé emergente (esperienze isolate relative al corpo), Sé nucleare (iniziale differenziazione e autopercezione di essere autore di azioni), Sé soggettivo (completa distinzione tra sé e altri sé, dotati come lui di propri pensieri e emozioni), Sé verbale (capacità di simbolizzazione e autoriflessive); Sé narrativo (autobiografico).

La questione della consapevolezza di Sé, o autoconsapevolezza, non è tuttavia limitata alla nostra specie, ma indagabile anche in altre specie animali, e perfino in automi robotici dotati di dispositivi sensori ed effettori gestiti da un’intelligenza artificiale. Negli animali è comune testare la presenza di forme di autoconsapevolezza ricorrendo al cosiddetto “mirror test” (riconoscimento di sé allo specchio), che alcune specie hanno mostrato di superare, tra le quali anche non primati, ad esempio elefanti (Plotnik et al, 2006) o gazze Pica Pica (Prior et al, 2008). Nonostante molte specie, tra cui i cani, non sembrano capaci di autoriconoscimento allo specchio, occorre ricordare i limiti intrinseci di qualsiasi test basato su criteri umani applicato ad altre specie, poiché – come ci ricorda il filosofo Thomas Nagel (1974) – probabilmente non potremmo mai sapere “what is it like to be a bat”; dato che per i pipistrelli, o per i cani, non la vista, ma rispettivamente l’ecolocalizzazione e l’olfatto sono il senso più importante, su cui pertanto più plausibilmente si baserebbero eventuali capacità di autoriconoscimento.

Più contesa, ed emotivamente carica, è l’attribuzione di capacità di autoconsapevolezza ad un automa, a lungo arbitrariamente considerata impossibile. Pochi mesi fa tuttavia due ricercatori della Columbia University hanno pubblicato su Science Robitics un articolo (Kwiatkowski e Lipson, 2019) che riferisce della realizzazione di un robot dotato di dispositivi sensori, arti artificiali e intelligenza artificiale, che è stato in grado di autocostruirsi da zero una corretta immagine di sé, della propria forma, capacità di movimento e interazione con l’ambiente (parametri non definiti dai programmatori), e correttamente impiegare tale immagine di sé per muoversi nello spazio, afferrare e spostare oggetti e perfino autoripararsi.

L’essenza della Coscienza

Valutare la presenza o meno di coscienza da un comportamento apparentemente tale può tuttavia essere ingannevole. Soggetti perfettamente coscienti, ma incapaci di dimostrarlo, come nella sindrome locked-in (paralisi dei muscoli volontari del corpo, talvolta totale, anche se più frequentemente sono esclusi i soli nervi oculomutori, tramite i quali il paziente riesce a comunicare) possono non essere riconosciuti come tali. Mentre, ipotetiche entità antropomorfe, in tutto simili all’uomo per aspetto e comportamento (i recenti successi della robotica fanno facilmente supporre che non dovremo attendere molto per vederli nella realtà, oltre che nei film), sarebbero anche coscienti o piuttosto ciò che il filosofo David Chalmers (1996) chiama “philosophical zombie”? Cosa differenzierebbe un soggetto dotato di coscienza da uno capace di simularne gli otuput comportamentali è – sempre per Chalmers – “the hard problem”, in contrapposizione ai (relativamente) “easy problems”, riguardanti la comprensione degli aspetti cognitivi come la memoria, l’attenzione, o il controllo comportamentale. In pratica, cosa è la coscienza, ed in quali condizioni è possibile?

Tale domanda, che da secoli ha attirato l’attenzione filosofica, nell’ultimo ventennio è diventata di interesse centrale anche per i neuroscienziati. Infatti, a partire dal pionieristico lavoro del biologo Francis Crick (lo scopritore del DNA) ed il neurologo Christof Koch (1990), fioriscono ipotesi sul meccanismo neurale alla base della coscienza, tra cui soprattutto la Global Neuronal Workspace Theory (Dehaene et al, 1998) che lo individuerebbe nelle regioni corticali prefrontali, caratterizzate da ampia condivisione di informazione con molti sistemi cerebrali.

Diversamente, l’Integrated information theory (IIT), del neurologo italiano Giulio Tononi (2004) dell’Università del Wisconsin (tra le ipotesi oggi più accreditate) prende le mosse dal dato fenomenologico dell’esperienza cosciente, ed in particolare da cinque proprietà individuate come caratterizzanti (Oizumi et al, 2014): esistenza intrinseca (per il soggetto che l’esperisce, non per un osservatore esterno); struttura composita (ogni esperienza consiste di molteplici aspetti in varie combinazioni); informazione (specifica e differenziata da ogni possibile alternativa); integrazione (unitaria e irriducibile); esclusione (l’esperienza è definita, dotata di specifici confini e riferimenti spazio-temporali). Ne consegue un modello matematico basato sull’integrazione dell’informazione, corrispondente al valore Φ (phi), al cui crescere aumenta il livello di coscienza consentito dal substrato fisico della coscienza, denominato complesso (complex). Nella nostra specie le caratteristiche necessarie sarebbero proprie della struttura talamo-corticale, ed il livello di integrazione sarebbe misurabile tramite una tecnica – capace di discriminare correttamente tra pazienti sani o in stato vegetativo (Casarotto, 2016) – denominata Zapping and Zipping (Koch, 2017), nella quale la stimolazione transcranica magnetica evoca una risposta nella rete neurale che è monitorata da elettroencefalogramma e successivamente elaborata da un algoritmo di compressione (simile a quello utilizzato per comprimere i file, “zip” appunto) che genera il Perturbational Complexity Index (PCI). La possibilità di coscienza non sarebbe tuttavia limitata dalla teoria alla nostra specie, bensì potenzialmente riconosciuta (panpsichismo) a qualsiasi sistema capace di informazione sufficientemente integrata: animali, sebbene non siano ancora state effettuate misurazioni; o future intelligenze artificiali, purché basate su una diversa architettura, poiché le attuali non soddisfano i necessari requisiti di integrazione richiesti dalla teoria per supporre presenza di coscienza.

Coscienza morale e spirituale

Alla consapevolezza di Sé, l’attribuzione di significato ai propri atti, e la propria biografia si collega l’accezione morale del termine coscienza, intesa sia come responsabilità delle proprie azioni, sia come sede della capacità di autoregolazione moralmente orientata. Allo sviluppo della capacità di regolazione delle proprie azioni in senso morale e le condizioni ambientali intervenienti si sono interessati, tra gli altri, gli psicologi jean Piaget, Lawrence Kohlberg e Albert Bandura; gli studi psichiatrici su soggetti antisociali e le valutazioni della capacità di intendere e volere di soggetti resosi colpevoli di reati. In senso più ampio il tema è centrale nella filosofia morale, nella giurisprudenza e nelle religioni, in particolare in quella cristiana, cui è peculiare anche l’accezione di Coscienza intesa come sede del senso morale.

Una più ampia concezione di coscienza è invece riferibile ad altre tradizioni spirituali, tra cui soprattutto, ma non unicamente, alcune di matrice induista, come l’Advaita Vedanta. In questa prospettiva la Coscienza assoluta, o Brahman, o in termini più generali Dio, è tutto ciò che esiste, l’Unità, che per conoscere se stessa si differenzia, dando vita alle coscienze individuali, ātman. La separazione tra ātman e Brahman è tuttavia solo māyā, “illusione”, ma in sanscrito anche “creazione”, a sottolineare l’inevitabile illusorietà di tutto ciò che è o viene creato. Come è noto il fascino di una tale prospettiva ha da tempo varcato i confini indiani ed in psicologia ha, almeno parzialmente, influenzato il pensiero di Carl Gustav Jung; del fondatore della Psicosintesi, Roberto Assagioli; ed il lavoro del filosofo Ken Wilber, confluito insieme a quello dello psichiatra Stanislav Grof nella cosiddetta Psicologia Transpersonale.

Conclusioni

Una vecchia e molto nota storiella indiana (riportata originariamente negli Udāna, VI, 4) racconta di sei ciechi che tentano di descrivere un elefante attraverso la loro esperienza tattile. Per il cieco che tocca la coda l’elefante assomiglia ad una corda; mentre chi tocca la gamba lo percepisce simile ad un albero, chi tocca la zanna lo ritiene simile ad una lancia, chi tocca l’orecchio lo crede simile ad un grande ventaglio, chi tocca la proboscide lo reputa simile ad un serpente, e chi ne tocca il fianco lo raffronta ad un’alta muraglia.

Delle prospettive parziali, che si concentrano solo su alcuni aspetti di un problema, rischiano facilmente di falsare le nostre percezioni, portandoci anche molto lontano dalla reale natura delle cose. Per questo ho tentato di esplorare i concetti di “coscienza” e “inconscio” in psicologia da più prospettive, evidenziandone differenze e similitudini, nella convinzione che l’integrazione di più punti di vista sia più utile del limitarsi a considerare unicamente quello specifico del proprio indirizzo – dinamico, cognitivo, od altro che sia – rischiando una visione troppo parziale che in quanto tale preclude la visione della bellezza “dell’elefante” nel suo insieme, oltre alla capacità di essere professionalmente realmente efficaci.

 

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