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I dolori del giovane Indie

La musica della nuova leva di cantautori racconta spesso storie di sofferenza e un bisogno di aiuto che non sempre è tuttavia facile da ascoltare.

Di Gaspare Palmieri

Pubblicato il 19 Lug. 2019

La musica può essere uno strumento utile per dare espressione a ciò che proviamo, soprattutto quando consente di dare sfogo ad emozioni dolorose. Un recente studio ha mostrato come addirittura il 73% dei musicisti indipendenti abbia sperimentato emozioni negative (stress, ansia, depressione) in relazione alla creazione musicale.

 

L’altro giorno al gruppo di musicoterapia che tengo settimanalmente con utenti ricoverati in una clinica di Bologna per disturbi del comportamento alimentare una ragazza ha chiesto di ascoltare il brano Petrolio del compianto rapper Cranio randagio, morto in circostanze poco chiare nel 2016. Si trovava a una cena a casa di amici e l’autopsia ha rilevato positività a alcol, cocaina e amfetamine. Una brutta perdita perché le canzoni che ci ha lasciato sono bellissime e Petrolio ha come cartello iniziale la scritta “Dedicato a chi, nonostante tutto non ha mai mollato”, presa dalle ragazze del gruppo come motto di speranza e fonte di coraggio per affrontare il lungo percorso terapeutico.

La storia raccontata con grande autenticità da Cranio randagio nella canzone è solo una delle tante storie di disagio personale e bisogno di riscatto attraverso la musica (spesso rap) della nuova leva di cantautori. Senza voler generalizzare, le narrazioni di questi ragazzi pullulano di frustrazioni nei confronti del mondo degli adulti che giudica e dà poca fiducia, bullismi e maltrattamenti, abuso di alcol o psicofarmaci, riscatto attraverso il successo musicale o economico.

La diffusione virale di molti di questi brani, che superano spesso i milioni di visualizzazioni, denota come i ragazzi si identifichino molto in questa narrazione, come se ci fosse qualcuno che finalmente li ascolti e riesca a dare voce ai loro disagi, proprio perché sono condizioni condivise e raccontate dai pari. Queste canzoni diventano una sorta di cassa di risonanza del disagio giovanile che coinvolge sia il pubblico che l’artista, tutti sulla stessa barca.

A questo riguardo, poche settimane fa è uscito uno studio molto interessante condotto dalla piattaforma di distribuzione musicale svedese Record union (potete leggerne di più qui) su un campione di 1500 musicisti, che ha mostrato come addirittura il 73% dei musicisti indipendenti abbia sperimentato emozioni negative (stress, ansia, depressione) in relazione alla creazione musicale. Sicuramente i dati dello studio vanno presi con le dovute cautele, visto che non si tratta di una rivista scientifica, ma l’analisi dei dati provenienti dal mondo reale può essere sicuramente interessante, tenendo ovviamente conto anche degli aspetti geografici (la Svezia non è l’Europa meridionale per tanti aspetti).

Lo studio di Record union: la sofferenza dei giovani cantanti

La fascia di età che più ha confermato un disagio è quella dai 18 ai 25 anni (80%), ma anche quella dai 26 ai 35 anni è ben rappresentata (76%), mentre dopo i 45 anni c’è un netto calo del disagio. Molto spesso il lavoro di musicista trova la sua massima incertezza nei primi anni di attività, mentre se una persona di cinquant’anni riesce ancora a campare di musica probabilmente ha fatto un lungo percorso alla fine del quale ha trovato una propria stabilità professionale.

I disturbi più rappresentati sono l’ansia e la depressione (intorno al 70% delle persone raccontano di averle sperimentate entrambe) mentre gli attacchi di panico sono stati dichiarati dal 33% dei partecipanti, un numero davvero molto alto e di gran lunga superiore agli studi sulla popolazione generale.

Tra le cause che i musicisti hanno identificato alla base dei propri disagi troviamo l’instabilità finanziaria e la paura del fallimento, complementare alla pressione per ottenere successo. La precarietà di questa condizione con poche sicurezze sicuramente può giustificare gli alti livelli di ansia dichiarati.

Meno della metà degli intervistati che dichiaravano la presenza di disagi ha chiesto un aiuto specialistico. Nella fascia tra 18-25 anni l’ha chiesto solo il 33%, mentre nella fascia 26-35 si è arrivati al 47%. Circa la metà delle persone sofferenti (51%) è ricorsa all’automedicazione con droghe, alcol o farmaci e questo è in linea con i contenuti di tante canzoni di cui parlavo in precedenza. Quest’ultimo dato è piuttosto preoccupante e porta a farsi delle domande sul perché i musicisti tentino di autocurarsi in questo modo: per vergogna o timore dello stigma? per motivi economici? per sfiducia negli “psi”? perché è più “rock and roll”?

Nonostante circa il 60% degli intervistati dichiarasse di preoccuparsi per la propria salute mentale (nel 40% dei casi addirittura più volte al giorno), gli artisti più giovani hanno mostrato maggiori difficoltà a parlare dei propri problemi psicologici e in generale a prendersi cura del proprio benessere psicologico mettendo in atto comportamenti salutari. Mano a mano che si sale con l’età il prendersi cura della propria salute mentale diventa più prioritario, ricercando comportamenti salutari come l’attività fisica, la meditazione, l’attenzione all’alimentazione, le pause dai social media e altri.

Circa la metà degli intervistati ha infine dichiarato che l’industria musicale non fa nulla per creare un clima più sano e sostenibile e da lì diversi discografici svedesi hanno iniziato a interrogarsi su cosa possa essere migliorato, per il bene della musica e dei musicisti.

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