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Psicoterapia della depressione: dai primi approcci psicoterapici agli attuali interventi

Dagli approcci di Campbell e Kraines alla MCT, diversi sono stati gli sviluppi della psicoterapia della depressione nel corso degli anni..

Di Marina Morgese, Redazione

Pubblicato il 21 Nov. 2018

La psicoterapia della depressione ha subito importanti cambiamenti nel corso degli anni. Oggi esistono diversi approcci terapeutici che aiutano i pazienti che soffrono di depressione a ritrovare il proprio benessere.

 

La terapia con antidepressivi è unicamente sintomatica, agisce cioè sui sintomi ed è necessaria quando la loro gravità inibisce la vita sociale, lavorativa e affettiva.

Intervenire solo con i farmaci però molte volte non basta: va ricordato infatti che le cause della depressione non sono soltanto di tipo biologico e che il disturbo può insorgere anche per motivi di natura psicosociale.

D’altro canto, in molti casi, proprio quando la gravità dei sintomi inibisce la vita sociale, relazionale e professionale dei pazienti, ricorrere alla sola psicoterapia potrebbe non rivelarsi una scelta sempre corretta: è bene, infatti, intervenire farmacologicamente sui sintomi, in modo da ridurne la gravità e iniziare così un percorso psicoterapico.

Farmaci e psicoterapia sono dunque alleati nel trattamento della depressione.

Psicoterapia della depressione: i primi approcci

Tra i primi approcci più strutturati per la cura della depressione, troviamo la proposta di Campbell (1953) per la terapia della malattia maniaco-depressiva, un intervento composto da una serie di passi, tra cui una corretta diagnosi, la spiegazione dei sintomi somatici al paziente, la riduzione (o eliminazione) dei fattori ambientali precipitanti o aggravanti, la psicoterapia, l’informare parenti e amici sui bisogni del paziente, il riposo e il rilassamento, la terapia occupazionale e la biblioterapia.

Sono stati successivamente descritti altri approcci per la cura della depressione, tra cui la proposta di Kraines (1957) avanzata in “Mental Depressions and Their Treatment” in cui sottolinea, come ha fatto anche Campbell, le basi biologiche della malattia maniaco-depressiva, ma considera la psicoterapia essenziale per abbreviare la malattia, alleviare la sofferenza del paziente e prevenire le complicanze.

Dall’ approccio di Kraines deriva la Psicoterapia supportiva: ai pazienti vengono date lunghe spiegazioni, sia sui fattori coinvolti nella depressione, sia sul decorso della malattia, e conclude gli interventi dicendo loro: “La cosa che devi ricordare è che questa stanchezza può e sarà superata. Avrai bisogno di pazienza e di desiderio di collaborare. Non sarà facile, ci vorrà tempo, ma tu recupererai (pagina 409)”. Dichiarazioni ottimistiche sul risultato, secondo Kraines, possono incoraggiare il paziente a diventare più attivo e a neutralizzare il suo pessimismo. Tuttavia i pazienti gravemente depressi possono vedere queste dichiarazioni con scetticismo e potrebbero non esserne influenzati. Un’altra tecnica che, secondo Kraines, è spesso utile nel contrastare la bassa autostima dei pazienti e la sensazione di non avere speranza è la discussione centrata sui loro successi, sulle loro realizzazioni. In questo modo il terapeuta, focalizzando la discussione sugli aspetti positivi, tende a evitare che i pazienti si soffermino sui propri fallimenti e sulle proprie esperienze invalidanti e traumatiche. Nell’ intervento di Kraines per la depressione, è sottolineata anche la necessità di apporre alcuni cambiamenti nelle attività dei pazienti: il terapeuta può sfruttare la relazione terapeutica per indurre il paziente a modificare la propria routine, suggerendo magari forme appropriate di attività ricreative, manuali o intellettuali.

In un successivo approccio, formulato da Arieti (1962), la depressione è vista come una reazione alla perdita e il paziente deve riorganizzare il suo pensiero “In diverse costellazioni che non provocano tristezza”. La depressione, secondo Arieti, cambia i processi mentali, apparentemente per diminuire la quantità di pensieri “al fine di diminuire la quantità di sofferenza.” Il terapeuta deve alterare l’ambiente, in particolare la relazione con l’altro dominante; alleviare il senso di colpa del paziente, il suo senso di responsabilità, la mancanza di realizzazione e il vissuto di perdita; e non consentire ai pensieri depressivi di espandersi aumentando la negatività dell’umore.

Molte delle strategie messe appunto nei primi approcci sono state incorporate nei trattamenti oggi più utilizzati nella psicoterapia della depressione (Beck, 2009).

Psicoanalisi e Psicoterapia psicoanalitica per la cura della depressione

La psicoanalisi e la psicoterapia psicoanalitica sono terapie a cui si ricorre spesso in caso di depressione: queste mirano soprattutto alla ricostruzione globale della personalità e sono più focalizzate alla risoluzione delle nevrosi infantili (Ursano et al., 1999).

Attraverso l’interazione diretta con il terapeuta, il paziente diventa attivo nella propria cura: entrambi sono coinvolti nella comprensione della malattia attraverso l’esplorazione delle radici intrapsichiche, familiari ed ambientali del disturbo. Il paziente fornisce al terapeuta il materiale da analizzare: racconti, sogni, narrazioni di eventi che informano sullo stato affettivo ed emozionale del paziente. Il terapeuta attraverso gli strumenti della tecnica analitica aiuta a venir fuori dal tunnel dell’isolamento, del dolore, della fatica di vivere, dell’insonnia e di ciò che man mano emerge di seduta in seduta. Fondamentale nel percorso analitico è la relazione, in particolare l’analisi dei processi di transfert e controtransfert che costituiscono una delle resistenze più importanti al cambiamento. Attraverso la comprensione empatica e l’ascolto non giudicante, gli interventi interpretativi, ricostruttivi, esplicativi, chiarificatori o di sostegno vengono effettutati in maniera non intrusiva, permettendo gradualmente al paziente di entrare in contatto con una modalità di trattamento nuova al fine di promuovere un modo di rapportarsi a se stesso ed alla malattia in maniera differente, più funzionale (Spagnolo, 2015).

La Psicoterapia Interpersonale della Depressione (IPT)

La Psicoterapia Interpersonale della Depressione (IPT), pur riconoscendo il ruolo di fattori genetici, biochimici e di personalità nel determinare l’insorgenza della depressione, pone in primo piano le relazioni interpersonali attuali del paziente depresso.

La IPT è una psicoterapia di durata limitata (12-20 settimane), che esamina la correlazione tra depressione e problematiche del paziente in ambito interpersonale: i problemi interpersonali possono rappresentare la causa del disturbo depressivo o essere da questo causati.

L’obiettivo iniziale della terapia è ridurre i sintomi depressivi ma lo scopo più generale è quello di migliorare la qualità delle relazioni interpersonali ed il funzionamento sociale del paziente. La tecnica attraverso cui definire l’area problematica primaria d’intervento è l’inventario interpersonale: una rassegna delle relazioni interpersonali, passate e presenti, importanti per il paziente. Secondo la IPT le problematiche interpersonali possono essere divise in 4 aree:

  • Contrasti interpersonali (contrasti con coniuge, famiglia, amici, ecc);
  • Transizioni di ruolo (trasloco, cambio di lavoro, gravidanza, pensionamento, ecc);
  • Lutto (morte di una persona cara)
  • Deficit interpersonali (solitudine, isolamento sociale).

Dopo aver valutato quale area è maggiormente correlata all’insorgere della depressione, ci si avvale di tecniche proprie di altre psicoterapie, tra cui quelle psicodinamiche, cognitivo-comportamentale e sistemico-relazionale. La IPT non si distingue quindi per le tecniche, ma per le strategie terapeutiche (Maggi L., 2016)

La psicoterapia cognitivo-comportamentale per la cura della depressione

Il più grande contributo alla psicoterapia della depressione in ambito cognitivo, lo si deve a Aaron T. Beck. Egli, lavorando con i pazienti depressi, scoprì l’esistenza di pensieri negativi che sembrano emergere spontaneamente. Beck ha definito queste cognizioni “pensieri automatici” e il loro contenuto è ascrivibile in tre categorie: idee negative su se stessi, sul mondo e sul futuro. Inoltre, se in età precoce si è esposti a eventi critici, è possibile che si possano instaurare credenze disfunzionali generate dai pensieri che, nel lungo periodo, diventano per l’appunto automatici. Queste credenze portano dunque a delle distorsioni cognitive che inducono sofferenza emotiva.

Sulla base di quanto sopra delineato, l’intervento psicoterapeutico rispetto al Disturbo Depressivo Maggiore si focalizza soprattutto sull’attenta valutazione e correzione delle cognizioni attraverso cui il soggetto costruisce l’interpretazione degli eventi passati, presenti o futuri e la valutazione di se stesso e della sua vita, aiutando la persona a individuare e modificare le convinzioni disfunzionali che contribuiscono a creare, mantenere ed esacerbare la sofferenza emotiva.

Per fare ciò, in terapia cognitiva, si ricorre al metodo dell’ABC di Ellis, attraverso cui, partendo da una situazione o un evento attivante (A), si può esaminare quale pensiero disfunzionale (B) abbia portato allo stato di sofferenza emotiva (C). Individuati i pensieri automatici disfunzionali, si passa alla messa in discussione degli stessi attraverso il dialogo socratico, una tecnica utilizzata all’interno della terapia cognitivo comportamentale, che consente di mettere in discussione le false credenze del paziente e i propri errori di pensiero, attraverso un approccio dialogico tra paziente e terapeuta, caratterizzato da domande e risposte che tendono a disconfermare quanto sostenuto fino a quel momento dal paziente stesso.

Lo scopo finale della terapia consiste nella ristrutturazione cognitiva, ovvero riuscire a modificare il modo in cui si interpretano e si valutano le situazioni. Quindi, si deve incoraggiare il paziente a modificare i pensieri automatici e le credenze disfunzionali per sostituirli con altri più realistici e adattivi.

In relazione a ciò, si rileva come la correzione delle valutazioni distorte relative a se stessi, alla propria vita o al proprio futuro conduce ad un graduale cambiamento sul piano emotivo e comportamentale.

Parallelamente all’aspetto cognitivo, nella psicoterapia cognitivo-comportamentale, si inserisce l’intervento terapeutico rispetto al comportamento quotidiano del paziente, attuando in maniera graduale specifici cambiamenti e procedendo in direzione inversa rispetto alla tendenza all’inattività e all’isolamento sociale indotta dal disturbo.

In tale direzione, il cambiamento dei comportamenti depressivi consente di giungere a cambiamenti cognitivi, ovvero sul piano dei pensieri, della visione di se stesso e delle proprie capacità, della propria vita attuale e del proprio futuro.

Depressione e Terapia Metacognitiva

La psicoterapia cognitivo-comportamentale negli anni si è evoluta e da essa sono derivati degli approcci terapeutici innovativi e di comprovata efficacia clinica. Tra questi va annoverata la Terapia Metacognitiva di Adrian Wells (MCT), terapia particolarmente efficace contro i disturbi d’ansia e la depressione.

Il modello metacognitivo prevede infatti che vi siano alcuni fattori che favoriscono lo sviluppo e il mantenimento dei sintomi depressivi. Questo è particolarmente rivelante se pensiamo alla quota di pazienti che presentano depressioni gravi e croniche, non rispondenti ai trattamenti farmacologici e/o alla combinazione di questi con la psicoterapia.

L’approccio metacognitivo riconosce un ruolo centrale al pensiero perseverativo nell’eziopatolgenesi della depressione (Wells e Matthews, 1994), e più nello specifico alla ruminazione. In questo quadro per ruminazione si intende una modalità di pensiero ripetitivo e passivo proprio riguardo i sintomi della depressione, le relative conseguenze e le possibili cause: in altre parole significa pensare continuamente al fatto che si è depressi, ai propri sintomi, nonché analizzare le cause, i significati e le conseguenze di tali sintomi depressivi (Nolen-Hoeksema 1991, p. 569). Vi sarebbero dunque una serie di conseguenze negative della ruminazione tra cui l’ulteriore decremento del tono dell’umore e aumento dei sintomi depressivi. Secondo il modello metacognitivo la ruminazione è mantenuta da un’insieme di credenze metacognitive maladattive (Wells e Matthews, 1994) che possono avere sia natura positiva per il paziente (“se riesco a trovare tutte le cause del mio malessere, allora posso trovare le soluzioni”, portando così il paziente a ruminare in misura via via maggiore), che negativa (“non ho il controllo su tutti questi pensieri”, quindi il paziente anche in questo sarà più portato a pensarci di più).

Dunque la complessa interdipendenza tra metacognizioni e ruminazione sarebbe un fattore determinante nella depressione.

Secondo la Terapia Metacognitiva, l’unico modo per smettere di rimuginare non è quello di affannarsi nel trovare soluzioni, ma raggiungere una posizione distaccata rispetto ai propri pensieri e ai propri eventi mentali. In questo caso, dunque, la soluzione consiste nel vedere la ruminazione come atto volontario che riduce le possibilità nell’individuo di operare scelte diverse.

Affinché però questa consapevolezza sia raggiunta bisogna intervenire sul livello metacognitivo appunto, che in quest’ottica non è altro che la capacità di raggiungere una posizione distaccata rispetto ai propri stati interni. La funzione metacognitiva si riduce così alla capacità di valutare i propri stati interni come eventi mentali, indipendentemente dal fatto che si riferiscano a idee su di sé, sugli altri o sul futuro (Caselli et al., 2017).

Secondo la Terapia MetaCognitiva (MCT), questa capacità non è frutto di una “rara dote” che solo alcuni individui posseggono, ma è una funzione che tutti hanno, ma che è spesso utilizzata solo su certi pensieri e non su altri. Obiettivo della terapia metacognitiva non è quindi sviluppare specifiche funzioni metacognitive, ma mostrare ai pazienti che questa capacità già appartiene loro e che, usandola normalmente su alcuni pensieri, si può imparare a utilizzarla anche in risposta ai pensieri per loro particolarmente disturbanti.

Tra gli strumenti maggiormente utilizzati nella terapia metacognitiva troviamo l’ Analisi Meta Cognitiva o AMC. Con essa si identifica un pensiero iniziale, una valutazione o una sensazione corporea (A) e le conseguenze emotive (C), per passare all’identificazione delle metacognizioni o credenze metacognitive disfunzionali (M). Rispetto al modello ABC della terapia cognitiva standard, con l’analisi dell’AMC è possibile identificare le metacognizioni implicite o esplicite con cui il paziente risponde a uno stimolo attivante interno. Con l’ AMC si individuano le metacognizioni (M) che sostengono la ruminazione.

Nella Terapia Metacognitiva, la sofferenza, dunque non è data da valutazioni errate che si effettuano sulla realtà, come avviene nella terapia cognitiva, ma da una valutazione errata sul meccanismo che regola l’attività mentale. Quindi, l’errore principale si effettua nel ritenere indispensabile rimuginare sui problemi e non riuscire a smettere di farlo. Queste strategie disadattive creano depressione e sofferenza emotiva.

I trattamenti efficaci nella cura della depressione

Data l’importanza e la gravità del disturbo, come abbiamo visto, diversi interventi psicoterapeutici sono stati sviluppati per il trattamento della depressione, tra cui approcci cognitivo-comportamentali, interpersonali e terapie psicodinamiche.

Mentre vi è un ampio consenso sul fatto che gli interventi psicoterapeutici siano benefici per i pazienti depressi, c’è un dibattito ancora in corso circa il diverso grado di efficacia dei vari orientamenti.

I risultati di precedenti meta-analisi appaiono abbastanza discordi: mentre in alcuni casi si è riscontrato il primato di efficacia della terapia cognitivo-comportamentale (Dobson, 1989; Gloaguen, Cottraux, Cucherat et al., 1998), ulteriori meta-analisi hanno stabilito come non vi sia alcuna differenza, in termini di efficacia, tra la CBT e altre forme di terapia, per es. la terapia psicodinamica breve (Leichsenring, 2001).

Per cercare di giungere a una risposta univoca, Barth e colleghi (2013), autori di una meta-analisi pubblicata pochi anni fa, hanno confrontato ben 198 studi sull’efficacia dei vari tipi di psicoterapia nel trattamento del disturbo, per un totale di 15118 pazienti adulti con diagnosi di depressione.

Per la meta-analisi in questione sono stati selezionati solo gli studi con un disegno randomizzato: trattasi di studi condotti su soggetti adulti con un disturbo depressivo, o con un’elevata presenza di sintomi depressivi, in cui sono stati confrontati due diversi approcci terapeutici tra loro o gli effetti di un intervento psicoterapeutico con una condizione di controllo (es. liste d’attesa o trattamenti placebo).

Sulla base di una precisa tassinomia, sono stati classificati sette tipi differenti di interventi terapeutici: terapia interpersonale, interventi di attivazione comportamentale, terapia cognitivo-comportamentale, terapia centrata sul problem solving, social skills training, terapia psicodinamica, e counselling di supporto.

Quale tra questi sia risultato più efficace, è difficile dirlo: dall’analisi dei dati è emerso che i vari tipi di intervento presentano effetti comparabili sui sintomi depressivi, e che tutti gli approcci terapeutici portano a un significativo miglioramento dei pazienti depressi, rispetto agli individui appartenenti ai gruppi di controllo.

Dovendo contrastare gli effetti degli studi di piccole dimensioni sull’intera meta-analisi, sono state condotte ulteriori analisi sulle ricerche di medie e grandi dimensioni. Dall’analisi dei dati sono così emersi effetti notevolmente positivi per la terapia cognitivo-comportamentale, la terapia interpersonale e la terapia centrata sul problem-solving, mentre gli effetti sono stati meno robusti per la terapia psicodinamica, il counselling di supporto, e gli interventi di attivazione comportamentale.

Sebbene la ricerca sia ancora lontana da conclusione univoca su quale psicoterapia sia più efficace nella cura della depressione, un importante risultato emerge tra le righe: gli interventi psicoterapeutici risultano essere più efficaci del “non curarsi”, questo sottolinea come sia necessario, per chi soffre di depressione, rivolgersi in modo tempestivo ad uno psicoterapeuta esperto, qualunque sia la sua formazione.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Campbell JD. (1953) Manic-Depressive Disease. Philadelphia, Lippincott
  • Kraines SH. (1957) Mental Depressions and Their Treatment. New York, Macmillan
  • Arieti S. (1962) The psychotherapeutic approach to depression. Amer. J. Psychother. 1962; 16:397–406.
  • Beck, A. T., Alford, B. A. (2009) Depression: Causes and Treatment. Second Edition. Philadelphia: University of Pennsylvania
  • Spagnolo, R. (2015). Depressione: il trattamento psicoanalitico [online] Available at: https://www.spiweb.it/come-curiamo/depressione-il-trattamento-psicoanalitico/ [Accessed 7 Aug. 2018].
  • Maggi, L. (2016) Psicoterapia Interpersonale della Depressione [online] Available at: http://www.psicoterapiainterpersonale.it/didattica/psicoterapia-interpersonale-della-depressione/ [Accessed 7 Aug. 2018].
  • Wells, A. & Matthews, G. (1994). Attention and Emotion. A Clinical Perspective. Hove, UK: Erlbaum.
  • Nolen-Hoeksema, S. (1991). Responses to depression and their effects on the duration of depressive episodes. Journal of Abnormal Psychology, 100, 569-582.
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  • Dobson KS (1989). A meta-analysis of the efficacy of cognitive therapy for depression. J Consult Clin Psychol, 57, 414–419.
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  • Leichsenring F. (2001). Comparative effects of short-term psychodynamic psychotherapy and cognitive-behavioral therapy in depression: a meta-analytic approach. Clin Psychol Rev, 21, 401–419.
  • Barth J., Munder T., Gerger H., Nuesch E., Trelle S., Znoj H., Juni P., Cuijpers P. (2013). Comparative efficacy of seven psychotherapeutic interventions for patients with depression: a network meta-analysis. PLOS Medicine, May 2013, 10 (5), e1001454
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