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La detached mindfulness: strategia anti-ruminazione

La Detached Mindfulness viene descritta come uno stato di coscienza dei propri eventi interni senza l'obbligo di valutarli, controllarli o reprimerli

Di Virginia Valentino

Pubblicato il 07 Set. 2017

Aggiornato il 29 Nov. 2017 10:25

Dico spesso ai miei pazienti con problemi di ruminazione che non dobbiamo fare un braccio di ferro con i pensieri, sembra semplice a dirsi ma è molto complicato da mettere in pratica. Ecco che allora è meglio guidare i pazienti verso esperimenti esperienziali con cui possano toccare con mano l’effetto.

La ruminazione, intesa come un’attività della mente che pensa e ripensa spesso alle stesse cose, è caratterizzata dalla pervasività e dalla insistenza. Un’esperienza del genere è difficile da interrompere ed è accompagnata da emozioni di ansia e irrequietezza e da un primo pensiero di partenza la catena si allunga fino a sviluppare dei pensieri che possono essere anche lontani da quello di partenza. A volte hanno la formula “se……allora” costringendo a trovare delle risposte.

La prima osservazione che i pazienti fanno è che proprio non riescono a smettere di ruminare e vanno alla ricerca del tempo e dello spazio opportuno per farlo. Un mio paziente mi disse che aveva comperato una poltrona apposta per mettersi lì a pensare e che aveva tutto un suo rituale per farlo: aspettava che tutti andavano a dormire, per poi prepararsi un tè e sedersi lì per ruminare. Godeva del senso di pienezza e trascorreva molto tempo senza che, ovviamente, se ne accorgesse.

Dare vita e adito al pensiero è un meccanismo di mantenimento che permette al pensiero di esserci con tutta la sua forza senza lasciare spazio ad un’attività cognitiva più razionale e funzionale.

Adrian Wells, con la sua terapia metacognitiva, ci insegna proprio quello da fare per far sì che la mente non ci faccia soccombere sotto questo suo meccanismo; io spesso dico ai miei pazienti che non dobbiamo fare un braccio di ferro con i pensieri, ma lasciare che essi ci siano, che occupino lo spazio mentale che devono per poi osservare che, così come sono arrivati, possano poi lasciarci.

Sembra semplice a dirsi ma è molto complicato da mettere in pratica.

Ecco che allora piuttosto che lasciare che questo resti un concetto astratto è meglio guidare i pazienti verso esperimenti esperienziali con cui possano toccare con mano l’effetto, altrimenti resta così aleatorio ed il paziente va via con l’idea di un qualcosa da fare…ma che non sa bene cosa sia.

Wells ne ha messi a punto diversi di esercizi, alcuni molto simpatici. Io li scelgo secondo le caratteristiche del paziente così è più probabile che riesca a farli anche da solo a casa. Quando si fanno provare in seduta, il terapeuta deve guidare il paziente e magari farlo insieme a lui: lavorare con la nostra mente come speriamo possano fare loro nello stesso momento; sembra che in questo modo la condivisione sia maggiore.

La terapia metacognitiva insegna che non è tanto il contenuto del pensiero che sembra rilevante quanto il modo in cui trattiamo i pensieri; in altri termini non è cosa pensiamo ma come lo facciamo perché quest’ultimo aspetto determina la tonalità emotiva ed il controllo che esercitiamo sulle nostre emozioni. Ecco perché la metacognizione si definisce come “il pensiero applicato al pensiero” (Wells A, 2012).

Applicazione della Detached Mindfulness

Senza entrare nel merito dei dettagli del modello messo appunto da Wells, che ha tanti punti e spunti di riflessione molto interessanti, descriviamo ora cosa si intende per Detached Mindfulness (DM) e come si applica.

La Detached Mindfulness (Wells e Matthews, 1994 ) lavora sul modo in cui ci relazioniamo alle nostre cognizioni rendendoci più flessibili da un punto di vista attentivo e cognitivo. Infatti essa viene descritta come uno stato di coscienza dei propri eventi interni senza sentirsi in obbligo di valutarli, controllarli o reprimerli, senza cioè mettere in atto alcun comportamento in particolare. In questo modo permettiamo al pensiero di occupare lo spazio mentale che deve con la consapevolezza che si tratta solo di un evento mentale. L’obiettivo ultimo, quindi, è cercare di sospendere i processi di rimuginio e ruminazione stando bene attenti dal non considerarla come un tecnica di evitamento né come un’altra strategia maladattiva di controllo (Wells, 2005b).

In questo senso si comprende come l’obiettivo non sia lavorare sul contenuto ma sul processo di relazione con il pensiero.

Nel manuale di Wells del 2012, Terapia metacognitiva dei disturbi di ansia e della depressione, vengono descritti 10 tecniche sulla base dei lavori precedenti, del 2005.

Tra di esse, ad esempio, ritroviamo la tecnica delle libere associazioni. A questa sono molto affezionata perché mi ricorda quando da piccola, durante i viaggi lunghi in macchina, costringevo i miei familiari a dire una parola che veniva in mente loro in seguito a quella precedentemente ascoltata. Ammetto che ogni tanto lo faccio ancora. Nel setting terapeutico chiediamo ai pazienti di osservare il fluire dei pensieri senza fare alcuno sforzo attivo, senza pensare a qualcosa in particolare. In questo modo bisogna solo osservare quello che accade nella propria mente, come un osservatore curioso. Il terapeuta elenca delle parole ed il paziente è istruito a vagare liberamente per ogni stimolo ascoltato. Non c’è nulla da controllare o analizzare. È bello anche apprezzare il fatto che alcune volte può non emergere nulla.

Guidiamo il paziente nell’esercizio e dopo commentiamo le sensazioni che derivano dall’osservare passivamente ciò che accade: secondo Wells, va bene tutto e non ci sono spiegazioni da cercare!!!

Un secondo esperimento è quello della metafora della nuvola. Di solito permetto per qualche minuto al paziente di osservare i pensieri della mente, per poi far sì che i pensieri stessi vengano considerati come nuvole che possono apparire anche nelle giornate più serene, e a volte persistono per molto tempo mentre altre vanno via veloci. Il messaggio che ci si porta a casa è che i pensieri, proprio come le nuvole, occupano lo spazio mentale che devono e poi, con i loro tempi, vanno via.

Un mio paziente ha creato la sua versione personale in cui invece di osservare la nuvola, osserva i palloncini: il figlio, a quanto pare, è un amante dei palloncini ad elio. Invece, una paziente con disturbo ossessivo compulsivo aveva frequenti pensieri di morte: dopo una decina di giorni di training, riusciva da sola a notare il pensiero dispettoso, quello che proprio non voleva lasciarla in pace, volare via come una nuvola. Dai suoi sorrisi, si vedeva il senso di libertà.

Vi sono altri esercizi, alcuni altrettanto interessanti come questi due; ognuno di essi va bene purché sia chiaro il messaggio che contengono. Apprezziamo e rinforziamo anche i piccoli risultati che i nostri pazienti ottengono: sappiamo bene che diventare osservatori di se stessi non è molto semplice oppure quanto può risultare noioso ripetere gli esercizi a casa da soli ma se sviluppiamo in loro un senso di autonomia e di motivazione i risultati non tarderanno ad arrivare.

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