Quest’articolo non ha la pretesa di essere esaustivo, ma di avvicinare coloro che lavorano in ambito psicologico e psicoterapeutico ad un tema molto importante. L’obiettivo è quello di diventare più consapevoli del fatto che i processi cognitivi ed affettivi le cui disfunzioni possono condurre in terapia, sono dotati di un substrato neurologico.
Daniela Beltrami – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena
La psicoterapia può essere definita come una pratica terapeutica della psicologia clinica che si occupa di disturbi psicopatologici. “Terapia cognitivo – comportamentale” si riferisce ad una terapia diretta a modificare i pensieri distorti, le emozioni disfunzionali e i comportamenti disadattivi del paziente, con lo scopo di facilitare la riduzione e l’eliminazione del disagio psicologico. È rivolta a tutto ciò che accade all’interno della mente (memoria, attenzione, ragionamento, ecc.) e alle risposte comportamentali dell’individuo.
Nonostante l’ampio dibattito sul concetto “mente” che ancora vanta una visione triplice (la mente indagabile senza riferimenti alla fisiologia cerebrale; la mente in quanto prodotto del cervello e dunque oggetto di indagine neurofisiologica; la mente come software dell’hardware cervello), è chiaro che una terapia rivolta ai processi cognitivi si dedica sostanzialmente al cervello.
Durante una lezione universitaria ricordo che un professore ci raccontò di un paziente che, dopo diversi mesi di terapia per una sintomatologia depressiva, ricevette una diagnosi di cancro al cervello. Nessuno aveva considerato il sintomo depressivo come spia di una problematica organica.
Quest’articolo non ha la pretesa di essere esaustivo, ma di avvicinare coloro che lavorano in ambito psicologico e psicoterapeutico ad un tema molto importante. L’obiettivo è quello di diventare più consapevoli del fatto che i processi cognitivi ed affettivi le cui disfunzioni possono condurre in terapia, sono dotati di un substrato neurologico.
Anatomia e funzioni del cervello
Il cervello è l’organo principale del sistema nervoso centrale. È contenuto nella scatola cranica e suddiviso in rombencefalo (bulbo, ponte e cervelletto), mesencefalo e prosencefalo (diencefalo: talamo e ipotalamo; telencefalo: emisferi cerebrali). I due emisferi sono separati in superficie dalla scissura interemisferica, mentre in profondità sono collegati dalle fibre del corpo calloso, che permette la comunicazione tra le due metà. Sebbene non esista una divisione funzionale netta nonostante la specializzazione delle varie strutture (grazie al ricco dialogo che intercorre tra le diverse aree), spesso ci si rivolge all’emisfero sinistro come alla sede dei processi deduttivi e a quello destro come al sito deputato all’intuizione (Jaoui, 2010).
Esploriamo rapidamente le funzioni di alcune delle strutture più importanti. Ciascun emisfero è suddiviso in quattro lobi (frontale, parietale, temporale, occipitale):
- Il lobo frontale (parte anteriore del cervello; aree corticale motoria e pre-motoria) è il luogo in cui sono elaborati i pensieri; esso partecipa ai processi di apprendimento, memoria e linguaggio;
- Il lobo parietale (parte superiore del cervello, area somestesica primaria, contenitore di stimoli tattili, dolorifici, pressori e termici) controlla la comprensione linguistica, la memoria verbale, le capacità matematiche e visuo-spaziali;
- Il lobo temporale (parte inferiore degli emisferi; area acustica) elabora affettività, memoria, reazioni e comportamenti istintivi, riconoscimento visivo e percezione uditiva; la parte sinistra è deputata alla comprensione linguistica e alla scelta delle parole, quella destra alla comprensione dell’intonazione del discorso e della sequenza di suoni; coinvolge anche il sistema limbico;
- Il lobo occipitale, situato posteriormente, è sede dell’integrazione di tutte le informazioni visive, comprese quelle che influenzano postura ed equilibrio.
Lesioni (funzionali o strutturali) o disfunzioni a carico anche solo di una piccola porzione dei lobi si possono ripercuotere ampiamente sul funzionamento cognitivo e/o affettivo.
Negli esseri umani la corteccia è la struttura predominante del cervello ed è sede delle funzioni superiori (Abrahams, 2010). Da essa provengono tutte le afferenze sensitive che sono percepite a livello cosciente e interpretate in base alle esperienze precedenti. Le informazioni provenienti dal mondo esterno sono accolte dalla porzione corticale posteriore tramite le aree sensitive primarie e sono immagazzinate e rese disponibili per il recupero grazie all’attività della fascia mediale (sistema limbico). La corteccia anteriore è molto importante, è deputata all’organizzazione del movimento (aree motorie primarie, supplementari e pre-motorie) e alla pianificazione del comportamento motorio complesso (area prefrontale).
L’area prefrontale è sede delle funzioni esecutive, che coordinano i processi di pianificazione e controllo (organizzazione delle azioni in base a mete e obiettivi, spostamento flessibile dell’attenzione, attivazione di strategie appropriate e inibizione di quelle meno adeguate, astrazione, regolazione delle emozioni, della motivazione e decision making, ecc.). In pazienti con disturbi psichiatrici (ad es. ADHD, schizofrenia e disturbo della condotta), lesioni traumatiche o disfunzioni delle aree prefrontali e dei circuiti cortico-sottocorticali associati, tali abilità possono essere compromesse. Inoltre, sembra che anche la sperimentazione di molteplici traumi psicologici, soprattutto se concentrati nei primi anni di vita, possa aumentare il rischio per lo sviluppo di disfunzioni esecutive, attentive, mnesiche (Bremner et al., 1995) e metacognitive (Myers & Wells, 2015).
Il sistema limbico è costituito da strutture che proiettano all’ipotalamo e alle vie afferenti che partono dalle aree corticali associative parietali e occipitali (funzione percettivo-spaziale) e presiedono al controllo dei movimenti finalizzati, dei comportamenti istintivi e a varie funzioni psichiche come emotività, comportamento, memoria a lungo termine e olfatto. Esso comprende amigdala, ippocampo (formazione delle tracce di memoria a lungo termine e orientamento spaziale tramite mappe cognitive), talamo e ipotalamo (controllo delle reazioni emozionali, di paura e dei ritmi circadiani), bulbo olfattivo (ricezione degli stimoli olfattivi) e fornice (formazione della memoria a lungo termine). L’amigdala riceve afferenze dalle aree temporali, frontali, limbiche (olfattive) e invia ad aree frontali, ippocampo, ipotalamo e troncoencefalo (funzioni vegetative e comportamenti specie-specifici); la somministrazione di alcune sostanze farmacologiche (ad es. benzodiazepine, oppioidi) attenua la risposta emotiva.
Plasticità
In un breve e divertente video di Smarter Every Day (riportato alla fine del testo), che vi consiglio vivamente di guardare prima di procedere nella lettura, emerge come sia difficile chiedere al nostro cervello di rispondere ad uno stimolo in modo completamente diverso dal solito (ovvero da come ha imparato a rispondere in base ad una serie di esperienze). Un giovane adulto si cimenta nella guida di una bicicletta nella quale è necessario girare il manubrio a destra per andare a sinistra e viceversa. Ogni giorno si allena con costanza e, dopo circa otto mesi di stimolazione ripetuta, “all’improvviso” riesce nell’impresa. Il figlio impiega soltanto due settimane.
Il cervello si modifica costantemente. È stato dimostrato (Paus, 2005a,b) che la densità di sostanza grigia non è legata soltanto ad aspetti ereditari, ma è influenzata dall’esperienza. I circuiti cerebrali cambiano in risposta a diversi fattori (sviluppo, lesioni, apprendimento e memoria; Squire & Kandel, 1999). La plasticità è il modo in cui gli individui creano e modificano le connessioni neurali in risposta alla propria esperienza (Dudai, 2002; Squire & Kandel, 1999); quando uno stimolo è ripetuto per un lungo periodo (da ore a giorni) ad alta frequenza, l’efficacia delle sinapsi aumenta (Dudai, 2002).
Esaminando l’ippocampo di alcuni aspiranti tassisti dopo un training specifico di circa tre anni, ad esempio, è stato recentemente evidenziato (Woollett et al., 2011) un maggior volume della porzione posteriore di tale struttura (deputata alla memoria e all’esplorazione visuo-spaziale) di coloro che avevano ottenuto la licenza. Imparare a memoria la mappa di una grande città produce cambiamenti strutturali nel cervello (Maguire et al., 2006)[3].
Da questi due esempi possiamo trarre alcune considerazioni: l’apprendimento è in grado di produrre cambiamenti strutturali anche nel cervello di individui adulti, sebbene quello dei bambini sia più malleabile e rapido nell’acquisire nuove informazioni; tali cambiamenti sono possibili in seguito ad un allenamento ripetuto e costante nel tempo.
Tramite l’interazione tra processi neurofisiologici cerebrali ed esperienze vissute, la plasticità consente alla mente di formarsi. Le esperienze vissute, di tipo ambientale e interpersonale (in particolar modo quelle precoci), sono fondamentali poiché influenzano il nostro modo di vedere e interpretare il mondo, modificando la struttura cerebrale.
Un’esperienza potrebbe essere emotivamente così forte da lasciare una cicatrice nel tessuto cerebrale
W. James, 1890
Tutto ciò che facciamo è il risultato di un apprendimento. Quando facciamo il caffè, guidiamo o reagiamo ad una situazione ridendo o piangendo, stiamo mettendo in atto un processo cognitivo che coinvolge il nostro sistema nervoso centrale il quale, una volta ricevute le informazioni provenienti dall’ambiente, le confronta con quanto già elaborato e le conserva tramite il processo di memorizzazione. Tutto ciò che apprendiamo lascia una traccia, anche quando non ce ne accorgiamo. Agli inizi del XX Claparède, un neuropsichiatra svizzero che era solito stringere la mano ai suoi pazienti, nascose uno spillo nella mano destra e si recò a salutare una paziente amnesica. La mattina successiva la paziente si rifiutò di stringergli la mano, nonostante non ricordasse alcunché (Fabbro, 1996, 1999).
La terapia non è solo una revisione della storia del paziente; è un metodo di insegnamento, un processo di integrazione,un insieme di principi per una organizzazione futura
Cozzolino, 2002
Come abbiamo accennato all’inizio dell’articolo, la terapia cognitivo – comportamentale si fonda sul presupposto che vi sia una stretta correlazione tra pensieri, emozioni e comportamenti, e che alla base dei disturbi vi siano credenze disfunzionali che si mantengono nel tempo, provocando sofferenza nel soggetto. Tali credenze sono difficili da modificare poiché si basano su meccanismi di mantenimento: grazie alla loro utilità hanno consolidato determinati “sentieri neuronali”.
Psicoterapia e plasticità
Riconoscendo e modificando i pensieri disfunzionali è possibile promuovere cambiamenti a livello emotivo e comportamentale. La psicoterapia stimola la costruzione di punti di vista alternativi, modi nuovi di pensare e di comportarsi, potenzia la capacità di problem solving, di auto-rappresentazione e di regolazione degli stati affettivi, stimolando le aree cerebrali sottostanti (corteccia prefrontale dorsolaterale, mediale e ventrolaterale, corteccia cingolata e insulare, precuneo, amigdala; Frewen et al., 2008). Partendo dal presupposto che le aree del cervello associate con emozioni e memoria sono dotate di grande plasticità (Davidson et al., 2000), possiamo sostenere che gli approcci terapeutici che si basano sullo stimolo di emozioni e memoria mirano direttamente al cambiamento neuronale (Davidson et al., 2000). Tutte le forme di terapia, indipendentemente dall’orientamento terapeutico, sono efficaci nel grado con cui stimolano la crescita e l’integrazione neurale (Cozzolino, 2002).
Dopo essere stata considerata per anni un trattamento “per problemi d’origine psicologica”, con l’avvento delle nuove tecniche di neuroimaging (SPECT, PET, fMRI, ecc.) (Gabbard, 2000), la psicoterapia è ora vista come un trattamento biologico, una terapia del cervello che produce cambiamenti strutturali riscontrabili nel cervello, esattamente come accade per l’apprendimento (Kandel, 2013).
Sembra che la relazione terapeutica sia il predittore più affidabile di cambiamento in psicoterapia (Lambert, 1992; McCabe & Priebe, 2004); più è connotata da fiducia, condivisione e accettazione, più efficace sarà l’intervento (Horvath et al., 2011). Le connessioni interpersonali possono stimolare lo sviluppo dei circuiti cerebrali corticolimbici e orbitofrontali (associati a regolazione emotiva e attivazione corporea; Schore, 2003), tanto da promuovere la terapia a nuova relazione di attaccamento, in grado di migliorare la regolazione emotiva (Siegel, 1999) e ristrutturare la memoria implicita attaccamento-correlata (Amini et al., 1996; Gabbard, 2000). Tale memoria, che contiene le informazioni ottenute dalle interazioni corporee ed emozionali, e riguarda le azioni automatiche e le modalità di comportamento non verbale, ha come substrato neurologico gangli basali, cervelletto e amigdala (Kendel, 1999).
Il terapeuta è dunque chiamato ad accompagnare il paziente nel lungo viaggio del cambiamento, guardandolo cadere dalla bicicletta, aiutandolo a risalire sui pedali, rassicurandolo e ripetendosi con pazienza ed accoglienza, affinché i circuiti neuronali possano modificarsi.
Oltre all’efficacia terapeutica, le relazioni di cura nell’età adulta possono elicitare risposte fisiologiche dalla modificazione del ritmo circadiano al recupero da una malattia (Hofer & Sullivan, 2001).
Senza l’emozione non c’è conoscenza. Possiamo essere consapevoli di qualcosa, ma finché non abbiamo sentito la sua forza, non è nostra
Bennett, 1897
Il ruolo delle emozioni
Come abbiamo appena visto, l’emozione è un concetto centrale dal punto di vista terapeutico e neuropsicologico. Essa può essere definita come una risposta del corpo necessaria e funzionale alla sopravvivenza che deriva dalle strutture più antiche del nostro cervello (LeDoux, 1997), un “processo attraverso cui il cervello determina o computa il valore di uno stimolo” (LeDoux, 2002).
Secondo la teoria di Cannon-Bard (Cannon, 1920; Scachter & Singer, 1962), lo stimolo emotigeno viene inizialmente elaborato dai centri sottocorticali del sistema limbico: l’amigdala riceve l’informazione dai nuclei posteriori del talamo e provoca una prima reazione finalizzata a mettere in allerta l’organismo (aumento o diminuzione della sudorazione e delle pulsazioni cardiache, accelerazione del ritmo respiratorio, ecc.). Contemporaneamente lo stimolo è inviato dal talamo alle cortecce associative, ed è sottoposto ad una elaborazione più lenta e raffinata che porta ad una risposta appropriata all’ambiente.
La gestione emotiva è un punto centrale nel percorso terapeutico. Sembra che etichettare le emozioni negative, ad esempio, produca una maggior attivazione della corteccia prefrontale e una diminuzione dell’attività del sistema limbico e dello stress emotivo (Hariri, Bookheimer, & Mazziotta, 2000; Lieberman, Hariri, Jarcho, Eisenberger, & Bookheimer, 2005); esplorarne il significato può agire sui processi di decision making e modificare i comportamenti maladattivi.
Uno degli effetti più conosciuti delle emozioni negative è l’esposizione elevata ai glucocorticoidi (McEwan et al., 1995). In bassa concentrazione essi aumentano la memoria; in elevata e prolungata concentrazione danneggiano le cellule dell’ippocampo (Sapolsky, 1998). Inoltre, stress ed emozioni negative incidono negativamente sul sistema immunitario (Goleman, 2011; Friedman & Boothby-Kewley, 1987).
Lesioni cerebrali possono comportare disturbi nel riconoscimento e nell’espressione emotiva. I pazienti che hanno subito lesioni frontali (situazione frequente negli incidenti automobilistici), ad esempio, mostrano condizioni eterogenee verosimilmente legate alla specifica area compromessa. In alcuni casi emergono condotte emozionali e sociali non appropriate (es. disinibizione, utilizzo di espressioni colorite, ecc.), in altri casi apatia, abulia, mancanza di spontaneità, incapacità di pianificazione ed espressioni mimiche povere o instabilità ed egocentrismo.
Immaginiamoci la seguente situazione: un paziente con sindrome ansioso-depressiva che ha recentemente avuto un piccolo incidente senza perdita di coscienza o amnesia, con esami neurologici e neuroradiologici negativi, arriva al colloquio. Secondo la compagna “è cambiato, è più irritabile, risponde male ed è spesso depresso”. Prima di procedere con la terapia, è opportuno ricordare che esiste una sindrome denominata “soggettiva post-traumatica”, caratterizzata da una serie di sintomi cognitivi, affettivi e comportamentali che conseguono ad un trauma cranico lieve e persistono nel tempo: irritabilità, ansia, depressione, modificazione della personalità, affaticabilità, disturbi del sonno, della libido o dell’appetito, disturbi mnesici o attentivi.
Nel valutare l’atteggiamento del paziente in terapia, è necessario escludere che vi siano compromissioni dal punto di vista neuropsicologico. Una ridotta capacità di riconoscere o identificarsi con i sentimenti e le necessità altrui, un atteggiamento irriverente, irrispettoso, provocatorio, ad esempio, possono essere sintomi di un disturbo di personalità, come di una disfunzione frontale.
Anche la personalità può modificarsi in seguito a lesioni cerebrali. Nel 1848 un’esplosione accidentale fece schizzare in aria il ferro da pigiatura che Phineas Gage, capocantiere, stava utilizzando. Il ferro attraversò la parte anteriore del suo cranio, provocando un grave trauma cranico che interessò i lobi frontali del cervello. Egli sopravvisse miracolosamente all’incidente: dopo alcuni minuti era in grado di parlare e in circa tre settimane poteva alzarsi dal letto e uscire autonomamente. Era però profondamente cambiato, al punto che gli amici non lo riconoscevano più: burbero, in preda ad alti e bassi, incline alla blasfemia, in continua ricerca di nuovi progetti che poi abbandonava per altri apparentemente più fattibili.
L’immaginazione
Prima di concludere facciamo un piccolo accenno al potente tema dell’immaginazione. Essa è la capacità di vedere oggetti che non possono essere percepiti in un particolare momento (Kosslyn et al., 2001). La cosa interessante è che sembra che i processi immaginativi utilizzino gli stessi substrati neurali di quelli percettivi (Kreiman, et al. 2000): immaginare un animale feroce è come vedere un animale feroce. Per questo motivo, alcune tecniche immaginative sono utilizzate in terapia per il trattamento di condizioni patologiche quali il dolore, la paura, le fobie o l’ansia. Immaginare una realtà diversa permette di formulare e sperimentare alternative al proprio modo di pensare. Un giovane che ritiene di “parlare con un muro” quando tenta l’approccio con i genitori, può immaginare di arrampicarsi, sdraiarsi o disegnare su quel muro (Kopp, 1995) invece di volerlo distruggere con rabbia e delusione.
Non è necessario essere una stanza o una casa per essere stregata. Il cervello ha corridoi che vanno oltre gli spazi materiali
(E. Dickinson)
GUARDA IL VIDEO SULLA PLASTICITA’ NEURALE DI SMARTER EVERY DAY: