Denominare le emozioni, soprattutto quelle negative, è un’operazione che spesso si utilizza in terapia per aiutare il paziente a chiarire come si sente o come si è sentito in determinate situazioni, quali sono le emozioni che più frequentemente fa fatica a gestire e così via.
Denominare le emozioni: introduzione
Come dire: il primo passo per imparare a maneggiare qualcosa è avere ben chiaro di cosa stiamo parlando, e capita spesso che persone con difficoltà nella gestione emotiva partano proprio da una generale fatica a identificare la sintomatologia somatica e non solo che si lega a una specifica etichetta (perché se il cuore va veloce, sudiamo e iperventiliamo possiamo ragionevolmente dire di essere in ansia), così come a distinguere una “configurazione” di sintomi dall’altra (perché magari se legato a batticuore, iperventilazione e sudorazione c’è un pensiero di ingiustizia subita, più che in ansia potremmo essere arrabbiati).
D’altro canto, l’insegnamento delle etichette verbali che identificano emozioni diverse è quello che si fa anche con i bambini, quando da piccolini li aiutiamo a distinguere la rabbia dalla tristezza, e così via.
Ma se siamo certi che il processo di identificazione e “etichettamento” dell’emozione sia utile e benefico, finora non è stato molto chiaro come funzionasse questo meccanismo. Recenti studi di neuroimmagine hanno approfondito proprio questo aspetto. Sembra che denominare gli aspetti emotivi di un’immagine mostrata ai soggetti produca una minore attivazione dell’amigdala rispetto alla sola percezione degli stessi aspetti (Hariri, Bookheimer, & Mazziotta, 2000; Lieberman, Hariri, Jarcho, Eisenberger, & Bookheimer, 2005). In pratica, se mostro a una persona una foto di un volto emotivamente connotato e le chiedo di scegliere l’etichetta verbale che meglio descrive quell’ emozione, la sua amigdala si attiva meno rispetto alla sola osservazione passiva del volto. Visto che l’amigdala è quella parte del cervello che si attiva quando ci emozioniamo, se la verbalizzazione diminuisce l’attivazione dell’amigdala, diminuisce anche la percezione soggettiva di stress emotivo.
Denominare le emozioni: lo studio
Un gruppo di ricercatori ha recentemente approfondito questa ipotesi, utilizzando la risonanza magnetica funzionale, che permette di osservare le parti del cervello che si attivano sotto determinate stimolazioni ambientali (Lieberman, Eisenberger, Crockett, Tom, Pfeifer, Way, 2007). Lo studio ha coinvolto 30 persone, sottoposte tutte a sei differenti compiti:
1. Scegliere tra due etichette l’emozione che rappresentava un viso mostrato in foto;
2. Scegliere tra due volti con due emozioni differenti quello che meglio si appaiava con un terzo volto mostrato, cioè quello che esprimeva la stessa emozione;
3. Osservare un volto con un’espressione emotiva;
4. Scegliere l’etichetta di genere (“maschio” o “femmina”) relativa a un volto mostrato;
5. Scegliere tra due volti con due generi differenti quello che si appaiava con un terzo volto mostrato, cioè quello che rappresentava lo stesso sesso;
6. Scegliere tra due forme geometriche differenti quella che si appaiava con una terza forma mostrata, cioè quella che rappresentava la stessa geometria.
I risultati dello studio
I risultati hanno mostrato che non c’erano differenze di genere nell’attivazione dell’amigdala osservando il volto con espressione emotiva. In pratica, uomini e donne hanno avuto lo stesso grado di attivazione cerebrale se messe davanti a un volto emotivamente carico.
In secondo luogo, i 5 compiti che richiedevano di avere a che fare con emozioni espresse da volti umani attivavano l’amigdala in un modo significativamente maggiore, rispetto al compito che includeva figure geometriche.
Poi, la condizione in cui veniva richiesto di denominare le emozioni dipinte dal volto (la condizione 1 nel nostro elenco), quella in cui si doveva scegliere l’etichetta che la descriveva meglio tra due etichette proposte, era quella in cui l’amigdala mostrava una minore attivazione rispetto alle altre 5 condizioni proposte.
Inoltre, denominare le emozioni riduceva l’attivazione dell’amigdala, ma etichettare il sesso del volto non faceva altrettanto, il che ha circoscritto l’effetto riscontrato a temi pertinenti le emozioni, e non al semplice compito di accoppiare un’immagine a un’etichetta verbale.
Infine, le immagini hanno mostrato che dare un nome all’emozione portava a una diminuzione dell’attività dell’amigdala aumentando contemporaneamente l’attività di altre due aree cerebrali: la corteccia prefrontale ventrolaterale destra e la corteccia prefrontale mediale. In questo senso, è stato chiarito il percorso che porterebbe dall’etichettamento verbale a una minore attivazione emotiva.
Considerazioni
I risultati dello studio quindi confermano quanto rilevato da precedenti ricerche, mostrando come etichettare le emozioni negative consenta di limitare la risposta del sistema limbico che si attiverebbe in presenza di immagini emotive negative.
E cosa ci facciamo di questo dato? Come possiamo sfruttarlo per stare meglio? Qualcosa in effetti forse è già stato fatto, anche se non collegandolo direttamente a quanto riscontrato dal presente studio.
Il reappraisal è una tecnica con cui le persone ridefiniscono il significato di un evento cambiando il suo impatto e la sua valenza emotiva (Gross, 1998). Diversi studi hanno mostrato come il reappraisal porti alle stesse conseguenze che abbiamo visto per l’etichettamento delle emozioni, cioè a una maggiore attivazione della corteccia prefrontale e a una diminuzione dell’attività del sistema limbico e dello stress emotivo (Ochsner & Gross, 2005). È quindi possibile che il reappraisal e il processo per cui si fornisce un nome a un’emozione si poggino sulle stesse basi neurali e seguano lo stesso percorso per portare a una diminuzione dell’attività dell’amigdala e di conseguenza a una minore attivazione emotiva. Questo rimane senza dubbio un punto che richiede ulteriori approfondimenti, così come sarebbe interessante vedere cosa succede se lo stesso compito di attribuzione verbale viene sollecitato davanti a emozioni positive.