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Ancora su mindfulness e cannocchiale rovesciato

Continua lo scambio di opinioni sulla mindfulness: l’intento è riflettere su componenti che danno cambiamento e che tipo di cambiamento in una cornice CBT.

Di Redazione

Pubblicato il 24 Giu. 2015

Claudia Perdighe, Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC Roma

 

Rispondo con piacere ad Andrea Bassaninini sul tema mindufness e accettazione e al suo articolo: Mindfulness: stato mentale o funzione della mente? .

Premetto che quanto da me scritto in: Accettazione e mindfulness: guardare le cose dal lato sbagliato del cannocchiale è sempre una buona soluzione? voleva essere uno spunto di riflessione (magari sbagliato) sulla minduflness, non una critica alla mindfulness. Più che altro ho posto domande, non ho offerto risposte. L’intento era provare a riflettere su come e quali componenti producono cambiamento e che tipo di cambiamento in una cornice CBT; quindi non contro, ma pro un uso strategico, specifico della mindfulness (versus Terapie Uniche).

 

Primo punto. Seguendo il suo commento, partirei dal tema decentramento e mindfulness. Bassanini scrive: Ma nell’esperienza della pratica non c’è distanziamento! E poi distanziamento da cosa?

Non entro nel merito della presenza o meno di vissuti di distanziamento o decentramento nell’esperienza soggettiva di mindfulness. Il decentramento, definito come capacità di guardare alle proprie esperienze interne (pensieri, sensazioni, emozioni) come a eventi transitori (che non richiedono una reazione) e non come dati di realtà (Fresco, Moore, et al. 2007), però, mi sembra un aspetto niente affatto alieno alla mindufulness.

Se nella terapia cognitiva di seconda generazione, il decentramento dai contenuti mentali è stato considerato un importante processo di cambiamento, ma solo come facilitatore del vero cambiamento, quello dei contenuti mentali (Hollon e Beck, 1979), nelle terapie di terza generazione il decentramento (e tutti i processi sovrapponibili o che lo favoriscono) diventa scopo e strumento centrale di cambiamento: il cuore di questi interventi non è più la modificazione dei contenuti mentali, ma il cambiamento di atteggiamento verso questi contenuti (Teasdale et al., 2002; Carmody et. al., 2009; Suer e Baer, 2010).

Diversi autori suggeriscono che la pratica mindfulness è un modo per apprendere la capacità di decentramento (Shapiro et al., 2006; Teasdale et al., 2002) e che decentramento e mindfulness siano costrutti altamente sovrapponibili (Carmody e et al., 2009). In questo senso nelle terapie basate sulla mindfulness, il decentramento è promosso in modo diretto e intenzionale.

Il punto, quindi, non è se c’è distanziamento e decentramento dagli stati interni, ma se l’addestramento massiccio al decentramento possa avere, soprattutto se non calibrato sul singolo paziente, anche effetti indesiderati (come guardare dal lato sbagliato del cannocchiale). È una domanda, un dubbio, non una risposta.

 

Secondo punto. Andrea è in disaccordo sulla definizione di accettazione come processo di disinivestimento dagli scopi compromessi o minacciati, che a me sembra quella sottostante alla mindfulness.

Alcune osservazioni:

  • un conto è la descrizione dello stato soggettivo di accettazione, altra cosa è provare a chiedersi se parliamo sempre dello stesso stato mentale quando parliamo di accettazione;
  • in linea con quanto sostenuto in altre sedi (Mancini e Perdighe, 2011), credo che in alcune forme di accettazione il focus sia sulla valutazione dell’esperienza soggettiva, sul problema secondario in termini cognitivisti, e che ci sia il rischio di una rinuncia al cambiamento dello stato del mondo (in coerenza con quanto sostenuto sopra sul decentramento);
  • non ho niente da eccepire sulla definizione di Hayes di accettazione tanto più che, come ho scritto, la rinuncia al cambiamento non è vera per l’ACT, che secondo me ha tra i suoi aspetti qualificanti proprio l’enfasi sui valori (scopi terminali) e sull’impegno fattivo su questi.

 

Terzo punto. Andrea Bassanini scrive Accostare gli stoici e Abhidharma (la psicologia buddhista, per come viene considerato in Occidente) mi lascia un senso di inquietudine e di ingiustizia che provo a trasformare in parole...

Intanto, per solidarietà con gli stoici, mi inquieto anche io! Non volevo offendere mindfulness e Oriente con le mie riflessioni e, comunque, non considero un’offesa l’accostamento a una parte (non omogenea e non riducibile all’indifferenza alle emozioni) cosi importante del pensiero occidentale.

Dire che stoicimo e filosofie orientali sono molto diversi, comunque, non nega possibili similitudini in qualche aspetto. L’accostamento nasceva, poste differenze enormi tra loro e all’interno delle stesse, dal fatto che entrambe hanno il focus dell’accettazione nell’atteggiamento verso la reazione soggettiva a un evento (e, infatti, sono efficacissime sulla riduzione dei problemi secondari).

Quarto punto. Riguardo alla questione Cosa rende la mindfulness terapia?

Il tema che volevo sollevare era proprio: cosa qualifica un intervento come psicoterapia piuttosto che come addestramento a qualcosa che fa bene? La mindfulness nella maggior parte dei casi è applicata da terapeuti, per cui non credo sia esentata dal porsi il problema del razionale dell’intervento. E, infatti, la TCBM (terapia cognitiva basata sulla mindfulness di Teasdeale e coll.), offre un razionale molto chiaro per l’uso della mindfulness nei depressi. Il punto è se il razionale è sempre così chiaro nelle diverse applicazioni. Se e dove la mindfulness si ponesse al di sopra di queste questioni, non capirei più in che senso debbano essere i terapeuti e non maestri e istruttori ad applicarla.

 

Quinto punto. Riguardo allo stato mentale promosso dalla mindfulness

Andrea mi sembra che dica: la mindfulness è soprattutto processo (addestramento a) e non mi occupo, come terapeuta o istruttore mindfulness, di che tipo di stato mentale ne risulti ne dei valori sottostanti.

Le soluzioni che proponiamo alla sofferenza, io credo, contengono sempre inevitabilmente anche aspetti valoriali (oltre che teorie). Non credo sia evitabile.

Magari sbagliando, ma la vera questione che sollevavo è che mi sembra che, se mal applicata, la mindfulness contenga il rischio di inibire il cambiamento e l’investimento su valori o scopi nel potere della persona. A questo proposito, ho sempre trovato curioso il fatto che le pratiche di meditazione, tra cui la mindfulness, vadano tanto per la maggiore tra manager americani (addirittura, parte della formazione in alcune scuole per manager) e in generale tra categorie professionali sottoposte ad altissimi livelli di stress (come testimonia tra i tanti l’articolo su State of Mind di Fiabane e coll.). Sicuramente aiutano a sopportare meglio lo stress, ma il dubbio è: se per sopportare certe condizioni lavorative bisogna imparare a sopportare di più lo stress, quando possibile non sarebbe meglio sottrarsi alla situazione invece che imparare a tollerare meglio il disagio connesso?

 

La mindfulness è un arricchimento per la psicoterapia cognitivo-comportamentale? Vero. È del tutto chiaro come funziona e gli stati mentali implicati? Meno vero.

Se applicata all’interno di un contesto psicoterapico, credo sia legittimo interrogarsi su che stati mentali promuove, magari anche in relazione alle varie forme applicate. Del resto, come suggerisce Hayes, flessibilità è anche non essere troppo fusi con i processi che promuovono la flessibilità.

 

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