Empatia: un’abilità fondamentale per la vita sociale
Il termine empatia deriva dal greco en-pathos (sentire dentro) e si riferisce alla capacità di condividere e comprendere gli stati emotivi, i pensieri e i sentimenti altrui come se fossero i propri (Davis, 1980). Questa capacità di “mettersi nei panni degli altri” svolge un ruolo cruciale nel comportamento sociale umano, consentendoci di rispondere in modo adeguato alle diverse situazioni sociali (Ferguson & Wimmer, 2023; Stietz et al., 2019), ed è costituita da due componenti primarie, una affettiva e una cognitiva. L’empatia affettiva può essere definita come la capacità di comprendere e condividere lo stato emotivo di un’altra persona, permettendoci di provare compassione; mentre l’empatia cognitiva implica la valutazione e la comprensione della prospettiva mentale altrui, coinvolgendo i processi di perspective-taking e le abilità di Teoria della Mente (Beadle & de la Vega, 2019).
Gli studi condotti sulla componente affettiva dell’empatia sembrano evidenziare che essa emerge inizialmente nella prima infanzia (Decety, 2010) e continua a svilupparsi durante l’adolescenza (Kim et al., 2020), per poi stabilizzarsi o crescere ulteriormente nel corso dell’età adulta (Sun et al., 2018). Tuttavia, la maggior parte di questi studi si è basata su misure comportamentali e ha esaminato i cambiamenti nei livelli di empatia in un’unica fascia d’età, o ha confrontato tali cambiamenti tra due sole fasce d’età, rendendo più difficile affermare con sicurezza quale sia la traiettoria seguita dall’empatia affettiva lungo l’arco di vita. Per questo motivo, il gruppo di ricerca di Heather Ferguson – ricercatrice e professoressa presso la University of Kent – ha recentemente condotto uno studio volto a esplorare come cambiano le risposte empatiche in un’ampia fascia d’età, utilizzando sia misure comportamentali che neurali (Ferguson et al., 2024).
Lo studio di Ferguson et al. (2024)
Lo studio ha coinvolto un totale di 240 partecipanti di età compresa tra i 10 e gli 80 anni, suddivisi in tre fasce d’età: adolescenti (10-19 anni), giovani adulti (20-40 anni) e adulti più anziani (60-80 anni). I partecipanti hanno osservato una serie di fotografie che ritraevano mani o piedi in situazioni fisicamente dolorose (ad esempio, un piede che calpesta delle puntine) o non dolorose (ad esempio, un piede sfiorato da un batuffolo di cotone), e situazioni socialmente dolorose (ad esempio, una mano posata su una bara) o non dolorose (ad esempio, una mano appoggiata su un tavolo). L’empatia affettiva è stata misurata attraverso una misurazione self-report, chiedendo ai partecipanti di valutare il livello di dolore provato dalla persona nell’immagine su una scala da 0 (nessun dolore) a 100 (il peggior dolore possibile), ma anche attraverso una misurazione più “oggettiva”. Nel corso dell’esperimento, infatti, i partecipanti sono stati sottoposti a un elettroencefalogramma (EEG), un esame che permette di misurare l’attività elettrica del cervello attraverso l’applicazione di una serie di elettrodi sullo scalpo. In particolare, i ricercatori hanno analizzato la desincronizzazione del ritmo mu, che sembra essere un buon indicatore dell’empatia affettiva: infatti, empatizzare con qualcuno a causa di un dolore o di un evento spiacevole che sta vivendo crea una attivazione nelle aree sensomotorie e premotorie del cervello, attivazione che a sua volta sopprime il ritmo mu (Fabi & Leuthold, 2017; Woodruff et al., 2011).
I risultati dello studio sull’empatia
Dai risultati è emerso che i partecipanti hanno mostrato una desincronizzazione del ritmo mu più elevata in risposta alle fotografie che ritraevano situazioni fisicamente e socialmente dolorose (rispetto a quelle non dolorose), confermando la validità di questo indice per valutare l’attivazione empatica dei soggetti. I dati hanno inoltre evidenziato che l’effetto della visione di situazioni dolorose sulla desincronizzazione del ritmo mu è aumentato in modo lineare dall’adolescenza all’età adulta avanzata, avvalorando l’ipotesi secondo cui le reti cerebrali legate all’empatia si sviluppano dall’infanzia all’adolescenza, per poi rimanere stabili o svilupparsi ulteriormente nel corso dell’età adulta (Beadle & de la Vega, 2019): il fatto che gli adulti più anziani mostrino livelli più elevati di empatia affettiva potrebbe essere spiegato dalla loro maggiore esperienza nei contesti sociali, legata inevitabilmente a una maggiore esposizione a scenari di vita dolorosi, la quale rafforzerebbe la loro capacità di condividere esperienze e sentimenti altrui (De Lillo & Ferguson, 2023).
Relativamente alla misurazione dell’empatia attraverso le valutazioni soggettive del livello di dolore immaginato, in linea generale le situazioni fisicamente dolorose sono state valutate come più dolorose rispetto alle situazioni socialmente dolorose. È però interessante osservare che, mentre le risposte alle situazioni fisicamente dolorose si sono dimostrate stabili nelle diverse fasce d’età, le risposte alle situazioni socialmente dolorose hanno mostrato un picco nei giovani adulti: in altre parole, i giovani adulti sembrano essere particolarmente sensibili agli eventi socialmente dolorosi, rispetto ad adolescenti e adulti più anziani. Questo potrebbe essere dovuto alla particolare traiettoria di sviluppo dei comportamenti prosociali: la prosocialità sembra infatti diminuire durante l’adolescenza – tra i 13 e i 17 anni – per poi aumentare nuovamente una volta raggiunta l’età adulta (Carlo et al., 2007; Matsumoto et al., 2016), evocando una sensibilità più elevata al proprio ambiente sociale durante tale periodo di vita (Peper & Dahl, 2013).
Nel complesso, i risultati dello studio di Ferguson et al. (2024) contribuiscono a una comprensione più completa di come l’empatia affettiva opera in contesti e fasce d’età differenti, evidenziando la complessa interazione tra attivazione neurale, elaborazione emotiva e sviluppo socio-cognitivo. Tuttavia, come spesso accade, vi sono alcune limitazioni che è importante considerare al fine di orientare la ricerca futura. In particolare, le immagini utilizzate per suscitare empatia nei partecipanti presentano una scarsa validità ecologica, in quanto i segnali ambientali in esse presenti per poter contestualizzare gli eventi dolorosi sono alquanto limitati. Questo è particolarmente rilevante per il dolore sociale, che tipicamente può essere osservato e compreso all’interno di un contesto ricco di segnali e dettagli, molti dei quali vengono manifestati nel corso di un’interazione con l’altra persona. I risultati ottenuti nei setting controllati di laboratorio, dunque, potrebbero non essere rappresentativi dei processi che si attivano nei contesti “reali”, in quanto la possibilità di interagire con altri gioca un ruolo fondamentale nel modulare la propria sensibilità alle prospettive altrui (Surtees et al., 2016). Un obiettivo interessante per la ricerca futura sull’empatia potrebbe essere quindi quello di ideare compiti più ecologicamente validi, al fine di valutare le risposte empatiche in scenari più “realistici”.