Il gap tra l’esordio di un disturbo e l’inizio del trattamento
Nell’ambito della salute mentale intercettare precocemente i segnali di disagio risulta essenziale affinché si abbia un rapido accesso alle cure, migliori esiti terapeutici, un più veloce ripristino della condizione di benessere per la persona, evitando lo spettro della cronicizzazione di un disturbo psichico.
Come vedremo, i dati messi a disposizione dalle ricerche scientifiche lo evidenziano in relazione a diversi quadri clinici.
Anzitutto, quando parliamo di prevenzione, screening, diagnosi precoce e trattamento tempestivo dobbiamo tenere a mente un semplice concetto: l’intervallo di tempo che intercorre tra il primo episodio in cui esordisce un disturbo e l’inizio del trattamento (che viene definito “Durata della malattia non trattata “) (Dell’Osso & Altamura, 2010).
Secondo gli studi, quanto più si accorcia tale intervallo, tanto maggiore sarà la probabilità di remissione del disturbo a seguito di una terapia adeguata; in termini più tecnici, migliora significativamente la prognosi. D’altro canto, se l’intervallo che intercorre tra l’emergere dei sintomi e l’inizio di un trattamento efficace si allunga, e dunque trascorre molto tempo (es. mesi per non parlare di anni!) allora si assisterà a una maggiore gravità dei sintomi, un peggiore funzionamento della persona nella vita quotidiana, un rischio di cronicizzazione e traiettorie prognostiche decisamente più sfavorevoli.
Questo concetto è stato originariamente sviluppato e ormai è ampiamente riconosciuto nella ricerca e nel lavoro clinico sulle psicosi; in seguito, è stato progressivamente esteso anche ad altre patologie psichiche, tra cui ad esempio i disturbi dell’umore e i disturbi d’ansia (Altamura et al., 2007; Ghio et al., 2014).
Il gap temporale tra esordio del disturbo e inizio di un adeguato trattamento rappresenta dunque un indicatore prognostico cruciale in diversi quadri clinici.
L’intervento precoce nella depressione
Nel caso della depressione, le ricerche evidenziano una prognosi più positiva e favorevole se vi è un ridotto lasso di tempo tra l’insorgenza di un episodio depressivo (sia esso il primo in assoluto o un episodio successivo/ricorrente) e l’avvio di una terapia adeguata.
Ad esempio, secondo una ricerca (de Diego-Adeliño et al., 2010), un gap temporale (tra inizio dell’episodio e inizio del trattamento) minore di 8 settimane era associato a una probabilità 2,6 volte maggiore di ottenere una buona risposta al trattamento e in modo più rapido (i sintomi migliorano più rapidamente, quasi dimezzando i tempi) rispetto a chi accedeva tardivamente alle cure.
Quindi, i dati di questo studio scientifico ci dicono che chi inizia un percorso di psicoterapia entro 8 settimane dalla manifestazione dei primi sintomi ha una probabilità di quasi tre volte maggiore di rispondere meglio al trattamento rispetto a chi aspetta oltre le 8 settimane.
Una meta-analisi di Ghio e colleghi (Ghio et al., 2014) ha anch’essa rilevato, dai dati aggregati di diversi studi, l’effetto significativamente positivo di una durata più breve del “disturbo non trattato” sulla remissione dei sintomi depressivi e sul ripristino di una condizione di benessere.
Si conferma dunque l’importanza di ridurre il ritardo nell’accesso alle cure per prevenire il rischio di esiti peggiori e di cronicizzazione della depressione (già di per sè disturbo particolarmente esposto al rischio di ricadute).
Inoltre, altre ricerche dimostrano l’efficacia della tempestività dell’intervento in modo particolarmente marcato nei primi episodi depressivi in assoluto, suggerendo che l’esordio del disturbo sin dal primo episodio rappresenta una finestra d’azione critica per ottimizzare il percorso prognostico nel medio e lungo termine (de Diego-Adeliño et al., 2010; Altamura et al., 2008; Rhebergen et al., 2010).
I ritardi e persino l’assenza del trattamento degli episodi depressivi aumentano la sofferenza del paziente, il peggioramento del suo funzionamento nella vita quotidiana, il rischio di recidive (Ghio et al., 2015; Hung et al., 2017).
Quindi, riconoscere i primi segnali – attraverso ad esempio campagne di prevenzione – e intervenire precocemente, trattando efficacemente il primo episodio depressivo significa non solo potenziare gli esiti positivi e la rapidità della terapia, ma anche prevenire le ricadute e di conseguenza, la necessità di trattamenti ripetuti nel tempo.
L’intervento precoce nell’ansia
Logiche simili si ritrovano anche considerando i disturbi d’ansia. Prendiamo ad esempio, il disturbo d’ansia generalizzato: la ricerca di Altamura e colleghi (Altamura et al., 2008) che si è focalizzata proprio sull’efficacia del trattamento farmacologico di questa condizione clinica ha dimostrato che se l’ingaggio in un trattamento farmacologico adeguato è inferiore a 12 mesi, si avranno probabilità significativamente maggiori di ottenere miglioramenti clinici rispetto a terapie incominciate più tardivamente. Viceversa, all’aumentare dell’arco di tempo che intercorre tra la manifestazione dei sintomi di ansia generalizzata e il trattamento farmacologico, il decorso clinico peggiorerà.
Disturbo ossessivo-compulsivo: il primato del ritardo diagnostico
Il drammatico primato nel ritardo diagnostico e nell’accesso alle cure sembrerebbe verificarsi in relazione al disturbo ossessivo-compulsivo, rispetto ad esempio ad altri disturbi quali schizofrenia o disturbo bipolare.
Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è caratterizzato da ossessioni ricorrenti e/o compulsioni messe in atto per ridurre l’ansia e il disagio. Nonostante sia una condizione relativamente comune, rappresenta uno dei disturbi psichiatrici con maggiore ritardo diagnostico documentato in letteratura.
Secondo una review che ha analizzato diverse ricerche sul tema (Perris et al, 2023), la durata media del disturbo ossessivo-compulsivo non trattato si attesta tra i 7 anni e i 20 anni a seconda degli studi considerati (Poyraz, et al., 2015; Jakubovski, et al., 2013).
In altre parole, molto spesso trascorrono, non mesi, bensì addirittura anni tra il momento in cui il paziente inizia ad avere i sintomi ossessivo-compulsivi a quando accede ai trattamenti; inoltre, alcuni studi evidenziano che se la terapia ha inizio dopo due anni dall’esordio dei primi sintomi del disturbo, si osserva una risposta più lenta ai trattamenti evidence-based e la prognosi tende a peggiorare (Dell’Osso et al., 2010).
Diagnosi, intervento precoce e numero di sedute
Come abbiamo visto, dunque, le evidenze scientifiche ci dicono che l’intervallo di tempo che intercorre tra l’esordio del disturbo e l’inizio del trattamento è fondamentale per gli esiti clinici: maggiore sarà questo intervallo, maggiore sarà il rischio di cronicizzazione (Altamura et al., 2008; Ghio et al., 2014).
Ad oggi le linee guida e la letteratura indicano inoltre che la durata del trattamento psicoterapeutico varia significativamente in base alla severità e alla cronicità del disturbo.
Prendiamo come esempio la depressione: trattare una depressione cronica richiederebbe trattamenti più lunghi, la letteratura parla di almeno 18 sedute necessarie a registrare i primi miglioramenti clinicamente significativi. Nel caso della depressione acuta, il numero di sedute necessarie scende a un range compreso tra le 6 e le 12 sedute (Cuijpers et al., 2010).
Se dunque le ricerche confermano che un intervento tempestivo può aiutare a prevenire la cronicizzazione, sarebbe clinicamente fondata l’inferenza che un intervento tempestivo potrebbe ridurre la durata complessiva del trattamento.