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L’uso di animali robotici nella terza età – Psicologia Digitale

Dalla compagnia al supporto emotivo, come gli animali robotici arricchiscono la relazione di cura con gli anziani?

Di Chiara Cilardo

Pubblicato il 04 Lug. 2025

Robot emozionali: il ruolo degli animali artificiali nella cura degli anziani

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 74) L’uso di animali robotici nella terza età 

In una stanza di una casa di cura, una donna di 87 anni tiene in braccio un gatto arancione. Lo accarezza lentamente, mentre gli parla a bassa voce. Il gatto chiude gli occhi, si muove appena, emette un suono. Non è vivo, anche se sembra. Si chiama Muffin, dice lei. Muffin è un robot.
Scene come questa stanno diventando sempre più comuni nelle strutture per anziani, dove animali robotici come Muffin vengono utilizzati nel sostegno alle persone anziane o affette da demenza o Alzheimer. Nati per portare conforto nei momenti di solitudine, oggi questi dispositivi stanno assumendo un ruolo più articolato: mediatori relazionali, facilitatori della comunicazione, presenze che si inseriscono nei vuoti lasciati dalla perdita di memoria o dalle difficoltà cognitive (Yang et al., 2025).
Se da un lato studi recenti documentano benefici sul benessere emotivo e sulla qualità della relazione, dall’altro restano aperti diversi interrogativi: in quali contesti funzionano davvero? Quanto dura l’effetto? E fino a che punto possiamo parlare di relazione quando l’altro è una macchina?

Cosa sono gli animali robotici?

Gli animali robotici sono dispositivi che simulano l’aspetto, i movimenti e i comportamenti degli animali domestici. A differenza dei robot assistivi, che supportano nelle attività quotidiane come spostare oggetti o ricordare di assumere un farmaco, hanno una funzione di supporto sociale ed emotivo.
Uno dei modelli più conosciuti è Paro, simile a una foca, programmato per reagire al tocco, al suono, alla luce e persino al tono della voce. Grazie al suo aspetto morbido e rassicurante viene impiegato in diversi contesti clinici con risultati incoraggianti: riduzione dell’ansia, miglioramento dell’umore e maggiore apertura relazionale (Ruiz-Figueroa et al., 2025).
A fianco di dispositivi sofisticati come Paro, si sono diffusi modelli più economici e accessibili come i Joy for All pets, gatti e cani robotici che si muovono, emettono suoni, simulano la respirazione o chiudono gli occhi. Non dispongono di un’intelligenza artificiale evoluta, eppure la loro efficacia non sembra dipendere dalla sofisticazione tecnica quanto dal contesto in cui vengono utilizzati. Infatti, non è sufficiente il dispositivo in sé: è fondamentale che l’introduzione avvenga all’interno di un ambiente strutturato, con operatori formati e presenti, capaci di accompagnare l’interazione. Quando il robot viene integrato in una routine condivisa, supportato da spiegazioni coerenti e da un’attenta osservazione delle reazioni dell’anziano, è più probabile che l’esperienza risulti significativa e generi effetti positivi (Miles et al., 2024). 

Effetti osservati e dinamiche relazionali nei contesti di cura

Secondo un’indagine del New York State Office for the Aging circa il 70% degli anziani che hanno ricevuto un animale robotico ha riportato miglioramento nell’umore, nel sonno e nel benessere generale. Familiari e operatori confermano un aumento della partecipazione alle attività quotidiane, una maggiore stabilità emotiva e una riduzione dell’ansia (Cimons, 2024). In particolare, nelle persone con demenza l’interazione con questi dispositivi stimola la comunicazione verbale e può contribuire a ridurre stati di agitazione o confusione (Ruiz-Figueroa et al., 2025).
Ma l’aspetto più interessante riguarda ciò che questi dispositivi riescono ad attivare nella relazione. Gli animali robotici spesso diventano un punto di contatto tra chi è immerso nella nebbia della malattia e chi gli sta accanto. Possono facilitare l’avvio di una comunicazione e incoraggiare momenti di contatto relazionale, contribuendo a mantenere un canale di interazione anche nei casi in cui la capacità di esprimersi verbalmente è compromessa (Miles et al., 2024). I risultati migliori si osservano quando l’interazione è personalizzata, costruita attorno alla storia e alle preferenze dell’anziano, e integrata in una piccola ritualità quotidiana. Un ruolo centrale è svolto dalla formazione dello staff: sapere quando introdurre il robot, con quali utenti, come presentarlo e come accompagnare o concludere l’attività può fare la differenza. In alcuni casi, ad esempio, gli operatori tengono in braccio il dispositivo come fosse un animale reale, lo attivano in modo visibile e lo mostrano con gesti lenti e prevedibili, così da suscitare curiosità senza generare confusione. Ancora, l’implementazione è più efficace quando supportata a livello organizzativo: è importante definire ruoli chiari per chi gestisce i dispositivi, individuare figure di riferimento all’interno delle strutture e prevedere fondi e risorse dedicate. Questi elementi, nel complesso, riducono il rischio che i robot vengano abbandonati, mal utilizzati o percepiti come una forzatura (Yang et al., 2025).

Limiti, criticità e scenari futuri: una riflessione necessaria

Perché gli animali robotici funzionano? Non fanno solo compagnia; assolvono a bisogni profondi come la connessione, la continuità narrativa e l’espressione emotiva. Nella maggior parte dei casi, le persone sanno che non si tratta di un essere vivente e questo non impedisce la nascita di un legame affettivo. Ma anche nelle fasi avanzate della demenza, alcuni attribuiscono al robot intenzionalità o ricordi, dando forma a relazioni che non sono né ingenue né passive, ma pienamente integrate nell’esperienza soggettiva (Cimons, 2024).
Ci sono però dei limiti. La maggior parte delle ricerche si concentra sul breve periodo: cosa accade nel lungo termine, quando l’entusiasmo iniziale svanisce o il robot viene rimosso? Inoltre, l’efficacia dipende anche dal contesto relazionale e dalla preparazione degli operatori: senza una mediazione adeguata, il rischio è che il dispositivo venga usato come surrogato di presenza anziché come strumento per facilitare la relazione (Miles et al., 2024). C’è poi il nodo economico: modelli avanzati come Paro comportano costi elevati, mentre quelli più accessibili sono meno personalizzabili. In un sistema sanitario già sotto pressione, ogni scelta richiede una valutazione attenta del valore aggiunto reale (Fernandes et al., 2025).
Infine, resta aperta una questione etica più ampia: è giusto offrire un oggetto che simula un essere vivente a una persona che potrebbe non distinguerlo da un animale vero? Secondo Miles et al. (2024), la risposta dipende dal contesto, dalla trasparenza dell’intervento e dalla qualità della relazione. In un approccio che mette al centro la persona, non importa che il robot sia reale: importa che reale sia ciò che fa sentire. Se il gatto robotico Muffin riesce a placare l’ansia, a evocare un ricordo felice, a stimolare una carezza, forse non importa se non ha un cuore che batte. Quel che conta è ciò che riesce a risvegliare in chi lo tiene tra le braccia.

Riferimenti Bibliografici
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