Introduzione all’afantasia: Un mondo senza immagini mentali
L’afantasia è una condizione cognitiva che comporta l’incapacità o una forte difficoltà nel visualizzare immagini mentali. Per chi ha familiarità con questo fenomeno, concetti come “vedere con l’occhio della mente” risultano privi di significato, poiché nella loro mente non compaiono rappresentazioni visive. In altre parole, mentre la maggior parte delle persone può chiudere gli occhi e immaginare la forma di una mela o il volto di un amico, coloro che “hanno” l’afantasia tendono a vedere solo il buio. Questa singolare condizione rappresenta uno degli aspetti più particolari e meno compresi della percezione umana (Saplakoglu, 2024).
Nonostante la sua apparente rarità, l’afantasia non è un concetto nuovo. La prima descrizione risale a oltre 140 anni fa, quando il filosofo britannico Sir Francis Galton condusse uno studio sull’immaginazione mentale (Galton, 1880). Galton scoprì che alcune persone erano incapaci di richiamare immagini mentali e riportò il fenomeno, pur non riuscendo a comprenderlo a fondo. Solo nel 2003 il neurologo Adam Zeman, dell’Università di Edimburgo ed Exeter, iniziò a esplorare in modo approfondito l’afantasia, quando un paziente si rivolse a lui per una “perdita” improvvisa di immagini mentali dopo un intervento al cuore (Zeman et al., 2010). Questo caso suscitò l’interesse scientifico verso la condizione e portò Zeman, nel 2015, a coniare il termine “afantasia”, ispirato dalla parola greca phantasia, che significa “immaginazione” (Zeman et al., 2015).
La scoperta dell’afantasia ha acceso la curiosità non solo di scienziati, ma anche di artisti, filosofi e persone comuni, spingendoli a riflettere sulle proprie esperienze mentali. Oggi, la ricerca sull’afantasia non è solo volta a comprendere il perché alcune persone non possano generare immagini mentali, ma anche a esplorare cosa questo ci possa insegnare sulla natura della mente e sulla grande varietà dell’esperienza umana.
Le ricerche sull’afantasia: cosa è stato scoperto?
Le ricerche scientifiche sull’afantasia hanno fornito risultati significativi che chiarificano la comprensione di questa peculiarità cognitiva. Inizialmente, gli strumenti di misura si sono basati su testimonianze auto-riferite, come il Vividness of Visual Imagery Questionnaire (Marks, 1973), ma ciò ha sollevato dubbi sull’effettiva esistenza della condizione. Per affrontare queste incertezze, sono stati implementati approcci più oggettivi. Ad esempio, gli studi condotti da Rebecca Keogh e Joel Pearson, ricercatori presso l’Università del Nuovo Galles del Sud, si sono serviti di alcuni test — progettati dal loro gruppo di ricerca, uno per esplorare la capacità della mente di trattenere un’immagine visiva, e un altro per misurare risposte di sudorazione e pupillari a immagini mentali — per confermare l’esistenza dell’afantasia. I risultati hanno mostrato che non solo l’afantasia sembra effettivamente esistere come modalità di percezione, ma che gli individui stessi con afantasia riportano esperienze diverse riguardo alle immagini mentali, suggerendo alcune differenze individuali all’interno del fenomeno stesso (Saplakoglu, 2024).
Cornelia McCormick, neuroscienziata a capo di un gruppo di ricerca sulla memoria e l’immaginazione presso l’Università di Bonn – si è domandata se l’afantasia possa influire sulla capacità delle persone di ricordare la propria vita, in quanto le immagini mentali sono strettamente legate alla memoria. Per scoprirlo, ha sottoposto un campione di soggetti con e senza afantasia a risonanza magnetica funzionale (una tecnica che viene utilizzata per rilevare quali aree cerebrali si attivano durante l’esecuzione di un compito), mentre veniva chiesto loro di rievocare dei ricordi personali. I risultati hanno evidenziato che gli individui afantasici tendono effettivamente ad avere una memoria autobiografica più debole, così come una ridotta attività nell’ippocampo, un’area cerebrale coinvolta nella codifica e nel recupero dei ricordi. Sorprendentemente, è emerso anche che i soggetti con afantasia presentano un’attività più intensa nella corteccia visiva (Monzel et al., 2024). Un numero crescente di studi, inoltre, ha osservato come gli individui afantasici mostrino un’attività nella corteccia visiva mentre provano ad immaginare qualcosa: in realtà – ha sottolineato Adam Zeman – essi sanno come sono le immagini mentali, in quanto tendono a vederle quando sognano, ma è come se non riuscissero ad accedervi volontariamente. Un possibile meccanismo che possa spiegare tale difficoltà è stato evidenziato da un suo studio del 2021, dal quale è emerso che le persone con afantasia, quando sono a riposo, presentano connessioni più deboli tra i centri di controllo di livello superiore del cervello (in particolare, la corteccia prefrontale) e la corteccia visiva (Milton et al., 2021).
L’estremo di uno spettro, non un’anormalità
Gli studi condotti finora sull’afantasia hanno indagato questa condizione un po’ come se fosse un fenomeno “monolitico”, suddividendo i campioni di ricerca in “soggetti con afantasia” e “soggetti senza afantasia”, ma in realtà le persone che sperimentano questa condizione riportano una vasta gamma di esperienze diverse tra loro. Alcune possono “sentire” nella loro mente, mentre altre non riescono ad accedere né a immagini né a suoni mentali; alcune hanno flash involontari di immagini mentali; molte ma non tutte sognano per immagini: sarebbe quindi interessante per i ricercatori che si occupano di questa condizione esplorare anche le varie modalità in cui si può presentare.
L’afantasia, inoltre, sembra rappresentare l’estremo di uno spettro dell’esperienza immaginativa, al cui opposto si trova l’iperfantasia, un fenomeno per cui le persone riescono a vedere immagini mentali tanto vivide da sembrare reali (fenomeno distinto dalle allucinazioni visive, in quanto gli individui che presentano tale condizione sono ben consapevoli del fatto che le loro immagini mentali non sono reali, anche se lo sembrano). Nonostante la ricerca sull’afantasia e sull’iperfantasia sia ancora agli albori, gli studiosi sono concordi nell’affermare che queste condizioni non sono disturbi, ma semplici varianti nel modo di percepire la propria realtà interiore: le persone che ne sono “affette”, infatti, non hanno particolari problemi a orientarsi nel mondo. Anzi, l’afantasia potrebbe presentare dei vantaggi inaspettati, fungendo da fattore protettivo nei confronti di quelle problematiche di salute mentale caratterizzate da immagini mentali particolarmente vivide (Saplakoglu, 2024).