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La psicologia del numero zero

Molti matematici considerano l’invenzione dello zero come una delle più grandi conquiste: ma in che modo viene percepito dal nostro cervello?

Di Silvia Bettoni, Silvia Carrara, Martina Gori, Giulia Onida

Pubblicato il 17 Dic. 2024

La storia dello zero: un numero complicato

Prima che lo zero diventasse un numero, diverse culture hanno inventato dei simboli “segnaposto” che rappresentassero tale concetto: i primi a farlo furono i babilonesi nel 400 a.C., utilizzando due cunei obliqui tra le altre cifre per distinguere numeri come 50, 500 e 5000. Centinaia di anni dopo, nell’India del VII secolo d.C., lo zero (originariamente chiamato sunya, ovvero “vuoto” in sanscrito) assunse un valore e fu collocato prima dell’1 sulla linea dei numeri. Successivamente esso approdò in Medio Oriente e in Nord Africa, dove il matematico Leonardo Fibonacci lo apprese per poi portarlo nell’Europa medievale, insieme al sistema numerico indo-arabo. Inizialmente, il nuovo sistema introdotto da Fibonacci stentò ad essere accettato, in quanto la capacità dello zero di rappresentare “il nulla” sfidava idee teologiche e filosofiche molto radicate. Tuttavia, presto i mercanti compresero l’utilità dello zero per gli affari, e nel XV secolo il suo utilizzo si era affermato in ambito commerciale e matematico in tutta Europa (Saplakoglu, 2024).

Pur essendo fondamentale per la matematica moderna, lo zero resta un numero complesso e affascinante. Basti pensare al suo funzionamento nei calcoli: non si può dividere un numero per zero, un numero non nullo alla potenza di zero dà uno, e via dicendo. Andreas Nieder – ricercatore presso l’Università di Tübingen, che da anni studia come il cervello umano e animale codifica i numeri – sospetta che, se lo zero è stato così speciale nella storia dell’uomo e della matematica, probabilmente anche il cervello lo elabora in modo speciale. Egli ha ipotizzato che lo zero si sia evoluto da rappresentazioni più basilari dell’assenza percettiva: inizialmente, il cervello ha dovuto comprendere l’assenza di uno stimolo, riconoscendo quindi il “nulla” come una categoria (categoria che rappresenta “tutto ciò che non è qualcosa”), trasformando infine questo “nulla” in un concetto quantitativo (Nieder, 2016).

Gli studi di Barnett e Nieder: le prime ricerche su come il cervello umano codifica lo zero

Nonostante la familiarità con cui utilizziamo lo zero nelle operazioni matematiche, la sua elaborazione all’interno del cervello umano è rimasta sconosciuta fino a tempi recenti. Negli ultimi anni, due studi indipendenti — condotti rispettivamente dai neuroscienziati Benjy Barnett, dell’University College di Londra, e Andreas Nieder, già citato, e dai loro colleghi — hanno iniziato a chiarire come il nostro cervello codifica questo concetto. In particolare, entrambe le ricerche si sono concentrate sulla “linea numerica mentale” con l’obiettivo di comprendere se lo zero venisse rappresentato nella mente umana come gli altri numeri.

Barnett ha reclutato 24 partecipanti, sottoponendoli ad alcuni test mentre venivano monitorati da una macchina per la magnetoencefalografia (MEG) (Barnett & Fleming, 2024); Nieder ha condotto esperimenti simili con l’aiuto di pazienti epilettici sottoposti a monitoraggio cerebrale, studiando come i singoli neuroni reagivano alla presentazione dello zero (Kutter et al., 2024). I risultati di entrambi gli studi indicano che lo zero, pur rappresentando un’assenza, è codificato e collocato sulla linea numerica allo stesso modo delle quantità positive e negative, mostrandosi quindi “simile” agli altri numeri. Entrambi i ricercatori hanno dunque concluso che, per la mente umana, lo zero può essere considerato “al pari degli altri numeri”. Tuttavia, ulteriori osservazioni di Nieder hanno messo in luce che la rappresentazione dello zero nel cervello potrebbe essere più complessa di quanto sembri.

L’osservazione di Nieder: lo zero corrisponde a una rappresentazione neurale unica?

I risultati di Nieder e collaboratori (Kutter et al., 2024) suggeriscono che, nonostante la somiglianza agli altri numeri nella rappresentazione, lo zero potrebbe essere percepito come un numero “speciale” dal cervello. Studiando l’attività dei singoli neuroni, Nieder ha osservato che un numero di neuroni insolitamente alto rispondeva alla rappresentazione dello zero, più che a quella di altri numeri piccoli come l’uno o il due. Questo alto numero di neuroni specifici per lo zero suggerisce che il cervello potrebbe considerarlo come un concetto “distinto” dagli altri numeri, codificandolo con maggiore precisione rispetto alle altre piccole quantità.

Al contrario, Barnett (Barnett & Fleming, 2024) non ha riscontrato nessuna distinzione tra il modo in cui il cervello processa lo zero e gli altri numeri. Secondo Brian Butterworth, anch’egli neuroscienziato cognitivo all’University College di Londra, la differenza riscontrata potrebbe essere dovuta al fatto che le due ricerche si siano concentrate su diverse aree cerebrali: Barnett ha esaminato l’intero cervello con particolare attenzione alla corteccia parietale, un’area considerata centrale nell’elaborazione dei numeri, mentre Nieder si è concentrato su specifici neuroni nel lobo temporale mediale, coinvolti perlopiù nel processo della memoria (Saplakoglu, 2024). 

Come abbiamo visto, gli studi di Barnett e Nieder sono stati i primi a esplorare come il nostro cervello elabora lo zero: i due ricercatori sono infatti concordi nell’affermare che quest’ambito di indagine è appena agli albori, sottolineando la necessità di studi futuri per giungere a delle conoscenze più certe. Mentre Nieder aspira a proseguire le sue ricerche nel campo delle neuroscienze dei numeri, Barnett desidera focalizzarsi maggiormente sul concetto di assenza. Se egli riuscirà a individuare delle somiglianze nel modo in cui la mente rappresenta lo zero e l’assenza, potrebbe porre delle basi empiriche a supporto della teoria di Nieder, validando l’ipotesi secondo cui lo zero si sarebbe evoluto dalla capacità di percepire il “nulla” come una forma di “qualcosa”.  

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