Il primo Rapporto Mondiale sulla salute dei rifugiati e dei migranti, lanciato lo scorso luglio dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, parte dall’analisi di numeri quasi raddoppiati rispetto a dieci anni fa, con 281 milioni di persone in movimento nel solo 2020.
La salute mentale di migranti e rifugiati
Il 10 ottobre si è celebrata la Giornata Mondiale della Salute Mentale. Quest’anno il tema generale è stato: “Rendere la salute mentale e il benessere una priorità globale per tutti”.
Il Parlamento Europeo, a tal proposito, ha focalizzato l’attenzione su migranti e rifugiati, la cui salute mentale viene spesso trascurata o tralasciata. In realtà, il viaggio che si è costretti a intraprendere, l’insediamento in un paese straniero e l’integrazione con una cultura sconosciuta, mettono a rischio prima di tutto la stabilità psichica di donne e uomini che, già segnati da esperienze difficili quali guerre, sfollamenti forzati e rotte migratorie durissime, possono non essere in grado di gestire la portata di emozioni che questo comporta.
La mappatura delle politiche a favore della salute mentale dei migranti pubblicata a luglio 2022 dall’European Migration Network, mette in luce le sfide per gli Stati membri in merito all’accesso ai servizi primari da parte di chi è straniero. Se sulla carta il diritto alla cura è lo stesso messo a disposizione dei cittadini europei, nella realtà dei fatti migranti e rifugiati si trovano di fronte a ulteriori, e non di rado insormontabili, difficoltà, quali le barriere linguistiche, la mancanza di informazioni, la difficoltà di accesso ai servizi integrati, i costi elevati e le lunghe liste di attesa, la mancanza di consapevolezza e fiducia, gli svantaggi socio-economici. Dunque, l’integrazione dei migranti passa dallo sviluppo di politiche e strategie che pongano attenzione anche alla formazione del personale addetto, affinché possa avere competenze specifiche per sostenere e aiutare chi parla una lingua diversa e ha radici culturali lontane.
Quali difficoltà incontrano migranti e rifugiati?
Nel 2007 Franco Voltaggio, medico e filosofo della scienza, tenne presso l’ospedale Sandro Pertini di Roma una lectio magistralis intorno alla psichiatria transculturale, che studia e cura tutti quei disturbi riconducibili all’ambiente culturale di insorgenza e non ascrivibili a categorie patologiche riconosciute o condivise. In quell’occasione vennero alla luce problematiche ed esigenze ancora oggi di difficile soluzione: “Mentre i nostri politici decidevano che cosa fare di se stessi, che cosa fare da grandi, se continuare la prima o fare la seconda repubblica, l’Italia, considerata a torto o a ragione una sorta di “eldorado”, venne investita da un grande flusso migratorio. […] Da questa novità, e cioè dall’entrare in contatto finalmente con le cose vere –con gli uomini, le donne, i bambini– sono stati in prima istanza i medici, e ancor prima ovviamente gli psichiatri, che hanno dovuto confrontarsi con le conseguenze della migrazione, scoprendo diverse cose. La prima assomiglia alla scoperta del cavallo, dell’acqua calda, dell’ombrello, della carta vetrata: quando si parla di integrazione non si dovrebbe pensare all’integrazione degli altri nella società italiana, ma a una reciproca integrazione che parte dagli italiani e viene ripresa dagli ospiti” (Scaringi, 2008).
Questi ultimi, però, sono spesso infelici: “prima di tutto perché non trovano lavoro facilmente, perché non trovano alloggio, perché le condizioni di lavoro (quando le trovano) sono condizioni orrende. Ma sono infelici anche per una sindrome che io chiamerei spaesamento: il giovane migrante, che viene in Italia e che viene accolto da quelli che eufemisticamente vengono chiamati Centri di Prima Accoglienza (ma che in realtà sono dei campi di concentramento), è spaesato perché si trova in un posto che non è il suo e sente una malinconia profondissima, una nostalgia forte per il paese che ha lasciato. Però, per quanto possa sembrare paradossale, questa nostalgia, confondendo passato e futuro e presente, la prova anche nei confronti della terra di approdo” (Scaringi, 2008). Sì, perché è la terra dell’abbondanza; e lo straniero, sapendo che se ne dovrà andare anche dalla nuova patria, sperimenta una sorta di nostalgia anticipata: egli “lascia le proprie radici, ma una volta entrato in quella specie di inferno paradisiaco che sarebbe l’Italia, ne recide delle altre” (Scaringi, 2008).
Il primo Rapporto Mondiale sulla salute dei rifugiati e dei migranti, lanciato lo scorso luglio dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, parte dall’analisi di numeri quasi raddoppiati rispetto a dieci anni fa, con un 281 milioni di persone in movimento nel solo 2020.
Nonostante le difficoltà attuali, una persona ogni 30 nel mondo vive al di fuori del proprio Paese: i 281 milioni di migranti internazionali incidono infatti per il 3,6% sulla popolazione mondiale. Le donne rappresentano circa il 48% dei migranti internazionali. Le principali aree di partenza sono Asia (111 milioni) ed Europa (67 milioni); seguite da America (47 milioni, di cui 43 milioni Sud America), Africa (41 milioni) e Oceania (2 milioni). Il primo Paese di partenza è l’India (17,9 milioni di emigrati), seguita da Messico (11,2 milioni), Federazione russa (10,8 milioni), Cina (10,5 milioni) e Siria (8,5 milioni). Martoriata dalla guerra civile ancora in corso la Siria vede emigrata la metà della nazione (48,3%). Tassi di emigrazione particolarmente alti si registrano in altri Paesi storicamente sconvolti dai conflitti, come Palestina (78,9%), Bosnia Erzegovina (51,4%) e Armenia (32,3%), ma anche in Paesi tradizionalmente a forte pressione emigratoria, come Portorico, Suriname, Samoa, Giamaica, Capo Verde, ecc. Tra il 20-30% si distingue, inoltre, una folta pattuglia di Paesi dell’Europa mediterranea o centro-orientale: Albania, Macedonia, Moldavia, Croazia, Bulgaria, Lituania, Malta, Georgia, Montenegro, Portogallo e Romania (IDOS, 2021, p. 20).
Questi i dati che emergono dall’edizione 2021 del Dossier Statistico Immigrazione, pubblicato dal Centro Studi e Ricerche Idos.
Il 59,0% dei migranti internazionali si è insediato in uno dei Paesi del Nord del mondo. Il primo continente di destinazione è l’Europa con 93 milioni di migranti internazionali, seguita da Asia (79 milioni), America (74 milioni), Africa (25 milioni) e Oceania (9 milioni). A livello di aree continentali, un quinto è insediato nell’Ue-27 (19,6%) e un altro quinto in America settentrionale (20,9%). L’incidenza sulla popolazione raggiunge il 12,3% nell’Ue, ma arriva al 15,5% nell’Asia occidentale, al 15,9% nell’America settentrionale e al 22,0% in Oceania. Nei Paesi a sviluppo umano molto alto, l’incidenza degli immigrati raggiunge il livello record del 13,8%, contribuendo così anche al perseguimento di un Pil pro capite molto alto (44.835 dollari annui). Metà dei migranti internazionali si concentra in dieci Paesi: Stati Uniti (50,6 milioni di immigrati), Germania (15,8 milioni), Arabia Saudita (13,5 milioni), Federazione Russa (11,6 milioni), Regno Unito (9,4 milioni), Emirati Arabi Uniti (8,7 milioni), Francia (8,5 milioni), Canada (8,0 milioni), Australia (7,7 milioni) e Spagna (6,8 milioni). L’Italia si colloca all’undicesimo posto, con 6,4 milioni (IDOS, 2021, p. 21).
Secondo l’OMS, sebbene rifugiati e migranti siano colpiti dagli stessi determinanti sanitari della popolazione autoctona, “il loro status migratorio può rappresentare esso stesso un determinante sanitario che, combinato con l’altro individuo (genetica, genere, comportamento personale ed età) e sociale ed economico (istruzione, alfabetizzazione sanitaria, reddito e stato sociale, occupazione, reti di sostegno sociale ecc.), svolge un ruolo nelle diverse fasi del ciclo migratorio e le rende particolarmente vulnerabili dal punto di vista sanitario” (INMP, 2022). A essere maggiormente a rischio di violenze fisiche e sessuali sono soprattutto le donne, il cui status, se associato al fatto di avere titoli di studio bassi e occupazioni instabili, assume un valore rilevante per gli effetti sulla salute; ma anche i minori non accompagnati sono vulnerabili al rischio di subire violenze e soffrire di disturbi mentali causati dal disagio vissuto, anche in relazione all’interruzione del ciclo scolastico dovuta alla migrazione. Infine, l’insicurezza economica e l’impiego in lavori spesso pericolosi e impegnativi, oltre alla residenza in alloggi non sicuri o sovraffollati, influiscono inevitabilmente sulla salute dei migranti.
L’incidenza dei disturbi mentali in migranti e autoctoni
Parlando di disturbi mentali, “la prevalenza della depressione e dell’ansia può essere maggiore tra rifugiati e migranti nelle diverse fasi dello sfollamento e della migrazione, in base a vari fattori individuali, sociali e ambientali. Il disturbo da stress post-traumatico è frequentemente osservato nei bambini e negli adolescenti rifugiati colpiti da conflitti” (cfr. INMP, 2022). Molti sono infatti i fattori che incidono sull’insorgere di problematiche mentali: una storia di separazione familiare per affrontare un lungo viaggio, essere vedovi o avere un’esperienza di divorzio alle spalle, il recente arrivo in un paese straniero di cui si ha difficoltà a imparare la lingua e a esprimersi, aver subito violenze e abusi sessuali oppure esperienze discriminatorie mai comunicate. In Europa, l’incidenza del disturbo da ansia è in qualche modo simile tra i rifugiati (13%) e la popolazione generale (9%); diverso il caso dei disturbi depressivi che incidono rispettivamente per il 32% contro il 4%. Uno studio sui giovani migranti in Svezia, di età compresa fra i 19 e i 25 anni, ha evidenziato come la prevalenza dei disturbi mentali diminuisca con un più elevato livello di istruzione e che il rischio di sviluppare stress post-traumatico sia associato a una maggiore permanenza nel paese ospitante (cfr. WHO, 2022, p. 125). Per quanto riguarda schizofrenia e disordini psicotici, le popolazioni migranti sono maggiormente esposte, soprattutto in base alle regioni di origine e di destinazione, oltre alla loro combinazione; un ruolo significativo nell’insorgenza di tali disturbi lo hanno fattori quali la separazione dai genitori durante l’infanzia e la discriminazione e la densità etnica nel paese di arrivo. La prevalenza di alcune condizioni mentali rispetto ad altre varia quindi rispetto a fattori sociali e ambientali, oltre che all’accesso ai servizi di cura e diagnosi. Tuttavia, il rischio di sviluppare patologie o dell’aggravarsi di malattie già conclamate risulta essere più alto per i migranti rispetto alla popolazione autoctona. Analizzando, ad esempio, i profili dei pazienti che, in Qatar, arrivano al pronto soccorso in seguito ad atti di autolesionismo e tentato suicidio, la quota più alta (35,5%) può essere ascritta agli espatriati (i qatarioti arrivano al 21,4%). Tra gli adolescenti palestinesi, invece, che vivono nei territori occupati, il 25,6% ha espresso tendenze suicidarie, uso di cannabis e tabacco, mancanza di amici intimi, disordini alimentari e insonnia indotta dalle preoccupazioni (cfr. WHO, 2022, p. 127).
Promuovere la salute di migranti e rifugiati, riorientare le politiche sanitarie, rafforzare le competenze degli operatori del settore, migliorare i sistemi informativi per la raccolta, l’analisi e la condivisione dei dati, significa garantire un diritto fondamentale, anche in linea con l’obiettivo dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile a non lasciare indietro nessuno, promuovendo la salute mentale e il benessere di tutti.