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Verso l’immortalità digitale: il caso dei griefbot – Psicologia Digitale

Grazie alla raccolta delle tracce digitali è possibile far rivivere chi è venuto a mancare attraverso chatbot, che prendono il nome di griefbot

Di Chiara Cilardo

Pubblicato il 03 Giu. 2022

I griefbots simulano una conversazione con una persona defunta utilizzando le tracce digitali lasciate intenzionalmente (su social media, e-mail, chat, ecc) o non intenzionalmente (come ricerche su siti web, registri di telefonate).

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 30) Verso l’immortalità digitale: il caso dei griefbot 

 

 Grazie alla raccolta delle tracce digitali è possibile far rivivere chi è venuto a mancare attraverso chatbot.

L’elaborazione del lutto è da sempre legata a luoghi, riti e azioni culturali condivise; pratiche come quella dell’“impersonatore” (in cui qualcuno si finge il defunto per farlo “parlare di nuovo”), delle sedute spiritiche, o ancora del “telefono del vento” (un monumento simile a una cabina telefonica in cui simbolicamente conversare con chi non c’è più), sono tutti esempi di risposte al bisogno di elaborare la perdita. Non poteva mancare la versione digitale di modi per comunicare e gestire il lutto. La thanatechnology (Sofka, 1997) è proprio l’insieme delle tecnologie che riguardano il lutto e la gestione della perdita. Accanto a forme di memoria digitali passive, come lapidi interattive (Bassett, 2015) o piattaforme che custodiscono messaggi rivolti ai posteri (Dilmaç, 2018), abbiamo forme di personificazione come avatar digitali e griefbot.

Il lutto online

Il digitale non fa niente di nuovo: elaborazione del lutto e connessione coi defunti sono un’esigenza espressa in tutte le epoche e culture. Quello che cambia sostanzialmente è il modo in cui questo viene fatto e come viene gestito.

L’espressione del lutto online diventa qualcosa di condiviso, di collettivo, non più relegato solo alla sfera privata (Wagoner e Brescó, 2021). Il nostro lutto diventa visibile, ma rimane visibile e presente anche il defunto: sulle pagine commemorative di Facebook è possibile vedere il profilo, leggere i post precedenti e inviare messaggi (Moyer e Enck, 2020). C’è chi sostiene che la cancellazione del profilo è un po’ come perdere di nuovo la persona amata (Kasket, 2012).

Questa presenza online di chi non c’è più crea e legittima nuove forme di elaborazione del lutto in cui il defunto è ancora presente (anche a chi non lo conosce, ma è pur sempre un profilo) e con cui si può in qualche modo ancora dialogare.

Cosa sono i griefbot

Una chatbot è un’applicazione basata su AI (intelligenza artificiale) che è in grado di intrattenere una conversazione con un essere umano. Tipicamente, i chatbot vengono usati per rispondere a richieste di informazioni generiche su siti che offrono servizi o e-commerce, ma ci sono anche versioni più evolute capaci di simulare una conversazione su specifiche tematiche, come i chatbot che simulano un dialogo con uno psicoterapeuta.

I griefbots fanno proprio questo: sono in grado di simulare una conversazione con una persona. Che siano tracce digitali lasciate intenzionalmente (su social media, e-mail, chat, ecc) o non intenzionalmente (come ricerche su siti web, registri di telefonate), i griefbot sono programmati per apprendere da tutte le impronte digitali lasciate da un defunto (Savin-Baden e Burden, 2019).

Queste piccole briciole digitali sono come “narbs”, cioè “narrative bits”, bit narrativi, piccoli frammenti di una narrazione che, una volta messi insieme, ricostruiscono l’identità digitale di una persona (Mitra, 2010; Paul-Choudhury, 2011).

Rispetto ad altre forme di commemorazione online differiscono per due aspetti: la comunicazione è bidirezionale (il griefbot non solo risponde ma può avviare una conversazione autonomamente) e lo spazio di interazione è privato poiché si tratta di una chat 1to1, uno a uno.

Il processo di lutto nella digital afterlife

I griefbot simulano una conversazione privata. Sono quindi un’imitazione di come parlerebbe una persona sulla base di tutti i dati raccolti su quest’ultima. Essendo una simulazione basata su una grande mole di dati, la replica è abbastanza raffinata. Quanto nel corso dell’interazione ci illudiamo, in tutto o in parte, di avere proprio a che fare con quella persona reale?

Secondo Brinkmann (2018) è sufficiente il fatto di sapere che si tratta di una copia a non farci cadere nella trappola dell’illusione di realtà e a generare un distacco. Saperlo o meno invece, secondo Elder (2020), non muta il fatto che la risposta emotiva è profonda e significativa e i messaggi del griefbot potrebbero essere interpretati inconsciamente come qualcosa di “vero”, dato che sono, dopo tutto, basati sull’impronta digitale del defunto.

Questa permanenza in una sorta di limbo tra distacco e presenza della persona cara è di aiuto o, peggio, ostacolo nell’elaborazione del lutto? Se l’utilizzo di griefbot porta benefici dipende comunque da più fattori: come e quanto viene utilizzato, il tipo di legame con il defunto, l’età in cui avviene il lutto, se si è nelle fasi iniziali del processo.

Va infine ricordato che stiamo parlando di tecnologie sviluppate da aziende private. In quanto tali, la gestione della digital afterlife si fonda sulla possibilità di riuscire a monetizzarla. La necessità di ottenere un ritorno economico spinge a incoraggiare le interazioni (con notifiche push, per esempio) e questo può avere un impatto nell’evolversi del processo di lutto. Prodotti come Eterni.me, creato nel 2014, in cui si può creare il proprio avatar da lasciare ai posteri, non sono prodotti che nascono con un intento terapeutico (Öhman e Floridi, 2018).

La questione etica: i nostri resti digitali

Che si tratti di griefbot o di testamenti digitali (vere e proprie istruzioni su cosa fare della nostra eredità digitale), le nostre tracce, i nostri resti digitali sono parte della nostra identità (Öhman e Floridi, 2018). Ma a proposito di identità, un nostro surrogato digitale creato sulla base del nostro comportamento online ci rispecchierebbe davvero? Essendo basati appunto solo su dati online, viene tagliata fuori una fetta fondamentale della nostra vita: come siamo offline.

Soprattutto, lo vorremmo davvero? Vorremmo davvero che ogni nostra briciola, ogni nostra piccola traccia – ogni narb – che abbiamo disseminato online venisse riutilizzato dopo la nostra morte? Potrebbero essere resi noti aspetti di noi e della nostra vita che avremmo voluto lasciare privati.

Queste sono domande cruciali da porsi considerando che le nostre tracce digitali diventano sempre più numerose e dettagliate e dobbiamo essere sempre più consapevoli dell’impatto che possono avere anche dopo la nostra morte.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Basset, D. (2015). Who Wants to Live Forever? Living, Dying and Grieving in Our Digital Society. Social Sciences, 4, 1127–1139.
  • Brinkmann, S. (2018). General Psychological Implications of the Human Capacity for Grief. Integrative Psychological and Behavioral Science, 52, 177–190.
  • Dilmaç, J. A. (2018). The New Forms of Mourning: Loss and Exhibition of the Death on the Internet. OMEGA—Journal of Death and Dying, 77(3), 280–295.
  • Elder, A. (2020). Conversation from Beyond the Grave? A Neo-Confucian Ethics of Chatbots of the Dead. Journal of Applied Philosophy, 37(1), 73–88.
  • Kasket, E. (2012). Continuing Bonds in the Age of Social Networking: Facebook as a Modern-Day Medium. Bereavement Care, 31(2), 62–69.
  • Mitra, A. (2010). Creating a Presence on Social Networks via Narbs. Global Media Journal, 9, 20–40.
  • Moyer, L. M., & Enck, S. (2020). Is my grief too public for you? The digitalization of grief on Facebook™. Death studies, 44(2), 89-97.
  • Öhman, C., & Floridi, L. (2018). An Ethical Framework for the Digital Afterlife Industry. Nature Human Behaviour, 2, 318–320.
  • Paul-Choudhury, S. (2011). Digital Legacy: The Fate of your Online Soul. New Scientist, 210, 41–43.
  • Savin-Baden, M., & Burden, D. (2019). Digital Immortality and Virtual Humans. Postdigital Science and Education, 1, 87–103.
  • Sofka, C.J. (1997). Social support “Internetworks”, caskets for sale, and more: thanatology and the information superhighway. Death Studies, 21:6, 553-574.
  • Wagoner, B., & Brescó, I. (2021). Collective Grief: Mourning Rituals, Politics and Memorial Sites. In E. H. Kofod, & A. Koester (eds), Experiencing the Death of the Other: Cultural, Existential, and Phenomenological Dimensions of Bereavement (pp. 197–213). Routledge.
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