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Figli adottivi: caratteristiche emotive, comportamentali e psicopatologia

A fronte di un adeguato sviluppo, rispetto ai coetanei, i figli adottivi presentano più problemi legati a somatizzazione, aggressività e depressione

Di Serena Pierantoni, Mariasilvia Rossetti

Pubblicato il 11 Ott. 2021

Il bambino adottato, a causa delle esperienze negative preadottive, può sviluppare un’idea di sé come individuo sbagliato, incapace e non degno di amore. Egli spesso si rappresenta il mondo come un luogo pericoloso e quindi può utilizzare diverse strategie per far fronte alla sensazione di essere una persona fragile che si muove in un mondo minaccioso.

Serena Pierantoni e Mariasilvia Rossetti – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

L’incontro adottivo si staglia sullo scenario di una doppia mancanza: a una coppia manca un figlio, a un bambino mancano dei genitori. Se gli attori saranno in grado di colmarla potranno realizzare l’evento intensamente carico di emozioni di una doppia nascita: due esseri che diventano genitori e un essere che diventa persona attraverso la filiazione” (Farri Monaco M. & Castellani P., 1994).

L’adozione è un percorso molto delicato per i genitori e soprattutto per i bambini.

L’attuale ricerca relativa alle adozioni nazionali e internazionali evidenzia come i figli adottivi sono spesso sovra rappresentati nei servizi psichiatrici.

Disturbi psicologici e comportamentali tra i figli adottivi

Le ricerche cliniche che hanno confrontato bambini adottati e non adottati, mostrano che i primi presentano più frequentemente sintomi “internalizzanti” quali somatizzazione, depressione, ansia, disturbi psicotici dagli 1 ai 5 anni. Queste problematiche sembrano essere preponderanti subito dopo l’adozione per poi diminuire gradualmente nel corso del tempo. Dopo i 5 anni sono più frequenti i disturbi “esternalizzanti”: comportamenti aggressivi e/o oppositivi, bugie, fughe da casa, uso di sostanze stupefacenti, comportamenti antisociali. Si rilevano inoltre, con maggiore frequenza nei bambini adottivi, difficoltà di apprendimento, deficit di attenzione, iperattività (D. Bramanti & R. Rosnati, 1998).

Dagli studi non clinici che hanno confrontato campioni di bambini adottati e non adottati scelti dalla popolazione generale si ottengono invece risultati abbastanza contrastanti. Alcuni non hanno rilevato differenze tra i due gruppi; altri evidenziano una maggior frequenza di problemi psicologici e comportamentali e un maggior numero di difficoltà scolastiche. Da alcune ricerche si evince che le differenze tra adottati e non, sono consistenti in età scolare, si riducono in adolescenza per poi scomparire; altre evidenziano invece maggiori problematiche proprio durante il periodo adolescenziale (Miller et al., 2000).

I risultati della ricerca di Barcons-Castel et al. (2011) indicano che, a fronte di un adeguato sviluppo, rispetto ai coetanei, i bambini adottivi presentano più problemi legati alla somatizzazione, all’aggressività e alla depressione. Inoltre, i ragazzi non adottati, in particolare maschi, hanno migliori capacità adattive rispetto agli adottati, differenza che non sembra essere significativa per le ragazze (Barcons-Castel et al., 2011).

Uno studio molto recente di Paine et al. (2021) ha indagato su un campione di 42 bambini dai 4 agli 8 anni il ruolo che può avere la capacità di riconoscimento delle emozioni sui problemi comportamentali e psicologici mostrati dai bambini adottivi.

Comprendere, saper individuare e discriminare le emozioni è fondamentale per un buon adattamento sociale e psicologico. Le difficoltà a riconoscere le emozioni sono associate a rifiuto sociale, vittimismo e sintomi clinici in infanzia. Ad esempio, lo scarso riconoscimento delle emozioni negative come tristezza, paura e rabbia è evidente nei bambini con disturbi comportamentali (Van Goozen SHM, 2015).

La ricerca conferma che in generale i bambini (sia adottivi che non) con problemi emotivi e comportamentali identificano con maggiore precisione le espressioni emotive positive rispetto a quelle negative (tristezza, paura, rabbia). Tuttavia, rispetto ai bambini non adottati, quelli adottati hanno ottenuto risultati significativamente peggiori nella discriminazione di volti tristi, arrabbiati e spaventati (Paine et al., 2021). I risultati suggeriscono che le difficoltà a riconoscere i segnali di angoscia tipici dei volti impauriti, possono ostacolare la capacità di imparare a inibire il comportamento aggressivo. L’evidenza indica che gli interventi basati sulle emozioni potrebbero migliorare le capacità dei bambini adottivi di riconoscere le espressioni emotive e ridurre i loro problemi comportamentali.

Molti studi evidenziano che anche in adolescenza i ragazzi adottati manifestano problemi emotivo/ relazionali, scolastici e comportamenti devianti in misura maggiore rispetto ai propri pari non adottati. Lo studio di Miller et al. (2000) mostra che gli adolescenti adottati, in particolare di sesso maschile, hanno più problemi scolastici (assenteismo, scarsi risultati), di abuso di sostanze, litigi con i genitori, e in generale più problemi psicologici (maggiore sofferenza psicofisica, minore autostima, minore speranza per il futuro) dei non adottati.

Da uno studio di Verhulst et al. (1990) emerge che i soggetti adottivi presentano problematiche comportamentali nel 23% dei casi contro il 10%; problemi con la giustizia in 1,8% dei casi contro lo 0,4%; problemi internalizzanti nel 7,1% dei casi rispetto al 2,2% dei non adottivi (M. Chistolini, 2010).

Altre caratteristiche maggiormente prevalenti negli adottati riguardano comportamenti delinquenziali (Sharma et al.,1998), difficoltà interpersonali, comportamenti oppositivi, comportamenti aggressivi (Austad and Simmons, 1978) e antisociali (Offord et al., 1969).

Una ricerca condotta presso l’Università del Minnesota su un campione di 692 ragazzi adottati e 540 non adottati, ha indagato se lo stato di adozione può rappresentare un fattore di rischio per il tentativo di suicidio. Emerge che la probabilità di tentativo di suicidio è quattro volte superiore negli adottati. La relazione tra tentativo di suicidio e stato di adozione è mediata da fattori noti per essere associati al comportamento suicidario: ambiente familiare, sintomi psichiatrici, tratti di personalità, abbandono scolastico (Keyeset al., 2013).

Uno studio recente di Murray et al. (2021) ha analizzato il ruolo delle esperienze traumatiche sui comportamenti suicidari dei soggetti adottivi rispetto ai coetanei non adottati. Si riscontra un’alta percentuale di esperienze potenzialmente traumatiche tra gli individui adottati (oltre il 93%) e si conferma la maggiore probabilità degli adolescenti adottati di ideazioni o comportamenti suicidari. Tuttavia, quando vengono aggiunti al modello i sintomi del politrauma o trauma, l’adozione non risulta più un predittore significativo per l’ideazione suicidaria. Sebbene l’associazione tra adozione e rischio suicidario sia ancora da approfondire, lo studio attuale indica che lo stress traumatico gioca un ruolo critico (Murray et al., 2021).

Disturbi di personalità tra i figli adottivi

Diversi studi hanno indagato l’adozione come fattore di rischio per specifici disturbi di personalità come il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità, il disturbo antisociale, schizotipico, schizoide, paranoide, evitante (Westermeyer, et al., 2015). Tuttavia questi studi non hanno comparato la percentuale di disturbi di personalità tra soggetti adottati e non adottati in un campione nazionale abbastanza rappresentativo.

Westermeyer et al. (2015) hanno confrontato i dati relativi alla storia di vita e alla presenza di disturbi di personalità in adulti adottati e non adottati considerando sette disturbi di personalità: istrionico, antisociale, evitante, paranoico, schizoide, ossessivo-compulsivo e personalità.

I risultati ottenuti mostrano una maggiore probabilità di sviluppare un disturbo di personalità in coloro che sono stati adottati rispetto ai non adottati. In particolare, la correlazione più forte sembrerebbe quella con i disturbi del Cluster B (istrionico e antisociale), meno significativa, ma comunque rilevante, la correlazione con il Cluster A (paranoide e schizoide) e C (evitante e ossessivo-compulsivo). L’unica correlazione che non si è mostrata significativa è con il disturbo dipendente di personalità.

Questi risultati si ottengono in particolare per la fascia di età 18-29 anni, le differenze tra adottati e non adottati diminuiscono invece dai 45 anni in poi (Westermeyer et al., 2015).

I fattori che contribuiscono allo sviluppo di disturbi di personalità negli adottati potrebbero originare da aspetti genetici e non genetici relativi ai genitori biologici (ibidem).

Fattori di rischio per i figli adottivi

Tutti i bambini adottivi provengono da situazioni di abbandono o di separazione dalle famiglie di origine per trascuratezza, povertà, maltrattamento o abuso

Gli effetti negativi sullo sviluppo neuropsicologico dei bambini adottati potrebbero in alcuni casi dipendere da “danni biologici” dovuti a condizioni di vita sfavorevoli: malattie dei genitori, assunzione di sostanze stupefacenti in gravidanza, controlli sanitari assenti, denutrizione.

Possono però anche derivare da esperienze traumatiche vissute nei primi mesi di vita.

Per comprendere i meccanismi e le dinamiche che sono alla base dello sviluppo psicoaffettivo del bambino adottivo è necessario far riferimento alla teoria dell’attaccamento di Bowlby. L’attaccamento è stato definito come un sistema comportamentale, biologicamente predeterminato, che spinge il bambino a cercare un legame affettivo, vicinanza e conforto con una figura specifica, principalmente la madre o, più in generale, tutte quelle figure che interagiscono in modo precoce con il bambino al fine di ottenere protezione, cura e regolazione degli stati emotivi (Bowlby, 1979).

In base alla risposta del caregiver, nel cervello del bambino si formano delle rappresentazioni mentali (Modelli Operativi Interni) di se stesso, della Figura di Attaccamento e della relazione tra sé e l’altro.

I Modelli Operativi Interni si formano alla fine del primo anno di vita e restano abbastanza stabili nel tempo; sono utilizzati per interpretare noi stessi, il mondo, l’altro e per interagire con l’esterno (Liotti, 2001).

I bambini adottati spesso fanno esperienza preadottiva di relazioni di attaccamento che non forniscono loro un senso di sicurezza. Howe (2001) distingue tre storie preadottive e diversi stili di attaccamento insicuro che i bambini adottivi possono aver sviluppato: good start, poor start, institutional care.

I good start, quei bambini che hanno avuto un buon rapporto con i caregiver biologici nei primi anni di vita e solo successivamente hanno vissuto esperienze negative, potrebbero strutturare un attaccamento sicuro con aspetti ansiosi. Potrebbero assumere comportamenti di dipendenza con i genitori adottivi per la paura di perdere di nuovo le figure di attaccamento (Howe, 2001).

I poor start, ossia i bambini che fin dalla nascita hanno sperimentato scarse cure, se non abusi, maltrattamenti e trascuratezza, potrebbero sviluppare uno stile di attaccamento insicuro resistente, evitante o disorganizzato. I bambini resistenti hanno interiorizzato un modello di genitori incostanti, quindi possono mostrarsi richiedenti e possessivi nei confronti dei genitori adottivi. Gli evitanti hanno fatto esperienza di genitori freddi e distaccati che li hanno fatti sentire rifiutati. Questi bambini potrebbero evitare il contatto emotivo per mostrarsi forti e invulnerabili. Infine, i bambini con attaccamento disorganizzato hanno un senso di sé poco chiaro e definito e una rappresentazione dell’altro come spaventato/spaventante. Possono manifestare atteggiamenti volti a controllare emotivamente la relazione oppure atteggiamenti punitivi nei confronti di se stessi.

Infine i bambini institutional care, istituzionalizzati fin dalla nascita, possono sviluppare o ricerca di cura indifferenziata o assenza di legame di attaccamento (Howe, 2001).

L’abbandono o la separazione dai genitori biologici rende il bambino adottivo fragile. Oltre all’esperienza traumatica, gli viene anche richiesto di sviluppare in poco tempo nuovi apprendimenti cognitivi, relazionali, di adattarsi a un nuovo contesto di vita a lui sconosciuto e per di più spesso senza aver sviluppato le capacità necessarie.

Il bambino adottato infatti, a causa delle esperienze negative preadottive, può sviluppare un’idea di sé come individuo sbagliato, incapace e non degno di amore, un’immagine di sé distorta che lo rende particolarmente permaloso e sensibile alle critiche.

Il bambino adottato spesso si rappresenta il mondo come un luogo pericoloso e quindi può utilizzare diverse strategie per far fronte alla sensazione di essere una persona fragile che si muove in un mondo minaccioso. Potrebbe ad esempio cercare di tenere tutto sotto controllo utilizzando una strategia di ipermonitoraggio. Questo aspetto può essere la causa delle difficoltà di attenzione/concentrazione e dei comportamenti oppositivi. Opporsi ai genitori adottivi dà la sensazione al bambino di avere il controllo della situazione.

Strategie più prudenziali sono la compiacenza e il ritiro depressivo. Alcuni bambini per evitare un altro rifiuto, nel nuovo nucleo familiare aderiscono perfettamente alle aspettative dei genitori nascondendo però totalmente le proprie necessità. Il ritiro depressivo e l’autoesclusione allo stesso modo danno la sensazione di essere al sicuro da eventuali fallimenti (Chistolini, 2010). In alternativa, potrebbero reagire con comportamenti di attacco (aggressività) o fuga (agitazione motoria che prepara a scappare o freezing) (ibidem).

In adolescenza i maggiori fattori di rischio da considerare per i disturbi comportamentali riguardano ancora il legame di attaccamento sperimentato con la famiglia biologica e con quella adottiva e le difficoltà incontrate nel tentativo di costruire la propria identità personale. Uno dei compiti di sviluppo di un adolescente è differenziarsi dai propri genitori e metterli in discussione per acquisire una propria individualità e autonomia. Ciascun adolescente necessita di distanziarsi dai genitori e al tempo stesso di essere ancora guidato e contenuto. Per il ragazzo adottato questo processo diventa più difficile perché potrebbe riemergere la paura dell’abbandono e il vissuto di colpa (ibidem). Allo stesso modo potrebbe esser complesso per l’adolescente adottato costruire una propria identità coerente se non ha la possibilità di ricostruire la sua storia preadottiva (Grotevant, Perry e McRoy, 2005).

Fattori protettivi per i figli adottivi

Considerando la fragilità psicologica dei figli adottati, è fondamentale che i genitori adottivi siano capaci di mentalizzare con i figli e di comprendere la sofferenza e la paura dell’abbandono che guidano i loro atteggiamenti. La sicurezza dei Modelli Operativi Interni sembra essere un fattore protettivo, è dunque importante che i genitori adottivi permettano al bambino di sperimentare la presenza di una “base sicura”. Le famiglie adottive dovrebbero aiutare il bambino ad acquisire fiducia nella disponibilità del caregiver, promuovere la riflessività e l’intelligenza emotiva, l’autonomia e la self-efficacy (Santona, Zavattini, 2005).

In particolare, in adolescenza i genitori adottivi dovrebbero riuscire a riconoscere fino a che punto il figlio si sente di appartenere a quella famiglia piuttosto che a quella di origine, favorendo l’accessibilità alle informazioni inerenti il passato. Conoscere la propria storia preadottiva è un fattore protettivo che aiuta il ragazzo a dare un senso a quanto accaduto e a costruire il proprio sé.

Non esistono i problemi dell’adozione. Ma esistono i bisogni degli adottati e questi […] sono il riflesso della loro storia personale” (Anna Genni Miliotti, 2013)

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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  • www.italiaadozioni.it
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