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Recensione del film “Il Divin Codino” – Una riflessione psicoanalitica

Il film Il Divin Codino racconta la storia di Roberto Baggio ruotando attorno al tema dell’identità personale e del rapporto padre-figlio

Di Paolo Mandolillo

Pubblicato il 05 Lug. 2021

Il 26 maggio di quest’anno, dopo un’ampia campagna pubblicitaria, è stato distribuito su Netflix Il Divin Codino, film dedicato al celebre calciatore Roberto Baggio.

 

Interpretato da un attore sorprendentemente identico, Andrea Arcangeli, accompagnato da un’esplosiva colonna sonora cantata da Diodato, presentato al pubblico a valle di un anno calcistico caratterizzato dall’impossibilità di frequentare gli stadi: tutte queste premesse hanno alimentato l’entusiasmo di molti sportivi.

La tanta attesa per la pellicola sembra però essere offuscata dalle precoci e insistenti critiche negative:

“Non ci sono le memorabili giocate di Baggio?”;

“Nessun accenno ai mondiali di Italia 90 e Francia 98!”;

“E il pallone d’oro? E gli anni con le maglie di Juve, Milan, Bologna e Inter?”

“Chi guarda il film osserva un fallito che non dimentica un rigore, piuttosto che uno dei calciatori italiani più forte di tutti i tempi!”

Queste sono solo alcuni dei giudizi condivisi sui social, dalle recensioni dei cinofili e soprattutto degli appassionati di calcio.

Vorrei proporre una visione differente che tiene conto della passione per il cinema e della personale lente di ingrandimento psicoanalitica.

Premessa: a mio avviso, se l’intenzione è ripercorrere la parabola di uno sportivo realmente esistito, difficilmente un film potrà essere d’aiuto. Molto pertinenti sono invece documentari nei quali il racconto del percorso è scandito da filmati d’epoca, interviste e testimonianze, il tutto montato ad arte e arricchito da spezzoni musicali che descrivono l’ordine cronologico degli eventi.

L’auspicio secondo cui assistere alla visione di un film che può tracciare dettagliatamente la storia di un campione è destinato a fallire in partenza. Neanche la formula più attuale della serie-tv può riuscirci: la difficoltà non è legata a questioni connesse alla mera durata, ma alla struttura narrativa.

Nel documentario è narrata una storia che lascia poco spazio alla proiezione. Si è osservatori, si partecipa con suggestione, ma si resta separati dal protagonista perché esistono specifici episodi e specifiche coordinate spazio-temporali da seguire.

Guardare un film invece elicita vissuti diversi: induce fenomeni di identificazione col personaggio. Inoltre il tempo è più condensato: seppur si mantiene l’ordine sequenziale degli eventi, i salti temporali rendono l’esperienza quasi onirica.

Un film, che può piacere o non piacere, si connette direttamente ad alcune parti del nostro Sé. Un documentario può invece destare o non destare il nostro interesse, emozionarci o non emozionarci, ma è un’esperienza psicologica differente.

Molte critiche su Il Divin Codino sono dunque riconducibili all’essere un prodotto cinematografico incapace di soddisfare i desideri degli sportivi/telespettatori in era pandemica, relegati in salotto, in attesa di potersi illuminare di fronte al calcio nostalgico degli anni novanta.

Quindi ritengo che un film su Baggio non possa essere giudicato in base alla consistenza dell’approfondimento della storia calcistica, ma piuttosto sulla sua coerenza narrativa e sulla sua capacità di guidare lo spettatore verso ciò che si prefigge di voler raccontare.

A parer mio il film ruota attorno al tema dell’identità personale e del rapporto padre-figlio. Il giovane Baggio è un bambino che cresce in una famiglia con sette fratelli: la sua necessità di voler “essere visto” dall’austero padre, viene tradotta nel proposito di vincere i Mondiali contro il Brasile, rivincita della finale persa dall’Italia nel 1970 quando lui aveva appena 3 anni. Proposito che è alimentato dalle continue critiche paterne, incapace di mostrare riconoscimento per l’astro nascente neoacquisto di una squadra di serie A negli anni ottanta.

Poi arriva l’infortunio, triste presagio di una carriera stroncata sul nascere. Qui il giovane Roberto deve fare i conti con la paura, l’insicurezza, che stridono col forte desiderio di crescere e giocare in Nazionale. Attraverso l’amore della fidanzata e il percorso personale spirituale, Baggio riesce ad arrivare ai Mondiali nel 1994 (è vero, ha giocato anche quelli del 90: ma serve raccontarlo?) l’anno successivo alla vincita del pallone d’oro, il che ci fa capire quanto la giovane promessa sia diventata il calciatore più rappresentativo del panorama europeo.

Poi la storia la conosciamo: la finale di Pasadena, la conclusione della carriera al Brescia di Mazzone, la mancata convocazione del 2006. Quello che non conosciamo ce lo regala il film, ovvero il tormento dell’uomo e l’amore del padre.

Come non pensare al rigore sbagliato: a quello che rappresenta; a quello che ha determinato. La sua sofferenza è un’esperienza universale che ci guida verso quel tipo di sofferenza indotta dalla nostra cultura di riferimento: quella che ci vuole vincenti, “in questo mondo di eroi, nessuno vuole essere Robin” come canta Cesare Cremonini. Il film ci invita a riflettere sul delicato tema del fallimento, perché più delle vittorie è la via di accesso per la crescita personale.

Nella battuta di caccia tra i due protagonisti e il successivo epilogo avviene la catarsi, ovvero si osservano: l’insight, sulla natura celata fino a quel momento che ha indirizzato il proposito personale; lo svelamento dell’amore del padre “E finalmente posso dirtelo: sei stato bravo” sulle note immortali di “Paradise” di Bruce Springsteen; il riconoscimento, nel successivo sguardo commosso del padre che osserva il figlio acclamato dalla folla pur non essendo convocato ai Mondiali. Scene veramente ben interpretate, ben montate, molto significative anche da un punto di vista simbolico.

Forse sarebbe stato più corretto proporre un titolo come “L’uomo dietro il campione” (titolo della canzone di Diodato) e posticipare la distribuzione a settembre piuttosto che nel finale della stagione calcistica. Ma a parte queste mere questioni di marketing, credo che la pellicola rappresenti un prodotto valido. Certo, alcune considerazioni vanno fatte, due per esempio: la trasposizione del personaggio di Sacchi, gigante del calcio italiano, non rende giustizia; inoltre la figura della moglie appare troppo superficiale. Ma al di là di piccoli dettagli, il film sicuramente non merita la pioggia di critiche che ha ricevuto, che necessitano di essere riposizionate alla struttura narrativa piuttosto che alla pellicola in sé, capace di emozionare il pubblico immedesimato e coinvolto.

 

IL DIVIN CODINO – Guarda il trailer del film:

 

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