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Caregiver burden: lo stress dei genitori con figli disabili

Nella prevenzione del burden caregiver fondamentale è la sensazione di riuscire ad agire incisivamente nei diversi compiti a cui il genitore è chiamato

Di Rachele Recanatini

Pubblicato il 21 Giu. 2021

Aggiornato il 25 Giu. 2021 11:29

Il caregiver burden viene definito come una forma di disagio psicofisico che coinvolge numerosi aspetti della vita quotidiana.

 

Il termine “caregiver” significa letteralmente “colui che fornisce cure”: si riferisce alle persone che accudiscono chi ha subito una diminuzione o una perdita di autonomia e che, pertanto, necessita di assistenza. Molto spesso, soprattutto in questo ultimo periodo, sentiamo parlare di caregiving professionale, in cui chi presta aiuto è personale specializzato.

Una tipologia di caregiver – altrettanto fondamentale ma frequentemente sottovalutata – è quella familiare, relativa cioè alle persone care che supportano un parente in difficoltà. Nel linguaggio comune si fa riferimento quasi automaticamente alla condizione di assistenza alla vecchiaia: i parenti a cui si pensa quando si parla di caregiving familiare sono solitamente anziani affetti da demenza senile o, comunque, che hanno perso la propria autonomia nel prendersi cura di sé.

Oggi invece vogliamo parlare di una categoria troppo spesso ignorata, ovvero i genitori di figli affetti da disabilità. Essere genitore, soprattutto durante i primi anni di vita di un figlio, significa fornire cure ed assistenza quotidiana. Un impegno costante e faticoso che è destinato gradualmente a terminare con il trascorrere del tempo, al raggiungimento delle normali tappe evolutive di sviluppo, che prevedono l’acquisizione di sempre maggiore indipendenza. Essere genitore di un figlio diversamente abile contempla invece differenti incarichi: in alcuni casi l’autonomia viene raggiunta solo parzialmente dal minore e non in tutti gli ambiti della vita. Naturalmente, ne consegue che il caregiving si sviluppi in maniera maggiormente complessa e duratura: i padri e le madri diventano fornitori di assistenza quotidiana e continuativa, impegno che si aggiunge al profondo dolore e alla sofferenza sperimentate nel vedere il proprio figlio in difficoltà. Per tali ragioni è fondamentale analizzare il cosiddetto “caregiver burden”, letteralmente il peso dell’assistenza, sopportato da chi fornisce cure.

Il caregiver burden viene definito come una forma di disagio psicofisico che coinvolge numerosi aspetti della vita quotidiana; si caratterizza da un’ampia sintomatologia, composta da stati di ansia, umore depresso, disturbi del sonno ed un generale malessere emotivo che si ripercuote su ambiti personali, sociali ed economici, relativi all’assistenza. Una sofferenza che incide negativamente sulla qualità della vita globale del caregiver.

Negli ultimi anni, tale figura ha acquisito sempre maggiore importanza, tanto da essere inserita nell’Ordinamento Italiano: la Legge Finanziaria del 2017, infatti, per la prima volta qualifica giuridicamente il caregiver familiare; tale definizione è stata accompagnata da una previsione di risorse economiche dedicate alle persone che si prendono cura di parenti bisognosi di assistenza: è stato istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali un fondo per il sostegno del ruolo di cura del caregiver. Quanto inserito nel testo legislativo costituisce quindi la statuizione giuridica dell’esistenza della figura del caregiver familiare – precedentemente invisibile all’Ordinamento – riconoscendone il grande valore sociale ed economico. L’attività di cura non professionale viene dunque finalmente considerata come fondamentale, dichiarando l’immenso valore del lavoro svolto dai familiari per la società. Emerge chiaramente la situazione degli ingenti costi che il Sistema Sanitario Nazionale si troverebbe ad affrontare qualora queste figure venissero a mancare o fossero impossibilitate a fornire cure. Sarebbe dunque interesse comune, delle istituzioni sanitarie in particolare, prendersi cura non solo delle persone con disabilità ma anche della salute dei caregivers, che sopportano una vasta percentuale dei costi sanitari fornendo ai parenti assistenza non retribuita.

Il valore centrale dei familiari – nel nostro caso dei genitori con figli diversamente abili – va pertanto riconosciuto, tutelandone il benessere psicofisico globale. Allo scopo di preservare la salute mentale dei caregivers, padri e madri di bambini affetti da disabilità, ne vanno innanzitutto riconosciute le principali emozioni. Studi scientifici dimostrano come i caregivers familiari sperimentano in particolare stati d’animo di rabbia, senso di colpa, tristezza, vergogna e invidia.

La rabbia, legata a stanchezza psicofisica, sensazione di pesantezza, stati di frustrazione ed impotenza, sembra essere l’emozione che accomuna la maggior parte dei genitori di figli disabili: faticando ad accettare la condizione di handicap del minore, le madri e i padri tendono infatti ad esperire tensione, irrequietezza, sensazione di perdere il controllo e timore di esplodere con agiti aggressivi. La rabbia si unisce alla percezione di aver subito un danno ingiusto: la nascita di un bambino diversamente abile costituisce un evento traumatico in cui il caregiver può ritenere di essere stato ostacolato o privato di una positiva esperienza di genitorialità, con pensieri quali “non doveva succedere”, “perché è accaduto proprio a noi?”. Specialmente nei casi in cui la disabilità viene causata da un errore medico, i genitori tenderanno a pensare che il danno poteva essere evitato, attribuendo le colpe all’esterno ed aumentando l’intensità emotiva di tipo negativo. La rabbia diventa positiva qualora si trasformasse in grinta, energia necessaria al raggiungimento dei propri obiettivi.

Emozione tipicamente sperimentata è altresì quella del senso di colpa, con conseguente sensazione di inutilità e percezione di inefficacia. I genitori, infatti, possono ritenere di aver – seppur involontariamente – provocato al figlio un danno e, di conseguenza, tendere inutilmente alla riparazione di esso o all’espiazione del dolo. Sentirsi colpevoli, qualora si fosse deliberatamente causato pregiudizio, è un’emozione utile e funzionale al conseguente risarcimento; ma nel caso descritto la colpa provoca esclusivamente un rimorso afinalistico.

La tristezza viene descritta dai genitori di figli diversamente abili come un sentimento di “lutto” verso una mancata genitorialità così come la si era immaginata. L’umore deflesso si accompagna a pianto, apatia, scarsa energia e comportamenti di chiusura e ritiro. Lo scopo di vita dei padri e delle madri potrebbe infatti essere percepito come irrimediabilmente compromesso, con pensieri quali “non c’è più niente da fare”, “non sarò mai un genitore normale”. La tristezza può essere letta però anche come un’emozione con risvolti positivi: permette infatti una riorganizzazione mentale, imponendo una riflessione su quanto accaduto, che può essere utile e funzionale alla necessaria elaborazione cognitiva, per dare nuove interpretazioni agli eventi negativi vissuti.

L’emozione della vergogna può essere sperimentata dai caregivers familiari nei casi in cui la disabilità del figlio si renda apertamente visibile agli altri. Arrossire, sudare, desiderare di nascondersi e di distogliere lo sguardo sono alcune delle sensazioni percepite da coloro che provano vergogna: i genitori possono infatti sentirsi incapaci, falliti, inadeguati nell’autovalutazione di sé, giudicarsi non all’altezza nelle situazioni di esposizione sociale. Una elevata sensibilità alla critica e al giudizio rende maggiormente vulnerabili all’esperienza di tale emozione, così come il morboso desiderio di compiacere e di aderire a rigidi ed elevati standard esterni.

Infine, i caregivers familiari esperiscono l’emozione di invidia. Nel confronto con diverse famiglie, infatti, i genitori potrebbero tendere ad esaltare le condizioni degli altri bambini, situazioni da essi desiderate e impossibili da raggiungere. Tale emozione provoca una sensazione di perenne insoddisfazione e, seppur perfettamente comprensibile a livello emotivo, andrebbe gestita adeguatamente allo scopo di diminuire l’intensità del malessere, già presente nei caregivers.

Unitamente alle emozioni negative precedentemente descritte, si sottolinea la sensazione di profondo dolore provocato dalla nascita di un figlio con difficoltà. L’accumularsi di stati d’animo spiacevoli, reiterati nel tempo e non adeguatamente trattati, può condurre ad uno stress cronico nei caregivers. Se è vero che la nascita di un figlio disabile comporta sicuramente sofferenza, è altresì corretto sottolineare come di fronte ad un medesimo evento negativo esistano modalità molto differenti di interpretarlo e, di conseguenza, di fronteggiarlo.

Numerose ricerche hanno evidenziato come alcune caratteristiche individuali dei caregivers influenzano la capacità di tollerare la pesantezza dei compiti assistenziali a cui vengono chiamati. Nello specifico, requisiti di natura demografica e socio-economica – quali l’età, il genere, la cultura di appartenenza e lo status del caregiver – incidono nell’abilità di fronteggiare più o meno efficacemente lo stress della cura, così come lo stato di salute e benessere psicofisico in cui si trova il genitore nel momento della presa in carico. Inoltre, si rivelano importanti le caratteristiche psicosociali del caregiver, ovvero la personalità, le disposizioni caratteriali, il temperamento, la rete sociale ed il sostegno di cui dispone. Va sottolineato altresì che una variabile è costituita dalla relazione emotiva ed affettiva tra il genitore ed il care-reciver: non tutti i rapporti tra un caregiver ed un figlio, infatti, sono simili.

Studi scientifici rilevano l’importanza dell’autoefficacia percepita: nella prevenzione del caregiver burden, infatti, una caratteristica fondamentale è relativa alla sensazione di riuscire ad agire incisivamente nei diversi compiti a cui il genitore è chiamato, di avere potere e di essere utile nell’aiuto fornito al figlio diversamente abile. L’autoefficacia viene considerata ad oggi un moderatore della relazione tra stress e benessere, pertanto diventa fondamentale considerarlo un aspetto da potenziare. I caregivers meno resilienti, ovvero scarsamente resistenti nella tolleranza all’evento traumatico da cui sono stati investiti, hanno maggiore probabilità di istituzionalizzare il figlio disabile o, comunque, di mostrare difficoltà nella gestione della sua crescita; al contrario, alti livelli di resilienza si legano ad una migliore capacità di cura, in quanto sinonimi di maggiore fiducia in se stessi e sicurezza circa le proprie competenze nel fornire assistenza al minore. Inoltre, il supporto sociale e professionale di cui il caregiver familiare può beneficiare incide notevolmente sullo sviluppo dello stress psicofisico: disporre di una rete di sostegno, infatti, influenza il cosiddetto stile di attribuzione, ovvero la modalità con cui i genitori valutano le situazioni connesse alla disabilità del figlio.

Il possibile sviluppo di un elevato grado di caregiver burden dipende da molteplici fattori aggiuntivi: il carico di tempo, ovvero l’impegno che i genitori dedicano all’assistenza dei figli durante la giornata; il carico evolutivo, ossia la sensazione di perdere chances ed opportunità rispetto alla propria generazione, a causa degli oneri assistenziali a cui si è costretti; il carico fisico, che riguarda le ripercussioni sulla salute dei caregivers in termini di fatica, perdita di sonno, stanchezza; il carico sociale, relativo alle relazioni con gli altri membri della propria famiglia e, nello specifico, all’eventuale presenza di conflitti emersi in concomitanza alla condizione di disabilità del minore; il carico emotivo: la sperimentazione delle sensazioni negative del caregiver nei confronti del figlio e della sua disabilità.

Quali sono dunque le possibili strategie da adottare nella gestione di tali emozioni, allo scopo di prevenire lo sviluppo dello stress genitoriale?

La condizione di caregiver non può essere letta all’interno dei modelli classici dello stress: l’effetto dell’evento traumatico, infatti, non è diretto ma viene mediato da fattori di vulnerabilità e di risorse individuali. Esistono disposizioni cognitive e sociali capaci di agire come fattori di auto-regolazione nella gestione del “burden”. La nascita di un figlio diversamente abile non può essere considerato un processo unitario: è mutevole nel tempo e si caratterizza da situazioni e difficoltà notevolmente differenti tra loro, anche a seconda del grado di disabilità e della cronicità dei sintomi riportati dal minore. All’interno di un ventaglio così ampio di circostanze, nessuna strategia di coping può essere considerata sempre e comunque funzionale. Nella maggior parte dei casi, generalmente, si considera efficace la capacità di accettazione dell’evento subito: ciò implica il potere di non cadere in condizioni di ritiro, evitamento, negazione o tentativo di non affrontare quanto accaduto. Strategie che potrebbero rivelarsi efficaci a breve termine ma che, con il trascorrere del tempo, sono destinate a condurre verso il contatto con emozioni intense e dolorose.

Naturalmente, la mancanza di adeguati spazi e risorse per prendersi cura di se stessi costituisce un importante fattore di stress: l’assenza di tempo da dedicare al benessere personale può divenire deleteria per il genitore, provocando conseguenze negative a livello psicofisico ed emotivo. I caregivers familiari andrebbero infatti sostenuti nel ritagliarsi uno spazio di individualità e di condivisione con il partner e con eventuali altri figli, allo scopo di prevenire lo stress e di salvaguardare le relazioni interpersonali. Il sostegno sociale, ovvero la possibilità che il genitore ha di accedere a differenti tipi di aiuti e di risorse attraverso la comunità di cui fa parte, riveste funzioni importanti quali fornire un supporto emotivo ma anche informativo, con un effetto diretto sul benessere. A tale scopo, funzione importante è rivestita anche dalle numerose associazioni che si occupano di disabilità.

Studi scientifici sono concordi nell’indicare come intraprendere un percorso psicoterapeutico può assolvere lo scopo di interpretare differentemente la situazione negativa vissuta, attribuendogli nuovi significati per favorire un adeguato processo di regolazione emotiva. In conclusione, appare dunque fondamentale poter chiedere aiuto per fronteggiare funzionalmente la condizione di genitorialità con un figlio diversamente abile, allo scopo di vivere tale esperienza in maniera equilibrata e prevenendo la comparsa di un invalidante “peso dell’assistenza”.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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