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Perché le persone non scaricano l’app Immuni – Psicologia Digitale

Se fossimo solo degli esseri razionali adotteremmo ogni misura per preservarci dal Covid-19; cosa ci rende invece così poco propensi a scaricare Immuni?

Di Chiara Cilardo

Pubblicato il 03 Lug. 2020

Aggiornato il 11 Nov. 2020 14:25

L’app Immuni ci aiuta ad individuare possibili contatti a rischio eppure ci sono ancora molti dubbi e un atteggiamento di scetticismo e preoccupazione e, sebbene garantisca il pieno rispetto dei diritti dei consumatori e l’anonimato, sono ancora pochi gli utenti che l’hanno scaricata: si stima solo 8 su 100.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 11) Perché le persone non scaricano l’app Immuni

 

Quando la paura non è abbastanza

La pandemia ci ha travolti; questi mesi hanno avuto un impatto molto profondo sulla quotidianità e su tutti gli aspetti di vita: lavoro, relazioni, progetti. Ci siamo trovati di fronte a qualcosa di enorme e di incognito, un virus di cui tuttora sappiamo poco. Sappiamo che una cura non esiste e che c’è ancora da stare molto attenti; sappiamo che i sacrifici degli scorsi mesi ci hanno aiutato a rendere meno drammatica la situazione e gli esiti, a limitare i danni; sappiamo che c’è ancora tanto da fare e che sta a noi, tutti noi, proseguire sulla strada giusta, seguire le direttive sanitarie più aggiornate e fare del nostro meglio tutti i giorni per evitare che si creino situazioni a rischio. La paura l’abbiamo toccata con mano, non è passato tanto da quando l’appuntamento fisso era alle 18 per il bollettino della Protezione Civile. Ed ora che siamo qui, dopo tutto questo, attenti ad inforcare mascherina e guanti anche solo per andare a portare fuori il cane, la paura è più controllata ma serpeggia ancora fra noi.

Se fossimo solo degli esseri razionali adotteremmo ogni misura disponibile per preservarci, compreso utilizzare un’app che ci dice se siamo venuti in contatto con persone positive; cosa ci rende invece così poco propensi a scaricare l’app Immuni? Perché non abbiamo la stessa cura e attenzione verso i nostri dati e la nostra privacy quando si tratta di altri siti, app, piattaforme, che hanno ben altri scopi?

I dati, il nuovo petrolio

Nel settore del digital si dice che i dati siano il nuovo petrolio: grazie a strumenti sempre più sofisticati si può arrivare a conoscere davvero molte cose su chi naviga su Internet. E tutti noi siamo online. In realtà però, fatta eccezione per servizi che necessitato di chiedere informazioni personali esplicite (come nome, cognome, mail), di norma a nessuno interessa la reale identità di un utente, i dati devono essere big data quindi grandi numeri aggregati perché siano significativi. Allora ancora una volta, come mai siamo così preoccupati di scaricare Immuni?

Perché siamo così propensi a cedere i nostri dati: il paradosso della privacy

Siamo disposti a cedere a Facebook Inc. (che, ricordiamo, possiede tra le altre cose anche Whatsapp e Instagram, e perfino Giphy) ogni giorno tutti i nostri dati, incluse foto (anche di minori), video, messaggi, audio, spostamenti, interessi. Certamente, in forma anonima e aggregata, ma chi ha letto tutte le condizioni di privacy? Non è un mistero che questi dati siano una ricchezza: è sulla base di questi che viene erogata la pubblicità che noi tutti vediamo. Sembra pervasivo e lo è. Del resto è un servizio gratuito gestito da un’azienda privata per cui una fonte di remunerazione dovrà pur averla. Ma noi siamo disposti a farlo; la domanda è: perché?

Le persone, anche se si dichiarano preoccupate e interessate riguardo la raccolta e l’utilizzo dei loro dati personali, li rivelano in cambio di piccole ricompense, molte delle quali sono intangibili, come riconoscimento e attenzione dei pari come accade nei social network. La dicotomia fra atteggiamento e comportamento viene definita in letteratura ‘privacy paradox’ o meglio ‘information privacy paradox’ quando si riferisce specificatamente a raccolta, archiviazione, elaborazione e diffusione dei dati personali. I primi studi risalgono al 2001 quando Brown individua per la prima volta un paradosso: le persone che intervista esprimono preoccupazione rispetto alla privacy eppure allo stesso tempo effettuano acquisti online cedendo di fatto dati personali in cambio di sconti.

Secondo Acquisti (2004) questo avviene perché siamo soggetti al bias della gratificazione immediata. Le nostre scelte non sono pienamente razionali e ponderate, ma spesso guidate almeno in parte da bias: secondo il suo modello, barattiamo senza pensarci troppo i nostri dati con un vantaggio immediato, che sia materiale o immateriale come lo sconto su un prodotto, il riconoscimento sociale, risparmiare tempo con operazioni online. Non fa differenza quanto siano sensibili i dati condivisi (certo c’è differenza tra il divulgare l’età o l’indirizzo di casa): le persone danno un peso maggiore ai benefici attesi piuttosto che ad eventuali rischi.

Ci sono poi delle azioni che gli utenti fanno e che ritengono più che sufficienti a tutelarsi. Per esempio, utilizzo di pseudonimi o la limitazione dell’accesso ai propri contenuti a una cerchia più ristretta di contatti. Vengono definite Privacy-Protective Responses (IPPRs) (Son and Kim, 2008) tutte quelle misure adottate per aumentare la propria privacy online come per esempio rifiutarsi di dare informazioni; inserire informazioni false; rimuovere alcune informazioni personali; disinstallare o non utilizzare app e servizi; far presente attivamente alle aziende coinvolte le perplessità e insicurezze circa la raccolta e l’utilizzo dei loro dati personali.

Un altro aspetto spesso non considerato è il contesto. Gli individui percepiscono diversamente il cedere la stessa identica informazione se si trovano in un negozio fisico di fronte a un commesso, in uno store online o nello studio di un ricercatore. Ancora, le informazioni personali sono tante, con diversi livelli di ‘sensibilità’ e con diversi usi: c’è differenza tra il dire la propria età o la propria email, il proprio indirizzo o il numero della carta di credito. Le persone lo sanno e attribuiscono valori diversi a informazioni diverse. Dati come posizione, stato di salute, cronologia di navigazione, età e peso sono trattati in modo diverso dalle persone, così come diversi sono i rischi: minacce sociali (come bullismo e stalking) o usi non trasparenti (come la vendita dei dati a terze parti) sono visti in maniera diversa.

Perché non scarichiamo Immuni

L’app Immuni è stata progettata e sviluppata con grande impegno e trasparenza. Sul sito sono disponibili tutte le informazioni necessarie per comprendere il funzionamento e l’utilizzo che si fa dei dati raccolti, che, come leggiamo, in realtà non vengono raccolti: nome, cognome, data di nascita, numero di telefono, indirizzo email, posizione e movimenti non vengono tracciati.

Addirittura, si può accedere al codice e ad altri dettagli molto tecnici. Il funzionamento si basa sull’assegnazione di codici casuali che permettono il match nel caso in cui si venga a contatto con una persona positiva, in modo da prendere le precauzioni e le misure necessarie. Sta ai singoli prima di tutto scaricarla, poi in caso segnalare la propria positività e in caso qualcuno sia venuto in contatto con noi (e abbia scaricato l’app, chiaramente!) riceverà una notifica.

A pensarci, ogni giorno lasciamo online molti più dati e molto più sensibili per fare cose molto meno rilevanti, come svagarsi sui social network. Stiamo vivendo un periodo storico eccezionale in cui la nostra libertà è fortemente limitata, con tutto quello che ne consegue anche a livello economico. Anche se siamo passati a misure molto meno restrittive, rimane il timore che la situazione possa nuovamente degenerare e la presenza di nuovi focolai non è certo rassicurante. E allora come mai Immuni è stata accolta con tanta ritrosia e così poche persone l’hanno scaricata?

Il paradosso della privacy risponde a questa domanda. Le persone non hanno nessun beneficio immediato dallo scaricare l’app, per avere informazioni dettagliate su come funziona bisogna essere molto motivati (e anche tecnici!) e alcuni bias influenzano la decisione. Pensiamo all’euristica dell’affetto. Come tutte le euristiche, si tratta di una scorciatoia di pensiero che consente alle persone di prendere decisioni e risolvere i problemi in modo rapido ed efficiente, ma come funziona? Nell’euristica dell’affetto l’emozione del momento influenza le decisioni e viene utilizzata per valutare rischi e benefici. Se i sentimenti verso un’attività sono positivi, allora le persone hanno maggiori probabilità di giudicare i rischi bassi e i benefici alti. D’altra parte, se i sentimenti verso un’attività sono negativi, è più probabile che percepiscano i rischi come alti e i benefici bassi.

Stiamo parlando di un’app che nasce, serve ed è legata ad un contesto di forti sentimenti negativi: paura, rabbia, tristezza, ansia. Nell’immediato, non offre alcun beneficio. Informazioni tecniche sono difficilmente interpretabili ai più. 
Non stupisce quindi che Immuni sia uno strumento poco utilizzato e visto con diffidenza. La ricerca in psicologia sociale ci ha ampiamente confermato che l’uomo non è ‘uno scienziato’ quando si tratta di fare delle scelte, anche quando deve valutare i rischi; forse però sarebbe il caso di riprendersi un po’ di quella razionalità e fare delle scelte consapevoli.

 


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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Acquisti, A. (2004). Privacy in electronic commerce and the economics of immediate gratification. In: Proceedings of the 5th ACM conference on electronic commerce. May, 17-20, New York, USA.
  • Brown, B. (2011). Studying the internet experience. HB Laboratories Technical Report (HPL-2001-49).
  • Kokolakis, S. (2017). Privacy attitudes and privacy behaviour: A review of current research on the privacy paradox phenomenon. Computers & Security, Vol. 64, 122–134.
  • Son J.Y. & Kim, S.S. (2008). Internet users’ information privacy protective responses: a taxonomy and a nomological model. MIS Quart 32(3): 503-29.
  • www.immuni.italia.it
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