Le situazioni a rischio più frequenti che conducono alle cosiddette selfie deaths comprendono trovarsi in aree impervie ad alte altitudini, su cascate, su binari dei treni, fare selfie con armi che accidentalmente esplodono un colpo, mentre si è alla guida o con animali non addomesticati.
PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 10) Morire per una foto: le selfie deaths
La notizia è di pochi giorni fa: Olesya Suspitsyna, giovane guida turistica, è morta cadendo da un dirupo nel parco turco di Duhan, famoso per le sue cascate.
Lì con una amica, si era allontanata dalla recinzione di sicurezza per scattare un selfie che la ritraesse con lo sfondo spettacolare della scogliera ma è scivolata compiendo un volo di 35 metri, troppi perché potesse salvarsi.
Dall’autoscatto al selfie
Alzi la mano chi non ha mai scattato un selfie: non c’è nemmeno bisogno di spiegare che cos’è. Selfie è un termine giovane: nascita e prima definizione risalgono al 2005 quando il fotografo Jim Krause lo utilizza per la prima volta nel suo book Photo Idea Index. Nel 2012 l’Accademia della Crusca lo definisce ‘un autoscatto creato per essere condiviso sui social’, ponendo l’accento sulla condivisione e sull’unicità del termine, di cui non esiste infatti un corrispettivo italiano. L’anno successivo il termine ‘selfie’ diventa parola dell’anno per l’Oxford Dictionary che ne dà una definizione identica: ‘foto di sé (da soli o in compagnia) destinata alla condivisione’, riconoscendone in via definitiva la popolarità.
Il selfie come condotta a rischio: le selfie deaths
Le cosiddette ‘selfie deaths’ (dette anche killfies) sono decessi causati da una condotta a rischio attuata col preciso scopo di scattare un selfie; vanno incluse in questa triste numerica anche le persone morte per prestare soccorso o che erano con chi materialmente faceva lo scatto. Si tratta di morti che avrebbero potuto essere evitate se qualcuno non avesse spinto la voglia di un autoscatto social oltre i limiti. La maggior parte delle selfie deaths avvengono in India, seguite da Russia, USA e Pakistan; le situazioni a rischio più frequenti sono: trovarsi in aree impervie ad alte altitudini, su cascate, su binari dei treni, fare selfie con armi che accidentalmente esplodono un colpo, mentre si è alla guida o con animali non addomesticati, come tigri (Lamba et al, 2017). Ad oggi sono state registrate ufficialmente 327 ‘selfie deaths’. Il numero totale di morti potrebbe essere molto più alto, dato che molti casi potrebbero non essere stati considerati selfie deaths.
Killfies: nuove teorie e aree di ricerca, dipendenza o narcisismo?
Del fenomeno ci siamo già occupati qualche mese fa, con la lente delle teorie di Daniel Kahneman secondo cui il processo decisionale ‘immediato’ è coinvolto nei comportamenti a rischio, inclusi quelli che possono portare alla morte per una foto. Ci sarebbero però anche altre spiegazioni.
Per Lodha e De Sousa (2019), rispettivamente psicologa clinica e psichiatra operativi in India, i selfie sono validi mezzi di definizione, rappresentazione ed espressione di sé e strumenti per rimanere in contatto con gli altri. Parte importante dell’identità personale, possono rappresentare un problema quando l’uso è disfunzionale e rivela fenomeni psicologici come scarsa fiducia in se stessi (da qui il bisogno di essere validati dal giudizio esterno, i like), o tendenze narcisistiche preesistenti (tesi esplorata a fondo da Maddox, 2017). Molti professionisti della salute mentale associano la compulsione a farsi selfie con altri disturbi mentali, come dismorfofobia e insoddisfazione corporea e in rari casi addirittura psicosi, oltre che con bassa autostima, FOMO (fear of missing out, la paura di essere esclusi dai social) e isolamento. Secondo Lodha e De Sousa possiamo parlare di ‘sindrome da selfie’ o ‘disturbo da dipendenza da selfie’, o, come lo definirebbe Bergum (2019), selfitis: compulsione clinicamente significativa, una vera e propria dipendenza, a scattare più volte al giorno foto di se stessi da pubblicare sui social.
Le selfie deaths sarebbero una delle conseguenze di questo disturbo, quella più tragica: l’impulso incontrollabile porta a comportamenti rischiosi, senza preoccupazione o comunque sottostimando il rischio in nome della foto perfetta.
Selfie vs killfie: guardami mentre mi mostro
Ogni giorno moltissimi selfie vengono scattati e condivisi senza alcuna conseguenza per l’incolumità delle persone. E’ chiaro che attira più l’attenzione dei media l’evento tragico, seppur per fortuna molto raro.
Per dare un senso a queste morti si ricorre spesso ad una narrativa che riconduce al mito di Narciso e del suo specchiarsi in se stesso, anche se un selfie non dice solo ‘guarda qua, qui, ora’ ma anche ‘guardami mentre mi mostro’: siamo più nell’ambito della micro celebrity, del creare di se stessi un brand. Secondo Maddox (2017) la lettura del sé patologicamente Narciso è anacronistica: per la Generation Me, quella dei nativi digitali, i social sono parte delle normali interazioni quotidiane; una generazione fortemente influenzata dai social e soprattutto dalla quantificazione: il ‘sé quantificato’ di cui parlano Lodha e De Sousa (2019), il cui valore dipende dal numero di like, commenti, follower.
Le selfie deaths, se pure un fenomeno di nicchia, hanno attirato l’attenzione di studiosi e portato alla nascita di un movimento, il Selfie to die for, che promuove la sensibilizzazione sui rischi di spingersi troppo oltre per fare una foto.
Fare selfie comunque ha anche molti aspetti positivi: espressione di sé, condivisione, attenzione e accettazione da parte degli altri; solo che, a volte, con un costo troppo alto.
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