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Peccati Capitali e Psicopatologia: quali peccati per quali disturbi?

È possibile rintracciare l'accidia, come anche gli altri peccati capitali, nascosti tra le diverse forme di psicopatologia?

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 17 Gen. 2019

Accidia, Lussuria, Gola, Avarizia, Ira, Superbia e Invidia.. chi non conosce i sette peccati capitali e non è incappato in almeno un paio di questi nell’arco della propria vita? Quello che vi proponiamo è un divertente viaggio all’interno della psicopatologia alla ricerca di analogie e differenze tra peccati capitali e alcuni tra i principali disturbi.

 

La recente visione di “Seven”, un film del 1995 di David Fincher (con un cast stellare e la visita a Padova alla cappella degli Scrovegni con il ciclo di Giotto) mi ha spinto a cercare nella psicopatologia dove abbiano fatto la tana i sette peccati capitali, definiti tali perché secondo la tradizione cattolica da essi derivano come conseguenza tutti gli altri e le sofferenze degli esseri umani (sto pensando di trasformare la seconda “C” di SITCC in Cattolica approfittando della scomparsa degli ultimi comportamentisti, ma il progetto va per le lunghe in quanto Roberto Mosticoni gode di ottima salute).

L’accidia

Subito mi sono “amminchiato” come direbbe Montalbano “sull’ accidia”, che è tra i sette la meno riconosciuta forse proprio perché sta diventando così diffusa che la si considera normale e talvolta persino meritoria. È interessante che molti non sappiano neppure cosa sia e la confondano, per un problema di assonanza, con l’invidia o con l’inedia che non è neppure un peccato, tanto meno capitale, ma semplicemente la fame nera con il torpore che vi si associa prima di raggiungere il creatore. Un altro motivo per scegliere di partire dall’accidia è che io ne sono il prototipo vivente e dunque al giudizio finale potrò chiedere le attenuanti generiche sostenendo che me ne stavo occupando, come sempre solo a chiacchiere e pensierini, per risolverla o perlomeno mitigarla. Si tratta in realtà di una profonda avversione all’operare che la fa spesso scambiare per semplice pigrizia o indolenza, ma la cui caratteristica interiore fondamentale è l’indifferenza con il lento sprofondare nel torpore e nella noia. Nulla tocca l’ accidioso, tutto gli rimbalza addosso, niente lo tange, è distaccato da ogni cosa, non si cura di nulla, è molto vicino alla pax cadaverica, non soffre e non gode. L’ accidioso forse per paura di soffrire, incapacità o codardia, evita le passioni, si ritira e spreca la vita. L’ accidioso è un nemico del fare, sempre pronto a scendere in campo criticamente contro chi fa, anche con la derisione. Non ha voglie, desideri, slanci: mescola in cocktail venefico che uccide lentamente senza spasmi o sobbalzi noia e indifferenza, cinismo e distacco. Tutto ciò è anche un modo arrogante e sprezzante di prendere le distanze dagli altri tipico del narcisismo.

L’ accidia è un grave male sociale i cui nefasti effetti si sono fatti drammatici nel secolo breve. Tale atteggiamento è ben descritto nel sermone del pastore Niemoller ripreso da Brecht che recita

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare.

L’ accidia non è semplice pigrizia ma soprattutto disinteresse, un velo opaco che distanzia e rende ogni cosa sopportabile ma superflua, inutile, insensata e fa sentire spenti, vuoti, senza energie. Oppure, all’opposto, in questo vuoto di significati profondi risulta impossibile fermarsi, restare in silenzio senza qualcosa da compiere e a cui pensare, un fare che diventa un affaccendarsi ascopico.

“Accidia” significa letteralmente debolezza dell’anima che si manifesta come assenza di attrazione, di desiderio di vita, perché considerata priva di senso. Sotto questo punto di vista, l’ accidia è molto affine alla depressione psicologica, il «male oscuro», molto diffuso nelle odierne società occidentali. L’ accidia non coincide tuttavia con la depressione, perché può essere vissuta con umore euforico, attivo e operoso. Ciò che ne definisce l’essenza non è tanto la passività o l’attivismo quanto piuttosto il disinvestimento libidico sul mondo e sugli altri.

Alcuni passi biblici ben descrivono lo stato d’animo accidioso:

Presi in odio la vita, perché mi era insopportabile quello che si fa sotto il sole. Tutto infatti è vanità e un correre dietro al vento. (Qo 2,17)

Una tristezza straziante e diffusa nei confronti della pesantezza del vivere viene espressa in modo lucido e folgorante dal libro di Giobbe o dal profeta Geremia. In estrema sintesi la filosofia dell’accidioso è espressa nelle famose parole di Qoelet (l’ecclesiaste) quando dice

Vacuità delle vacuità, tutto è vacuità.

e dunque a che vale impegnarsi?

Accidia intesa come ripiegamento narcisistico

L’ accidia consiste in un ripiegamento narcisistico su se stessi sprezzante per tutto il resto e sembra essere la conseguenza più evidente di una cultura e mentalità egocentrica, che fa di se stessi il centro di tutto. Dietro l’apparente superiorità che sembra collocare l’ accidioso in uno stato di serena contemplazione dell’affaccendarsi degli altri umani per le vicende quotidiane che a lui sembrano poca cosa, c’è la paura di misurarsi con le cose e con gli altri per non dover fare i conti con la propria temuta impotenza. Finge, con se stesso prima di tutto, che nessun gioco gli interessi perché è certo di perdere. Preferisce la morte interiore al rischio di vivere. È naturalmente un conservatore che si esime in tutti i modi dal modificare il corso degli eventi, lascia correre, non si impegna in nulla, tutto accetta e tutto giustifica ma non per l’amore che San Paolo esalta con parole analoghe nell’inno all’amore, ma per totale indifferenza. Emotivamente sperimenta apatia e assoluta anedonia, che si esprime comportamentalmente con un astensionismo militante a protezione della fragilità dell’autostima potendo sempre dirsi “se mi fosse interessato…, se davvero avessi voluto e mi fossi impegnato…”.

Manifestazioni dell’ accidia si possono trovare in molti quadri psicopatologici trattandosi di una strategia del disimpegno buona per molti diversi problemi, ma certamente la sua casa madre è nell’area della depressione da fallimento narcisistico.

L’ accidia è culturalmente un tratto che si ritrova in popolazioni che sono state lungamente abituate ad essere suddite di un potere assoluto e incontrastato e i romani inventori del “chissenefrega” e del più rude “e sti c….” ne sono il prototipo, abituati al dominio dell’imperatore prima e del papato poi, sono diventati degli abilissimi imperturbabili incassatori consapevoli che “tanto tutto passa”. All’estremo opposto ci sono quelli che possiamo genericamente definire “talebani”. Il talebano prende tutto maledettamente sul serio. Fa le cose fino in fondo, ci crede veramente. È tutto d’un pezzo. Non scherza mai con le cose serie, che per lui sono tutte. Se è di sinistra farà il brigatista. Se è cattolico si accoppia solo secondo le indicazioni vaticane. Se ha un vizietto diventa drogato all’ultimo stadio e poi convertitosi farà l’operatore nelle comunità per tossici più intransigenti e severe. Non è uomo dalle mezze misure. È sempre in buona fede ed in nome di ciò può commettere i crimini più orrendi a posto con la sua coscienza. È geneticamente un estremista e un intollerante. Applica ciò anche ad aspetti marginali come l’alimentazione e fa parte di gruppuscoli estremisti che hanno vaste categorie di cibi vietati. Il rigore è elemento essenziale quale che sia la scelta in questione. Il romano accidioso se ne frega, non prende niente sul serio. È incapace di indignazione e di slanci. Sa che prima o poi tutto cambia e dunque basta aspettare senza scaldarsi troppo. Il romano ne ha viste troppe, ha una saggezza da sampietrino e lascia che tutto gli passi sopra. Raramente interviene sulla realtà per modificarla, aspetta che si assesti da sè. L’emozione di base è l’indifferenza come per il talebano era l’orgoglio, lo sdegno sprezzante e l’indignazione rabbiosa. Il romano misura le sue scelte operative in termini di fatica che costano e la regola decisionale è il risparmio energetico. Non ama le persone che lo sollecitano, ma in compenso non rompe le palle agli altri “vive e lascia vivere”. Si badi che il romano non è qui inteso come abitante di Roma, ma è una categoria dello spirito, l’ accidia appunto. Tuttavia è innegabile che l’amministrazione pubblica sia il suo habitat naturale per cui innumerevoli esemplari vengono a riprodursi nella capitale. Tra i suoi sogni proibiti c’è fare il bidello in una elementare o l’usciere al ministero.

Una possibile strategia di intervento sull’ accidioso, peraltro del tutto non richiesto dall’interessato immotivato e ostile al cambiamento, è la rappresentazione della ineluttabilità della morte (talvolta casuali esperienze di morte sfiorata o decretata imminente possono da sole risolvere l’ accidia ma purtroppo troppo tardi: il desiderio di vivere si risveglia ad agonia già iniziata).

Possono essere molto utili i classici compiti dell’ACT per l’identificazione dei valori per cui vivere e quelli che lo fanno confrontare appunto con la brevità dell’esistenza e l’eternità del nulla. Intorno al suo letto di morte pochi o assenti saranno i rimorsi, e non riusciranno a farsi largo tra la folla dei rimpianti che lo accompagneranno alla tomba sulla cui lapide saranno scritte le due date senza nulla in mezzo.

Lussuria, Gola e Avarizia

Se l’ accidia è riducibile ad un estremo ritiro dell’investimento libidico sulle cose del mondo, all’estremo opposto di essa si pongono la lussuria, la gola e l’ avarizia che sono un tentativo smodato e insaziabile di appropriarsene per godere appieno di tutte le risorse disponibili. Il piacere del cibo serve a mantenere sempre attivo lo scopo di alimentarsi strettamente connesso con la sopravvivenza individuale già nel primitivo cervello rettiliano. Il piacere associato alla sessualità è a sua volta connesso allo scopo della riproduzione e a tutto il sistema motivazionale interpersonale sessuale presente nel lobo limbico del cervello dei mammiferi. Infine l’avarizia (che deriva dal greco “avidus”) consiste nell’accumulo di risorse non immediatamente necessarie è interpretabile come una strategia generale preventiva della carenza di risorse e dunque finalizzata anch’essa alla sopravvivenza. Dunque queste tre attività (consumare cibo, accoppiarsi e accumulare risorse) sono tutte importanti per la sopravvivenza individuale e della specie e come tali sono state associate ad emozioni positive e ad intenso piacere (se da un architetto intelligente come credono alcuni o dall’evoluzione non ha in questo contesto importanza) in modo che non fossero dimenticate e trascurate dai singoli individui, per cui un loro esercizio non ha nulla di patologico. I problemi si pongono quando tali automatismi istintuali (limbici o rettiliani) vengono valutati dal superiore livello corticale, che interviene secondo scopi propri e interferisce con il loro naturale fluido automatismo.

Ad esempio tutte e tre queste attività finiscono per convergere e attivare il centro del piacere (*nota 1) che incentiva qualsiasi attività, che lo stimola cercando di reiterarla il più possibile. Andiamo costantemente alla ricerca di ciò che ha stimolato anche una volta soltanto il nostro centro del piacere che modula a tale scopo la motivazione e l’apprendimento. Il piacere provato diventa la ricompensa che ci spinge a ripetere all’infinito il comportamento senza un meccanismo di arresto. Insomma per dirla in altri termini, il piacere che era un effetto collaterale del perseguimento di scopi evolutivamente utili diventa a sua volta il principale motivatore del comportamento stesso (si inizia perché serve e si continua perché piace). Si istaura una vera e propria dipendenza dalla ricompensa ed è il piacere in sé ad essere ricercato anche quando gli scopi della sopravvivenza e della riproduzione sono stati raggiunti o non sono affatto in gioco. Le ricompense primarie sono quelle connesse con la sopravvivenza individuale (ad es. il cibo) o della specie (il piacere sessuale e negli investimenti parentali di cura della prole) sono intrinsecamente piacevoli e non necessitano di apprendimento. Le ricompense estrinseche (ad esempio il denaro e gli altri beni coinvolti nell’avarizia) acquistano il loro valore motivazionale per una associazione indotta (condizionata) con le precedenti ricompense intrinseche (ad esempio: chi è più ricco mangia meglio e ha più partner). Tutte le ricompense producono apprendimento associativo (cioè condizionamento classico e rinforzo operante), influenzano il processo decisionale orientandolo alla ricerca degli stimoli gratificanti, suscitano emozioni positive ed in particolare piacere intenso.

Questi meccanismi sono alla base di tutti i fenomeni di dipendenza o “addict” che si ritrovano in molte patologie e vanno continuamente espandendosi con nuove dipendenze (si pensi a quelle legate all’uso del web), perché tutto ciò che è in grado di stimolare i circuiti del piacere è potenzialmente capace di dare una dipendenza autorinforzantesi e perdendo di vista gli scopi ai quali era originariamente indirizzato il comportamento. Tutte queste dipendenze che si celano dietro il termine classico di “gola”, “lussuria” e “avarizia”, non ci interessano in questa sede in quanto peccati dal punto di vista morale, ma come generatori di sofferenza per il loro meccanismo intrinseco di insaziabilità. Non c’è un meccanismo di “stop”, il vissuto soggettivo è che non basti mai e dunque si sperimenta una sensazione crescente di mancanza e si subiscono i danni degli effetti collaterali individuali e sociali.

L’interferenza dei livelli corticali superiori non si limita soltanto all’area delle dipendenze e del discontrollo degli impulsi ma si può manifestare anche in altri modi. Come quando il comportamento alimentare viene disturbato perché su di esso si giocano altre sfide relazionali, ad esempio con i genitori o sfide del tutto individuali riguardanti il controllo onnipotente sui propri istinti. Per non parlare del fatto che sulla potenza sessuale e sulla ricchezza interferiscono pesantemente temi di identità, valore personale e di rango sociale. Le ricompense intrinseche ed estrinseche ci guidano seguendo l’itinerario del piacere verso la sopravvivenza individuale e la proliferazione della specie.

L’ira

Ma cosa avviene quando lungo questo cammino si incontra un ostacolo? Ci viene in soccorso un altro dei cosiddetti peccati capitali. L’ira è forse il primo dei peccati capitali di cui si sente parlare a scuola in riferimento al più noto di tutti i supereroi di sempre, il “piè veloce Achille” che avendo litigato con Agamennone, guarda caso, per via di una donna (un’altra dopo l’Elena che era stata la causa per cui da 10 anni gli achei assediavano Troia), la schiava Briseide, si rifiuta di andare a combattere sbilanciando gli equilibri in campo a vantaggio dei troiani e provocando molti morti tra i soldati greci (un po’, per capirci, come se Ronaldo ingrugnato decidesse di rimanere negli spogliatoi nella finale di coppa). Quindi l’ira, che si manifesti in modo esplosivo facendo stragi o con un cupo ritiro, è il desiderio irrefrenabile di vendicare quello che si ritiene un torto subito. Il blocco risentito di Achille (lo ricordo per i curiosi accidiosi che non vogliono andarsi a rileggere l’Iliade) viene poi superato quando un’altra ira – stavolta per le stragi che nel frattempo compivano i troiani – scaccia la prima. Insomma Achille era un semidio quasi del tutto invulnerabile ma certamente un iracondo.

L’ ira, quando si scatena, è tiranna su tutti gli altri stati d’animo e considerazioni ragionevoli, offusca la mente, si dice “essere fuori di sé per l’ira”, e può far commettere azioni drammatiche sotto la spinta di quello che viene giornalisticamente definito un “raptus” e dal nostro codice penale è considerata un attenuante “aver agito per ira derivata dal comportamento altrui”. L’ ira può essere rivolta anche verso se stessi con conseguenze spesso fatali. Del resto l’offesa che la scatena è tanto più grave se proviene da persone vicine e amate che, appunto per questo non dovrebbero permettersi… È forse per questo che molti crimini dettati dall’ ira si consumano tra le mura domestiche dove l’amore si trasforma in odio (non pensiamo solo ai femminicidi ma anche a Caino e Abele, Romolo e Remo, ecc). Le manifestazioni dell’ ira sono così impetuose ed esplosive che non possono essere nascoste e a posteriori il soggetto può vergognarsene moltissimo, divenendo cupamente iracondo con se stesso.

L’ ira che nelle sue forme estreme ed esplosive la ritroviamo nel discontrollo degli impulsi e pure in tutte quelle condizioni, anche neurologiche (demenze, delirium), in cui la corteccia perde la sua capacità di modulazione inibitoria degli automatismi istintuali sottostanti e ha una sua importante funzione evolutiva in continuità con i comportamenti di difesa del territorio in quanto dissuade gli altri dall’ostacolare il soddisfacimento dei propri scopi. Nella psicologia normale si identifica con la cosiddetta “intolleranza alla frustrazione”, che tuttavia comportamentalmente può andare lungo una dimensione che dal “mettere il muso” come Achille nella tenda e arriva fino all’omicidio preterintenzionale. La capacità di indignarsi e reagire ai soprusi per ristabilire la giustizia è dunque positiva e adattiva al contrario del suo eccesso che genera altro male, innescando una spirale in crescendo come si può vedere in alcuni conflitti che insanguinano il mondo da decenni senza che se ne intraveda la fine perché ognuno dei contendenti ritiene di essere nel giusto in quanto reagisce ad un sopruso dell’altro.

Superbia e Invidia

Il cammino iniziato occupandoci della poco nota accidia ci porta ora agli ultimi due peccati capitali: la superbia e l’ invidia che potrebbero facilmente essere assegnati al narcisismo, ma siccome la trascuratezza sarebbe un’offesa intollerabile per il narcisista sarà opportuno soffermarcisi brevemente. Il superbo vuole che gli altri riconoscano la sua totale superiorità mostrando in ciò la sua sudditanza dall’altro, il bisogno assoluto del suo riconoscimento e dunque la radicale fragilità della sua autostima. La sua vanità, la mania di grandezza, il fare il gradasso sono il disperato tentativo di un piccolo trascurato e non visto di affermare la sua esistenza.

Infine l’ invidia, che è noto quanto faccia soffrire chi la prova e sia inconfessabile in quanto ammissione di consapevolezza del proprio scarso valore, è la strategia per proteggere la propria traballante autostima dal confronto con l’altro rispetto al quale ci si sente perdenti. Mischia la tristezza del constatare che gli altri hanno qualità o cose che lui non ha con la rabbia verso questi specchi che gli rimandano l’immagine della sua miseria e che dunque deve sminuire, infrangere, infangare godendo quando vanno in frantumi. Superbia e invidia, attraverso il meccanismo psicoanalitico della “proiezione”, possono causare forti vissuti di ansia sociale, fino ad una franca paranoia.

Per concludere

In conclusione di questa passeggiata infernale voglio spezzare l’ennesima lancia contro la visione categoriale degli esseri umani e a favore della dimensionalità, mia fissazione ormai da tempo. Voglio dire che un individuo che sa godersi le gioie del cibo (gola) e del letto (lussuria) ed è previdente rispetto ai possibili problemi futuri (avarizia) e che persegue con determinazione i propri scopi (ira), sapendo tuttavia guardare con distacco le cose del mondo cogliendone la transitorietà e vacuità sostanziale (accidia) è uno che campa bene e fa ben campare gli altri. Tutto sta a non esagerare. Commenti del lettore del tipo “e ci volevano tutte ‘ste chiacchiere per partorire tale banalità?” mi riscuote dallo stato accidioso per trasformarmi in un iracondo modello Achille nel periodo post-tenda.

Post scriptum: Sento infine il bisogno di ringraziare Brunella con la quale ho condiviso e discusso le idee espresse e che mi ha salvato da alcuni imbarazzanti e rivelatori lapsus, e i mitici personaggi danteschi che, forse a causa di un troppo frettoloso scalaggio degli SSRI, mi vengono a trovare intorno alle tre del mattino ed in particolare il leone in rappresentanza della superbia, la lupa portavoce della cupidigia e la lonza (da non confondere con il gustoso salume ma l’animale, forse oggi estinto, che Dante scelse come esempio della lussuria in quanto sempre in calore e disposto ad accoppiarsi in ogni stagione che il poeta avrebbe oggi sostituito con i più noti e antropomorfi bonobo) alla quale io ho preferito ben presto la complice e simpaticissima compagnia di Paolo e Francesca.

In ultimo, identificati attraverso la prospettiva dei 7 peccati capitali i nuclei patogenetici più importanti, mi riprometto dopo il trattamento con l’esorcista, certamente più efficace degli SSRI, di proporre un protocollo terapeutico finalizzato al raggiungimento delle 4 virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza) attraverso un percorso di riattivazione comportamentale che preveda l’esercizio quotidiano con tanto di diario delle sette opere di misericordia corporali (dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati e seppellire i morti). Ai colleghi psicoterapeuti in supervisione saranno riproposte inoltre le 7 opere di misericordia spirituali che già praticano abbondanmtemente: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi, i morti e i drop out.

 

*Nota 1: Le strutture cerebrali che compongono il sistema di ricompensa sono all’interno del circuito corteccia-gangli basali-talamo; i gangli della base guidano l’attività del circuito all’interno del sistema di ricompensa. La maggior parte delle cellule che collegano le strutture all’interno del sistema di ricompensa sono interneuroni glutamatergici, GABAergici, neuroni medio spinosi, e neuroni a proiezione dopaminergica, anche se contribuiscono altri tipi di neuroni di proiezione (ad esempio, i neuroni di proiezione oressinergici). Il sistema di ricompensa comprende l’area tegmentale ventrale, lo striato ventrale (in primo luogo il nucleus accumbens, ma anche il tubercolo olfattivo), lo striato dorsale (vale a dire, il nucleo caudato e putamen), la substantia nigra (vale a dire, la pars compacta e la pars reticulata), la corteccia prefrontale, la corteccia cingolata anteriore, la corteccia insulare,l’ippocampo, l’ipotalamo (in particolare, il nucleo oressinergico nell’ipotalamo laterale), il talamo (più nuclei), il nucleo subtalamico, il globo pallido (sia esterno che interno), il pallido ventrale, il nucleo parabrachiale, l’amigdala, e il resto della amigdala estesa.

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