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Infanticidio: il profilo neuropsicologico di chi compie infanticidi

Alcuni studi hanno permesso di delineare il profilo neuropsicologico di chi compie un infanticidio e di differenziarlo da chi compie altri tipi di omicidi.

Di Ilaria Loi

Pubblicato il 28 Apr. 2017

Aggiornato il 06 Set. 2018 12:22

Il profilo neuropsicologico di chi compie un infanticidio si differenzia significativamente da quello di chi uccide anche persone adulte.

 

Il profilo neuropsicologico di chi compie l’ infanticidio

Recentemente, i ricercatori della Northwestern University Feinberg School of Medicine di Chicago hanno indagato l’esistenza di differenze all’interno dei profili neuropsicologici degli assassini. Ciò che è emerso è che effettivamente sembrerebbe esistere una differenza per quanto riguarda le caratteristiche neuropsicologiche di chi uccide solamente bambini, rispetto a chi uccide anche persone adulte. L’ infanticidio sembra essere caratterizzato da maggiore impulsività, da minore quoziente intellettivo e, spesso, da patologie mentali. L’identificazione di queste differenze potrebbe aiutare nell’identificazione di quei bambini potenzialmente a rischio per la propria vita.

L’ infanticidio, ad oggi, risulta essere una delle categorie di omicidio sì tra le più rare, ma anche tra le meno comprese ed indagate. Inoltre, nonostante negli anni i tassi di omicidi siano generalmente calati, i tassi di omicidi perpetrati a danno di bambini non sembrano essersi modificati. Si stima che solo nel 2014 negli Stati Uniti siano stati uccisi 1,546 bambini, sia per atti di violenza sia per negligenza nella loro cura (Child Welfare Information Gateway, 2016). A tal proposito, riuscire ad identificare cosa differenzia a livello di funzionamento neuropsicologico questa tipologia di assassini da coloro i quali uccidono persone di età maggiore potrebbe notevolmente apportare benefici alla letteratura molto limitata sul tema e aiutare anche a prevedere e prevenire future tragedie.

In precedenza, gli studi sul tema si sono largamente occupati dello studio di variabili quali le caratteristiche sociodemografiche e psicologiche dei criminali, ma mai del funzionamento neurocognitivo. Oltre a ciò, anche a livello mediatico, è stata spesso riscontrata la tendenza a focalizzarsi esclusivamente su casi di donne con patologie mentali di tipo psicotico che commettono infanticidio (Laursen et al., 2011), ma, in realtà, l’uccisione di bambini avviene in contesti molto più variegati, non solo nell’ambito della patologia mentale.

Azores-Gococo e collaboratori, autori di una recente indagine sui profili neuropsicologici degli assassini, hanno messo in evidenza, in linea anche con studi precedenti (Hanlon et al., 2015; Hanlon et al., 2013), come gli uccisori di soli bambini, uno o più, abbiano la tendenza ad avere minori livelli di intelligenza, minori abilità di comunicazione e di problem solving e, generalmente, un maggior grado di patologia mentale. Inoltre, chi compie l’ infanticidio sembrerebbe essere caratterizzato da maggiore impulsività e dalla tendenza ad utilizzare metodi più manuali (ad es. percosse, annegamento) per perpetrare il crimine, anche se confrontati con quegli assassini che oltre ad un bambino hanno ucciso anche uno o più adulti nello stesso atto omicida.

Al contrario, gli uccisori sia di bambini sia di adulti sembrerebbero avere la tendenza a commettere delitti maggiormente premeditati, utilizzando soprattutto armi. Spesso, inoltre, nonostante mostrino un quoziente intellettivo nella norma, risultano essere caratterizzati dalla presenza di tratti antisociali, con anche abuso di sostanze.

In tal senso, questo studio suggerisce l’esistenza di molteplici ragioni per cui un bambino potrebbe trovarsi estremamente a rischio di subire gravi abusi a livello fisico o anche di venire uccisi, aprendo la possibilità di utilizzare quanto emerso a fini preventivi.

Più nello specifico, lo studio di Azores-Gococo e collaboratori è stato svolto con lo scopo di indagare i profili demografici, criminologici, psichiatrici, cognitivi e neuropsicologici di un gruppo di 33 soggetti (27 maschi, 6 femmine) accusati e condannati in primo grado per l’omicidio di uno o più bambini. Inoltre, la scelta del campione, piuttosto ampio rispetto alla precedente letteratura sul tema, è stata effettuata cercando di renderlo il più eterogeneo e variegato possibile, al contrario di altri studi che si sono principalmente focalizzati su una sola tipologia di criminali (ad es. donne che commettono figlicidi e neonaticidi), in modo da poter indagare in modo più approfondito il tipo di disfunzioni cognitive che caratterizzano questi criminali, rendendo anche i risultati maggiormente generalizzabili.

Tra i soggetti vi erano infatti criminali accusati sia di omicidi preterintenzionali e impulsivi sia premeditati, sia domestici sia non, alcuni dei quali includevano anche l’assassinio di persone adulte, non solo bambini. Il campione, poi, presentava un ampio spettro di diagnosi psichiatriche e deficit nel funzionamento neuropsicologico. In questo modo il campione risulta essere aderente a quanto riscontrabile nella realtà forense contemporanea.

Nel complesso, i partecipanti erano stati accusati dell’omicidio di 51 bambini di età compresa tra 1 mese e 17 anni, di cui il 50 % intorno ai 6 anni; 14 casi includevano anche l’omicidio di vittime adulte (da 1 a 7 vittime per caso).

Per quanto riguarda le analisi del funzionamento neurocognitivo, gli autori hanno valutato domini quali il funzionamento intellettivo, la memoria, l’attenzione e la velocità di elaborazione, il ragionamento e le funzioni esecutive e il linguaggio.

Dalle analisi è emerso come nel complesso il semplice uccidere un bambino all’interno di un atto omicida non sia sufficiente per distinguere questo gruppo di criminali da altri. Infatti, per quanto riguarda la prevalenza di diagnosi psichiatriche, di problemi del neurosviluppo e di abuso di sostanze e per quanto riguarda il funzionamento cognitivo, questo gruppo è emerso essere in linea con quanto presente in generale in letteratura per i criminali violenti.

Nonostante questo, però, sono emerse differenze significative a livello di gruppo. Infatti, in base ai punteggi alle diverse valutazioni, sembra che gli omicidi di soli bambini vengano perpetrati principalmente in modo non premeditato e impulsivo da persone che potrebbero non avere sufficienti abilità comunicative e di gestione emotiva per mediare in modo adattivo e funzionale i conflitti. Al contrario, gli assassini pluriomicidi sia di bambini sia di adulti presentano caratteristiche demografiche, psichiatriche e cognitive sovrapponibili a quelle di omicidi premeditati (Hanlon et al., 2013). Al contrario, nessuna differenza è emersa a livello di genere per quanto riguarda la premeditazione, l’essere sotto l’effetto di stupefacenti al momento del crimine o le caratteristiche criminologiche.

Sorprendentemente, ben pochi infanticidi sono risultati in linea con l’idea stereotipica che siano le madri psicotiche ad uccidere i propri figli. I criminali colpevoli di aver ucciso dei bambini risultano essere tutt’altro che un gruppo omogeneo con livelli analoghi di psicopatologia, tratti antisociali e funzionamento cognitivo. In questo senso, i risultati di questa ricerca invitano a prestare molta attenzione rispetto al fare conclusioni affrettate, mettendo in discussione la generalizzazione di assunzioni circoscritte e valide solo per una limitata quota di infanticidi, cercando, al contrario, di focalizzarsi maggiormente su quei deficit, caratteristiche personologiche e situazioni specifiche che potrebbero mettere in pericolo la vita dei bambini.

Inoltre, dal momento che la maggior parte dei bambini era stata uccisa dai compagni delle madri in un atto impulsivo di violenza non premeditata, gli autori suggeriscono che un lavoro psicoeducativo basato sulla gestione della rabbia e sulla presa di decisione su base non violenta potrebbe aiutare nella prevenzione del rischio di far del male ai bambini. Una valutazione appropriata ed un approccio votato alla prevenzione focalizzato su coloro i quali presentano una storia di violenza (domestica e non), soprattutto se a stretto contatto con bambini, potrebbe portare a drastiche riduzioni nei tassi di atti di violenza fatale, aiutando le persone a gestire in modo adattivo e funzionale i propri impulsi e le proprie emozioni, in particolar modo la rabbia.

 

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