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Vivere con l’epilessia: fattori implicati nel benessere psicologico

Convivere con una patologia cronica, quale l' epilessia, può portare a effetti negativi sui meccanismi cognitivi della self-efficacy e del locus of control.

Di Davide Farrace

Pubblicato il 06 Dic. 2016

Aggiornato il 01 Ott. 2019 15:30

In questo articolo saranno discussi gli aspetti psicologici legati all’ epilessia: la consapevolezza di essere a rischio di sviluppare crisi epilettiche, infatti, genera diversi cambiamenti nell’immagine di sé e nelle scelte concrete che bisogna prendere quotidianamente.

 

Diversi studi hanno evidenziato le criticità che agiscono sulla personalità e sulla qualità della vita delle persone con epilessia. Riconoscere l’impatto dell’ epilessia sulla psiche dei pazienti permette ai curanti e ai famigliari di prendersi cura anche di quegli aspetti legati al disturbo che possono essere modificati e che aiutano ad accresce il benessere delle persone. Valutare e intervenire sull’impatto psicologico di una patologia che può avere diversi gradi di severità è sicuramente di primaria importanza.

 

Epilessia e percezione di sé

Alcune ricerche mostrano che la percezione di sé, insieme alle restrizioni sociali, influenzano la qualità della vita (Quality of life – QOL) più dei fattori oggettivi collegati all’ epilessia come la frequenza e il tipo di crisi (Hermann et al., 1992).

Lo stigma percepito può variare la sua influenza sulla percezione che il soggetto ha di sé grazie all’effetto protettivo dell’autostima, che è stato ricondotto anche allo sviluppo di problemi psicologici e psichiatrici. A sua volta anche ricevere informazioni adeguate sul proprio stato di salute aiuta a sostenere l’autostima del paziente. Queste premesse riportate da Collings (1995) conducono allo studio delle variabili che influenzano la percezione di sé, dove si è visto che il benessere psicologico, il controllo sulle crisi, seguire una politerapia e una diagnosi incerta aumentano l’impatto dell’ epilessia sulla percezione di sé.

In uno studio (Spector et al., 2000) sulla percezione di sé rispetto all’arrivo di un episodio critico, il 47% dei soggetti riusciva in alcuni casi ad arrestare gli attacchi, e il 15% poteva auto-indursi le crisi. Inoltre, un 65% dei soggetti sapeva identificare uno stato di basso rischio in cui era meno propenso a sostenere una crisi. Per acquisire maggiori certezze sulla possibilità di controllare le scariche si dovrebbero eseguire studi con elettroencefalografia al fine di stabilire l’autenticità di questi comportamenti. La credenza di poter controllare l’insorgere delle crisi infatti potrebbe svelare il sottostante desiderio di acquisire controllo su di esse. È noto uno studio (Woods et al., 2006), su un paziente che descriveva uno specifico stato emozionale capace di indurre in lui le crisi, in cui grazie al monitoraggio video/elettroencefalografico è stato possibile confermare l’episodio e smentire i sospetti di crisi non-epilettiche.

Le persone con epilessia possono temere di venire identificate dagli altri con la propria condizione e di sentirsi in una situazione di svantaggio non superabile, legata al rischio di dimostrare i suoi effetti in modo involontario e indipendente dagli sforzi messi in atto. Per evitare tali effetti sociali possono tentare di nascondere la propria condizione agli altri e, per ridurre l’ansia e l’angoscia relativa agli svantaggi delle crisi, c’è chi ricorre alla negazione della realtà anche a se stesso, adottando così un meccanismo di coping rivolto all’evitamento.

A questo concetto si collega la divisione operata da Brown e Nicassio (1987) di due principali strategie di coping, le strategie attive (rappresentate dal tentativo del paziente di controllare il proprio dolore e mantenere un buon livello funzionale), e le strategie passive di coping (per cui il paziente si affida agli altri e permette che altre aree significative di vita vengano influenzate negativamente dal dolore).

 

La  Self-efficacy e il locus of control nella sindrome epilettica

La convivenza con una patologia cronica, quale l’ epilessia e il diabete, ma anche con sintomi psicologici come disturbi dell’umore o attacchi di panico, può ripercuotersi negativamente sui meccanismi cognitivi della self-efficacy (autoefficacia) e del locus of control. Questi due costrutti indicano la percezione personale di essere artefici del proprio destino, padroni delle proprie scelte e consapevoli che le proprie decisioni e azioni contino nel perseguire un fine.

Che cos’è il Locus of Control

Il locus of control è un costrutto individuato dallo psicologo Julian B. Rotter nel 1954, indica in che misura gli individui credono di essere implicati nella generazione degli eventi che li riguardano. Le applicazioni più frequenti si hanno nella psicologia della salute, dove il locus of control viene correlato all’obesità, alla salute mentale da scale specifiche che lo misurano.

Il locus of control può caratterizzarsi per essere orientato all’interno o all’esterno. Un locus of control interno è associato alla percezione di essere in grado di poter influire in una determinata situazione. La persona con un locus of control orientato internamente ritiene di avere le risorse e le competenze necessarie per raggiungere il risultato auspicato. Per esempio si può essere fiduciosi di riuscire ad adottare i comportamenti che possono garantire la propria sicurezza se si dovesse avere una scarica epilettica, oppure di poter mantenere gli impegni famigliari o lavorativi nonostante gli effetti collaterali dei farmaci.

Un locus of control maggiormente orientato all’esterno predispone la persona a considerarsi sottoposta al fato e al destino, oppure a dare eccessivo valore agli eventi esterni immutabili. Potrebbe prevalere l’idea che le crisi non sono controllabili né gestibili, per cui si potrebbe saltare l’assunzione dei farmaci o rinunciare a perseguire i propri scopi nella vita.

Secondo i teorici di questo campo il locus of control può spiegare le differenze tra le persone per quanto riguarda l’essere ottimisti, pessimisti, previdenti o rassegnati essendo queste dovute alla percezione personale degli eventi. Un orientamento di locus of control interno è considerato un predittore positivo per la gestione della malattia e l’adesione alla cura da parte del paziente.

D’altro canto l’eccessiva auto-responsabilizzazione potrebbe portare a un elevato senso di colpa e paralizzare le iniziative, in questo senso bisognerebbe ispirarsi a un sistema di credenze equilibrato ed adattivo, cioè funzionale al benessere dell’individuo, avendo anche aspetti propri del locus of control esterno, per alleggerire il senso di colpa.

I pazienti con locus of control interno mostrano un maggiore senso di autonomia e competenza, tale atteggiamento ha effetti positivi sul controllo della cura di sé (self-care), sull’efficacia del trattamento e sulla sfera psicologica del soggetto. Una ricerca più recente (Baker, 2002) evidenzia correlazioni positive tra Health-related Quality of Life e locus of control in adulti con epilessia.

L’esternalizzazione del locus of control a causa dell’ epilessia è emersa dal confronto con un gruppo di controllo così come in un gruppo di pazienti con epilessia a cui non siano state insegnate risorse di coping focalizzate (Krakowf et a., 1999). La gravità delle crisi è risultata la caratteristica clinica più importante nel predire i livelli di autostima e l’orientamento del locus of control in uno studio con persone con crisi parziali refrattarie, negli adolescemti invece l’impatto più significativo era dato dalla frequenza, con un effetto modulatore positivo dovuto alla conoscenza della propria condizione e dell’ epilessia in generale (Krakowf et a., 1999).

Un locus of control esterno è stato ritenuto responsabile dello sviluppo di problemi psicologici nell’epilessia, e correlato statisticamente a patologie di tipo depressivo, soprattutto se i pazienti soffrono di crisi intrattabili (Krakowf et a., 1999). I fattori che mantengono un locus of control esterno nell’ epilessia sono stati individuati nello stile parentale (atteggiamento dei genitori), nella gravità e frequenza delle crisi e nella percezione che il paziente ha di sé e della malattia.

I bambini con epilessia potrebbero sviluppare una scarsa autostima, isolamento sociale e problemi di comportamento, a causa della mancanza di controllo sul proprio corpo e della ridotta indipendenza rispetto ai coetanei (Collings, 1995).

Tra gli 8 e i 14 anni si inizia ad affermare una consapevole voglia di controllo sugli eventi, e si diventa maggiormente interni (Krakowf et a., 1999). Affrontare in fase evolutiva una condizione cronica come l’ epilessia favorisce invece l’acquisizione di una fuga verso l’esternalità, per questo bisognerebbe puntare su strategie di coping basate sulla padronanza della self-efficacy e delle proprie risorse emotive, che favoriscano l’autostima e le relazioni sociali.

 

Il Senso di Autoefficacia (Self Efficacy)

La Self-Efficacy è stata teorizzata da Albert Bandura che ha sviluppato anche la “Teoria dell’apprendimento sociale“. Questo costrutto indica che nonostante una persona possa ritenere che gli eventi sono da lui determinati (locus of control ), può ritenersi o meno in grado di agire per produrre tali eventi. La Self-Efficacy è la credenza di essere capaci di comportarsi in modo da ottenere un risultato. L’autoefficacia corrisponde a quanto ci sentiamo capaci di produrre un determinato risultato, come l’intraprendere un primo passo verso un obiettivo.

La self-efficacy è misurabile attraverso apposite scale, come quella di Sherer, Madux et al. (1982), e quella di Tedman et al. (1995). Questi ultimi in una ricerca su una popolazione di adulti con epilessia hanno notato che alti livelli di self-efficacy correlano con una maggiore autostima ed i soggetti avvertono minore stigma e limitazioni, mentre bassi punteggi si associano a depressione ed ansia.

Bandura ha sottolineato anche la differenza che corre tra self-efficacy ed autostima (self-esteem), bassa self-efficacy (“non sono capace”) non determina bassa autostima (“sono un incapace”), per esempio; possiamo ritenerci negati a tennis e non ritenerlo un problema perché non ci interessa eccellere in questa disciplina.

Convivere con patologie croniche concorre a sviluppare credenze fataliste rispetto al controllo della propria vita (Locus Of Control esterno), in ogni circostanza, anche quando sarebbe ovvio ritenere l’opposto. Vedere la guarigione come un traguardo irraggiungibile può ridurre la motivazione a seguire le cure. La self-efficacy influenza la credenza che iniziare un comportamento positivo per la salute porti benefici.

E’ possibile predire l’investimento personale alla rinuncia di comportamenti rischiosi, nonché la persistenza nello sforzo di cambiare comportamento nonostante le barriere che minacciano la motivazione. Pertanto è necessariamente implicata nella cura della salute.

Bandura individua dei fattori capaci di influenzare la self-efficacy individuale:

  • Esperienze di successo/insuccesso ed il modo in cui vengono visualizzate e richiamate in futuro.
  • Modellamento su persone prese come esempio: se queste falliscono l’impatto sarà negativo, e viceversa, sulla persona che le osserva.
  • Persuasione sociale, ossia i messaggi incoraggianti o demotivanti che gli altri ci danno. In genere è più facile essere demotivati che motivati dalle opinioni altrui.
  • Fattori psicologici. I sintomi fisiologici come paura, nausea, tremore o stanchezza e come essi vengono ricondotti a una debolezza personale oppure ritenuti normali per la situazione e non deleteri al fine del compito da svolgere.

Abbiamo visto che esistono alcuni aspetti psicologici significativamente correlati al benessere della persona con epilessia. Valutare questi aspetti e prestare un supporto psicologico idoneo (sia da parte dei medici e degli psicologi, che dei famigliari) può fare la differenza rispetto alla qualità della vita della persona e anche rispetto all’adesione alla terapia prescritta.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Baker G.A. (2002). “Health–related quality of life of adults with epilepsy” in Epilepsy & Behavior, 6, 560–571.
  • Brown e Nicassio (1987). “Development of a questionnaire for the assessment of active and passive coping strategies in chronic pain patients” in Pain, 31, 53–64.
  • Collings J.A. (1995). "The impact of epilepsy on self perception" in Journal of Epilepsy, 8, 164–171.
  • Harinder J. (2009). “Influence of psychological/anxiety level on self–perception of precipitants in patients with epilepsy: Assessment by clinical neurophysiological studies” in Epilepsy & Behavior, 14, 271.
  • Spector S., Cull C., Goldstein L.H. (2000). "Seizure precipitants and perceived self–control of seizures in adults with poorly–controlled epilepsy” in Epilepsy Research, 38, 207–216.
  • Woods R., Gruenthal M. (2006). “Cognition-induced epilepsy associated with specific emotional precipitants” in Epilepsy & Behavior, 9, 360–362.
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