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Insoddisfazione nei bilanci di vita – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 5

Il Sé mnemonico, attivo nei nostri bilanci di vita, commette errori che ci portano a rimpiangere le esperienze passate e provare un senso di insoddisfazione

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 19 Feb. 2016

La cosiddetta depressione è, insieme all’ansia, il principale motivo di sofferenza degli esseri umani, dalle forme più gravi fino a croniche forme di insoddisfazione che non impediscono il vivere quotidiano ma lo rendono faticoso e insapore.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE (RUBRICA) – LEGGI L’INTRODUZIONE

La cosiddetta depressione è, insieme all’ansia, il principale motivo di sofferenza degli esseri umani e di fatturato per psicoterapeuti e aziende farmaceutiche. Dalle forme più gravi che confinano nel letto con lo sguardo al soffitto e rendono off limit la doccia, si transita attraverso forme lievi e l’emozione della tristezza, fisiologica, utile e dunque da non trattare ma piuttosto da ascoltare, fino a croniche forme di insoddisfazione che non impediscono il vivere quotidiano ma lo rendono faticoso e insapore.

I neuroscienziati hanno spiegato come esperienze di sana tristezza da perdita possano scivolare in soggetti con un particolare assetto recettoriale (ipersensibilità dei recettori serotoninergici presinaptici inibitori) in un circolo vizioso automantenentesi di depressione che si giova di un trattamento prolungato con inibitori della ricaptazione della serotonina e che produce una down-regulation di tali recettori troppo zelanti. Dopo tutto questo sfoggio di paroloni persino inglesi, mi chiedo se non si possano seguire o affiancare anche altre strade per uscire dal loop gelido della disperazione.

La questione è tanto più importante se si tiene conto che anche se non è il problema primario, principale o iniziale, si sovrappone come secondario in quasi tutti i disturbi emotivi. Sono tristi e insoddisfatti gli ossessivi , i panicosi, gli ipocondriaci, i depressi e, al contrario di quanto taluni credano, anche gli psicotici che non se la spassano affatto nel loro mondo privato. Se ciò non fosse ancora sufficiente ad interessarvi alla questione potrei rammentarvi tutti i familiari dei malati mentali e anche no, ma mi sembra sciocco cercare di argomentare sulla presenza dell’insoddisfazione nel mondo: pensate alle vostre che già basta.

Perché proviamo insoddisfazione?

Mi pare più interessante cercare di capire perché ci si metta su quella china che parte dall’insoddisfazione e scivola attraverso la tristezza fino alla disperazione. In estrema sintesi mi pare che si sia insoddisfatti per due diversi ordini di motivi.

Il primo motivo di insoddisfazione riguarda il gap tra lo stato reale delle cose e lo stato desiderato ovvero quanto siamo lontani dal raggiungimento dei nostri scopi e se essi sono o meno perduti per sempre. Il secondo motivo di insoddisfazione riguarda quanto il soggetto stesso è lontano dal suo ideale del sé. In questo caso si è insoddisfatti per come non si è stati in grado di modificare favorevolmente l’andamento delle cose. La prima è una insoddisfazione sull’oggetto che ne attiva una più profonda sul soggetto stesso che genera ulteriori effetti secondari di mantenimento come la rinuncia e il disimpegno.

Associazionismo coerente

La scoperta del cosiddetto ‘associazionismo coerente‘ secondo cui se è vero che un pensiero genera emozioni e comportamenti coerenti con esso (è la base della teoria cognitiva e del modello ABC) è vero anche l’inverso per cui i comportamenti e addirittura le posture assunte volontariamente generano pensieri congrui con essi. Insomma il detto ‘canta che ti passa‘ ha un fondamento scientifico che William James aveva intuito quando affermava che ‘Non ridiamo perché siamo felici ma piuttosto siamo felici perché ridiamo’.

Ciò da dignità scientifica a tutti quegli interventi volti a far divertire il soggetto depresso che non ne ha alcuna voglia. Ad esempio potrebbero essere proposti video di gag che fanno ridere in modo transculturale, immediato e irriflesso: non dunque sottile ironia ma la gente che cade, le torte in faccia, ecc. Questa tendenza alla coerenza interna non riguarda soltanto il rapporto tra pensieri, emozioni e comportamenti ma soprattutto proprio la coerenza del pensiero. Abbiamo la fallace impressione di essere sempre stati insoddisfatti come siamo ora e la certezza che saremo sempre così.

La mancata percezione del cambiamento nella genesi e mantenimento dell’ insoddisfazione

Non vediamo i cambiamenti avvenuti e non ce ne aspettiamo di futuri. Addirittura quando cambiamo idea non ci ricordiamo davvero come la pensavamo in passato, ricordiamo i fatti magari ma non i nostri giudizi su essi. Ci sembra di averla sempre pensata allo stesso modo anche quando ciò è contraddetto da specifici ricordi e testimonianze.

Immagino i vari periodi di vita come blocchi transitori di coerenza. Un procedere dell’esistenza attraverso crisi di cambiamento, una sorta di rivoluzioni khuniane e lunghi periodi di stabilità. Se è vero che si nasce rivoluzionari, si diventa riformisti e si muore conservatori, l’aspetto più interessante è che si è convinti di essere sempre stati identici a se stessi. Rispetto a questa cecità al cambiamento che ci porta a credere che le cose saranno sempre come ora, il che certamente è sgradevole in momenti neri e costituisce proprio l’errore del suicida, credo sia utile frugare nella storia del soggetto alla ricerca di periodi diversi e ricostruire come era la vita, le emozioni e le attività anche con l’ausilio di foto, interviste a testimoni, film o musiche d’epoca. Contemporaneamente si può chiedere al paziente di inventare e magari scrivere storie riguardanti il suo futuro fornendo alcuni elementi positivi che devono necessariamente contenere, su di esse si può poi lavorarci insieme arricchendole.

Abbiamo visto come l’insoddisfazione dipenda dal confronto tra uno stato reale e uno stato desiderato. In effetti come i recettori sensoriali anche nella valutazione degli stati (ad es: ricchezza o felicità) siamo molto sensibili alle variazioni e ai confronti, insomma non stati di ricchezza ma guadagni e/o perdite.

Per questo l’esito dipenderà molto dalla baseline scelta come riferimento che sia esterna o un altro periodo della propria vita. Se confronto la relazione con il mio partner con il momento iniziale dell’innamoramento, il mio stato di salute con la prestanza dei diciott’anni o il mio reddito con quello di un top manager, sono evidentemente alla ricerca di secchiate di insoddisfazione.

E’ sperimentalmente dimostrato che gli esseri umani hanno una naturale avversione alle perdite sperimentate come minacce e anche che ciò sia un meccanismo salvavita evolutivamente vantaggioso sebbene possa non essere un utile consigliere quando si ragiona sugli investimenti azionari. Poiché il motivo di insoddisfazione interna di molti riguarda proprio il considerarsi paurosi e non sufficientemente audaci può essere utile una psicoeducazione sul valore evolutivo della paura e della prudenza e soprattutto sul fatto che siamo così e non possiamo modificarlo. Nel modello biopsicologico prevale la negatività e la fuga su positività e approccio.

Il negativo vince sul positivo. Un solo scarafaggio rende disgustoso un intero piatto di ciliegie ma una ciliegia non rende gradevole un cesto di scarafaggi. Ancora, un solo cattivo gesto rovina una amicizia ma non viceversa. In natura e anche in molti sport sono in vantaggio i difensori sugli attaccanti.

Ciò spiega anche perché gli antiscopi finiscono per imporsi sugli scopi: è un funzionamento biologicamente determinato per salvare la pelle prima di dedicarsi ai piaceri. Dobbiamo dunque normalizzare gli evitamenti per rabbonire l’eventuale secondario, salvo poi sfidarli, ma sottolineando che si tratta di compiere un gesto innaturale, quasi eroico e non spontaneo.

Lo stesso meccanismo di sopravvalutazione delle perdite e sottovalutazione dei guadagni entra in gioco nelle resistenze al cambiamento terapeutico in quanto la guarigione è vista come un possibile guadagno ma viene confrontata con il rischio di perdita dell’abbandonare il sintomo. Quindi per accrescere la motivazione alla terapia occorre descrivere la sintomatologia come una perdita (i costi che comporta) piuttosto che la guarigione come un guadagno.

Il tempo (e i bias cognitivi) dell’insoddisfazione

Il tempo classico dell’insoddisfazione è quello della tarda maturità quando si iniziano a fare i bilanci della propria esistenza nei vari campi in cui la si è spesa. Nel farli siamo vittime di un bias interessantissimo che Kahneman descrive con decine di affascinanti esperimenti a pag 420 e seguenti. Detto in parole povere, il valore edonico di un esperienza (quanto ne godiamo e/o quanto ne soffriamo) è valutato molto diversamente se viene valutato in diretta, da quello che chiama il Sé esperienziale, o nel ricordo da quello che chiama il Sé mnemonico. Quest’ultimo, che è quello attivo quando facciamo i bilanci o quando decidiamo se ripetere o meno una certa esperienza, commette una serie di errori grossolani.

Il primo è che conta molto più della media ponderata, che sarebbe il calcolo corretto ( l’area logaritmica sotto la curva tempo/ piacere o dolore), l’intensità di picco e quella finale. Il secondo gravissimo errore è la assoluta disattenzione per la durata. Così si può giudicare negativa un esperienza affettiva o lavorativa di grande soddisfazione per trent’anni perché ha avuto un momento acuto di crisi oppure è finita male, mentre si giudica migliore una esperienza di pochi mesi senza infamia né lode ma conclusasi bene.

Kahneman (421 e seg) sottolinea la differenza tra Sé esperienziale che vive in diretta e il Sé mnemonico che valuta le esperienze secondo il bias ‘picco-fine‘ e la cecità per la durata, portando a confondere l’esperienza con il ricordo di essa.

Kahneman vede come effetti della tirannia del Sé mnemonico, che è quello che fa consuntivi e decide le esperienze future, l’idea che se una cosa non la ricordo è inutile viverla (vedi l’ossessione per le foto). Spesso più che a vivere si è impegnati ad allestire ricordi. Kahnenam (pag 442 e seg.) riporta molteplici esperimenti per evidenziare come le cose ci diano piacere o dolore (condizioni brutte o belle: ad esempio disabilità, guai economici ecc) solo quando ci soffermiamo a pensarci, altrimenti non influenzano la vita quotidiana del Sé esperienziale, né modificano il tono dell’umore. Per questo sono importanti tutti quei compiti come i diari mirati che costringono a spostare l’attenzione selettiva su quanto c’è di buono e di bello intorno a sé.

Infine quando facciamo bilanci che generano insoddisfazioni abbiamo l’impressione che ci manchi qualcosa per essere felici. Kaneman chiama ‘miswanting‘ (pag 449) il credere che certe cose ci renderanno felici (un partner, una casa, una macchina, un lavoro, un figlio) mentre al massimo lo fanno nella fase iniziale, poi diventano normali e non contano più (disattenzione per il tempo). Rispetto a questo bias sarà importante ridimensionare l’aspettativa di felicità rispetto ad un oggetto esterno e quindi la sofferenza per non averlo e lo si può fare ricordando periodi della propria vita in cui la cosa c’era ma non la felicità e osservando se davvero coloro che la possiedono sono felici.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

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