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Storie di Terapie #14: L’ Amore di Nicoletta

Storie di Terapie #14. L' Amore di Nicoletta. Manifestava un disturbo dipendente che ricordava Agrado, il transessuale di Almodovar.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 22 Ott. 2012

Storie di Terapie 

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.   – Leggi l’introduzione –

 

Storie di Terapia. L' Amore di Nicoletta. - Immagine: © Paulius Brazauskas - Fotolia.comStorie di Terapie #14: L’ Amore di Nicoletta

 

Ho visto Nicoletta in due differenti momenti della sua vita.

La prima volta dopo una telefonata allarmata di una mia allieva e collega di Bologna, che l’aveva incontrata qualche volta insieme al suo ex compagno, nel momento burrascoso della loro separazione.

Predisposi l’animo ad ascoltare le lamentele e le sofferenze di una giovane donna abbandonata, affetta semplicemente dal mal d’amore non ricambiato, esperienza comune che non trova posto nelle nosografie psichiatriche. Per esso, dunque, non esistono protocolli empiricamente validati né psicofarmaci eccellenti; gli unici protocolli sono prescientifici e già applicati dalle nostre bisnonne.

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I passaggi fondamentali in cui si articolano sono riassumibili nei concetti: “chi non ti vuole non ti merita” e “morto un papa se ne fa un altro”. Tradotto in linguaggio più scientifico si tratta di:

  • Svalorizzare l’oggetto perduto, facendo attenzione a non innescare possibili auto svalutazioni per aver scelto e investito tanto su un oggetto così poco meritevole
  • Sostenere l’autostima, che può essere minacciata dal rifiuto dell’altro
  • Spostare la libido su altri oggetti

A queste consolazioni, per così dire di pronto soccorso, che non sono appannaggio esclusivo dello psicoterapeuta ma anche di amici e parenti, tendo ad aggiungere, in successione temporale, altri obiettivi che giustifichino il fatto di essere pagato per un lavoro specialistico.

In primo luogo, mi sembra utile fornire consapevolezza sulle caratteristiche del partner che attraggono fatalmente il paziente, soprattutto quando le scelte sbagliate si sono ripetute più volte. Per far questo bisogna attaccare la credenza circa la sfortuna negli incontri e il non aver ancora incontrato l’anima gemella, che rivelo subito essere come la Befana e Babbo Natale.

In secondo luogo, aiuto a rendere consapevoli circa i modi che si utilizzano per tenersi vicino l’oggetto amato che, evidentemente, non brillano per efficienza se si sta lì a leccarsi le ferite per l’ennesima volta

Ma Nicoletta arriva non con la coda tra le gambe e le orecchie basse come un cane abbandonato sul ciglio dell’autostrada il giorno di Ferragosto, sembra piuttosto un’aquila che ha appena visto un puma sottrargli un piccolo dal nido. L’aggressività appare,  sanamente e totalmente, eterodiretta; l’emozione sottostante, meno vistosa, è la sorpresa, lo stupore assoluto.

Da un punto di vista psicopatologico, come si vedrà in seguito, questo è l’aspetto più interessante: Nicoletta non si aspettava assolutamente questa conclusione improvvisa, per  la verità ancora stenta a crederci come chi, colpito da lutto improvviso e inatteso, spera  che, da un momento all’altro, tutto torni al proprio posto; Stefano con lei, ovviamente per tutta la vita. Non si può interrompere qualcuno che ha subito un trauma, lo deve narrare mille volte da mille diverse prospettive: Nicoletta è un fiume in piena ed io la valle dove esondare.

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Stefano è il grande amore.  l’uomo cui è stata destinata e con cui passerà tutta la vita  (usa il presente e il futuro come se nulla fosse successo e un brivido corre lungo la  mia schiena). Entrambi romani, si sono  trasferiti a Bologna per l’incarico universitario da lui ottenuto e hanno iniziato una convivenza in atto ormai da quattro anni. Intesa perfetta che non richiede parole per comunicare, sessualità stellare, identità assoluta di idee, gusti, visione del mondo. Quando ne parla sembra descrivere una sola persona. Solo molti anni dopo sarà possibile per Nicoletta rendersi conto che si trattava, in effetti, di una persona sola, Stefano, cui lei aderiva completamente, rinunciando a se stessa.

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Nicoletta si riconosce il ruolo di promotrice della coppia: era lei ad aver voluto il loro fidanzamento prima e la convivenza poi, lei metteva l’entusiasmo, decideva e quando Stefano esponeva le sue perplessità le minimizzava e andava avanti.

Stefano aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza ad assistere una madre gravemente alcolista, rispetto alla quale mostrava un attaccamento rovesciato; perciò, non riusciva a resistere alle richieste di un altro, soprattutto se lo vedeva debole e bisognoso.

La crisi si era manifestata, violenta e improvvisa, il giorno in cui dovevano andare dal notaio a firmare per il rogito di acquisto di una casa. Nicoletta aveva provveduto ad ottenere i mutui dalle banche per entrambi, trovato l’appartamento, fatto il compromesso e ordinato i mobili.

La mattina del notaio, Stefano aveva lasciato un biglietto sul tavolo della cucina con su scritto “non me la sento, mi rifarò vivo io” ed era andato a Trieste da una sua amica.

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Nicoletta aveva vissuto una specie di abbandono sull’altare, la casa comune era, infatti, il punto supremo della loro unione poiché Stefano aveva in precedenza chiarito di essere contrario al contratto matrimoniale e ancora di più alla genitorialità.

Certamente Nicoletta mostrava una dipendenza da Premio Nobel, vivendo in simbiosi assoluta con Stefano che, però, da parte sua, non era mai riuscito a mettere un freno all’invasività di lei, salvo darsi fisicamente alla fuga quando era giunto ad un passo da un passaggio in qualche modo definitivo.

In prima battuta sentivo di empatizzare con il dolore e la rabbia di quella povera ragazza, abbandonata senza una spiegazione. Successivamente mi resi conto che spiegazione non c’era stata perché sarebbe stata inascoltata, oppure completamente ribaltata e trasformata in un’ ulteriore prova dell’amore assoluto tra i due e del loro destino di vita in comune che Nicoletta dava assolutamente per scontato. Se non fosse stato che i due erano effettivamente stati insieme per quattro anni avrei pensato di trovarmi di fronte  ad un evidente delirio erotomanico che, nel tempo, si complicò con uno stalking massiccio: qualsiasi cosa facesse Stefano era da lei considerata una prova lampante del loro legame inscindibile.

 

 Se arricchiva con foto di donne il suo sito su Facebook era un chiaro rimando alla canzone “Dieci ragazze per me” di Lucio Battisti che significava, appunto, che solo una contava per lui.

Se eliminava il suo indirizzo di posta elettronica e non era più raggiungibile, i significati possibili erano evidenti e di due tipi: “senza di lei è come se fossi morto e non esisto più” oppure “non voglio che nessuno più mi raggiunga tranne lei”. Mediamente Nicoletta telefonava tre volte al giorno a Stefano, gli inviava quindici  mail e trenta sms quotidiani.

Il ragazzo, sentendosi minacciato e temendo per la salute mentale di Nicoletta, spinto dalla paura e con l’intento di calmarla, le rispondeva, ogni tanto,  per placare la rabbia della donna, cercare di spiegarsi, ottenere comprensione. Sempre allo stesso scopo, accetta due volte di incontrarla, seppure in luoghi pubblici, dove si sentiva più protetto da possibili agiti impulsivi. Un primo incontro si consuma  a Trieste nei primi sei mesi dopo la separazione. Iniziato al castello di Miramare si conclude in un motel della zona. Nicoletta ne esce con la convinzione rafforzata del loro eterno amore e tre mesi dopo si presenta a Oslo, dove lui sta facendo un dottorato di ricerca. In questa seconda occasione, Stefano decide con fermezza di non concedere margini all’ambiguità e si rifiuta di avere rapporti sessuali  con lei tuttavia, convinto che abbia ormai capito come stanno le cose  e non sopportando di vederla triste, si concede quattro ore di sesso orale che lei ricorderà negli anni come la sequenza più prolungata e soddisfacente di orgasmi che abbia mai avuto.

Tornata in Italia, le arrivano messaggi più o meno espliciti da parte di amici comuni sulla necessità di intraprendere una cura psichiatrica. Ciò non viene letto da Nicoletta in termini offensivi, quanto come un segno dell’interessamento e dell’amore che il ragazzo nutre per lei.

Stefano si trasferisce negli Stati Uniti per partecipare  ad una importante ricerca universitaria. Una mattina di dicembre scende nel giardinetto innevato antistante la villetta dove abita e sale in macchina; sul  sedile posteriore c’è Nicoletta che gli chiede solo un chiarimento. Lui si spaventa, la getta sulla strada, lei si divincola e lo picchia. Stefano chiama la polizia che la accompagna al distretto dove passa una notte. Nei giorni seguenti Stefano paga la cauzione per la sua libertà e, dopo due giorni di sesso fulltime (a scopo di tranquillizzare), la riaccompagna in aeroporto comunicandole che ha intenzione di sposarsi con una collega americana. Questo chiarisce tutto a Nicoletta: il suo Stefano è sempre stato contrario al matrimonio e dunque solo apparentemente è lui, quello che ha di fronte è un essere controllato da una volontà aliena che ne decide i comportamenti.

Tornata in Italia con la certezza di dover aspettare che la fattura fatta su Stefano cessi il suo effetto, Nicoletta riprende in mano la propria vita, si iscrive a giurisprudenza ed inizia a lavorare in un importante studio legale. Ai suoi occhi tutte queste sono attività preparatorie per renderla migliore e più attraente per il momento in cui Stefano, disintossicato dalla fattura, tornerà per non lasciarla più.

Questo piano di preparazione e mantenimento è a trecentosessanta gradi: anche come femmina vuole mantenersi in forma e,  nei successivi quattro anni, ha altrettante storie rilevanti con degli uomini che hanno in comune il fatto di chiamarsi Stefano (le sembrerebbe un tradimento cambiare nome). Con nessuno fa dei progetti a lunga scadenza, la loro funzione è  mantenerla in forma perfetta per il ritorno di Stefano.

Si noti che, al di fuori di questa sorta di delirio incistato sull’imperituro amore, la sua vita procede normalmente, ricca di rapporti sociali e affettivi e con rilevanti successi professionali.

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E’ buona pratica ricostruire attentamente l’anamnesi personale di ciascun paziente anche quando, come Nicoletta, l’emergenza è attuale come l’abbandono sull’altare. La storia di Nicoletta era scritta nel suo corpo: viso dispettoso e intelligente da prima della classe, occhi vispi e continuamente saettanti a non perdere nulla, capelli neri a caschetto a denunciare le origini sarde, vistoso sovrappeso al confine con l’obesità, in sintesi una ragazza graziosa, ma resa sgraziata da un andatura gravemente claudicante che la fa oscillare ad ogni passo, come sul punto di cadere. Immagino una tetra paresi spastica infantile ma non è così. L’incidente, così lo chiama, è accaduto  all’età di diciassette anni.

La famiglia di Nicoletta è composta dal padre Gervaso, dalla madre Clotilde e da una sorella, Valeria, più giovane, bella, brillante e studentessa di medicina. Gervaso, impiegato delle poste,  di origini sarde, è orgoglioso, severo, convinto che volere è potere. E’ un omino basso e testardo che Nicoletta sente come un giudice implacabile di cui conquistare l’approvazione. Gervaso, certo non bello nè ricco, ha conosciuto la bellissima Clotilde durante una vacanza dalla nonna in Sardegna, quando si facevano tre mesi di villeggiatura, da giugno a ottobre. Clotilde, figlia di uno dei maggiori possidenti terrieri del paese del campidano, ha accettato di sposarla perché anche lei ha un difetto nascosto: era una figlia su ordinazione. Il padre Don Rinaldo non riusciva ad avere eredi dalla ormai matura consorte Donna Carla. Il patrimonio non poteva andare disperso e, così, Carla stessa scelse per il marito una sana e giovane popolana con cui avrebbe fatto un figlio che loro avrebbero allevato come fosse  proprio.

Clotilde crebbe con l’amore dei genitori iperprotetta e viziata, ma la fortuna venne meno quando aveva nove anni: Don Rinaldo divorziò da Donna Carla e fece altri tre figli con la popolana, con cui evidentemente doveva essersi trovato piuttosto bene. Quella diventò la sua nuova famiglia e i due figli maschi i suoi eredi. Clotilde invece restò a vivere con Donna Carla che iniziò ad odiarla, considerandola causa della fine del suo matrimonio e della vergogna che li aveva colpiti. Pur se lei non aveva nessuna colpa, si sentiva additata come responsabile di qualcosa di sporco e di disonesto.

Se Donna Carla la odiava, altrettanto faceva il padre e la sua nuova moglie, in quanto rappresentava il legame con il passato ed era la prova vivente del loro scellerato e ingannevole patto.

Stando così le cose, non le parve vero mollare tutto e seguire il piccolo impiegato postale Gervaso nella capitale, dove nessuno la conosceva. Clotilde, dunque, non sapeva  molto bene il mestiere di madre amorevole e verso la piccola primogenita nutriva una certa soggezione, si sentiva sempre inadeguata e temeva il momento in cui la figlia avrebbe conosciuto la sua storia.

Nicoletta fu cresciuta secondo valori molto rigidi: nella vita occorre una onestà cristallina, in modo che nessuno possa sparlare alle spalle, tutto va conquistato con l’impegno e la fatica e nulla arriva gratuitamente. A Roma un sardo è comunque in terra straniera e per ottenere gli stessi successi dei continentali deve fare almeno il doppio; se poi è donna un ulteriore doppio che fa il quadruplo.

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Nicoletta era sempre stata la prima della classe, i suoi sforzi ottenevano riconoscimenti scolastici e questi l’amore orgoglioso dei genitori. Per offrire alla figlia le migliori opportunità l’avevano iscritta ad un liceo classico di religiosi da dove usciva la futura classe dirigente. Il quarto ed il quinto ginnasio erano stati una cavalcata trionfale. Con il cambio dei docenti le cose erano cambiate e, prima della pagella del primo trimestre del primo liceo, aveva già collezionato insufficienze in greco, storia e  matematica. La risposta di Nicoletta a questa difficoltà fu quella che conosceva: impegnarsi di più, studiare giorno e notte, eliminare le amicizie e anche solo il pensiero di un fidanzatino ma, nonostante gli sforzi e le rinunce, i risultati non arrivavano. Allora, ritenne di essere oggetto di una discriminazione in quanto sarda, provava un rabbioso senso di ingiustizia che riconobbe, anni dopo, identico nella separazione da Stefano. Sentirsi maltrattata e impotente la mandava al manicomio perché la strategia che conosceva per fronteggiare le difficoltà (volere e potere e volere ancora di più) non funzionava.

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Pensò che le professoresse che le avevano dato le insufficienze fossero state condizionate dal preside, Don Nazareno che, a suo parere,  non le aveva perdonato di aver rifiutato l’offerta di lezioni private di recupero ed era mosso, sempre secondo lei, da un insano interesse sessuale nei suoi confronti e le ripetizioni erano una trappola. A riprova di ciò, raccontava che, un giorno,  il preside le aveva fatto i complimenti per l’eleganza con cui indossava la gonna a pieghe blu, divisa della scuola: evidentemente le guardava i fianchi e le gambe.

Per circa un mese fu tormentata da pensieri ossessivi intrusivi riguardanti gli organi sessuali del preside e le possibili acrobazie erotiche. Pensò di parlarne con i genitori prima dell’arrivo della pagella natalizia ma temette che non le avrebbero creduto, immaginò il padre deriderla e dirle che era un modo per non prendersi le sue responsabilità e attribuire agli altri le conseguenze del suo scarso impegno.

Era in una situazione senza via d’uscita, la vergogna della famiglia per quella pagella e lo sarebbe stata ancora di più se avesse raccontato le sue certezze sul complotto del preside satiro. La settimana prima di Natale i genitori decisero di andare a sciare: la gita prevedeva partenza all’alba, con attrezzatura da neve rimediata da amici e parenti. Di tuta impermeabile ne fu trovata una sola, così il padre decise che sarebbe andata Valeria, che era migliore a scuola e Nicoletta sarebbe rimasta a casa a studiare per recuperare. Nicoletta pensò che aveva fallito nel tentativo di far felici i suoi genitori, che nessuno l’avrebbe mai voluta e che non meritava nulla, la vita le sembrò una strettoia in salita sempre più soffocante e intollerabile.

Scelse il cortile interno convinta che avrebbe sentito meno freddo, perché più riparato dal vento e che avrebbe sporcato di meno. Non era ancora del tutto giorno quando la camicia da notte le si arrotolò sotto le braccia e dietro la testa mentre precipitava dal quinto piano.

Nel cadere, si ricordò la formula della quantità di moto studiata per fisica la sera prima ed equivalente a massa per  velocità. Si disse anche che, prima di morire, si fanno proprio pensieri sciocchi e che non è vero che si rivede tutto il film dell’esistenza. Ricorda perfettamente lo spalancarsi delle finestre interne, le grida soffocate dalla coltre di nebbia invernale, l’accorrere del portiere con una coperta militare per proteggerla dal freddo in attesa dell’arrivo dell’ambulanza, l’odore del sangue impastato alla terra, la voglia di vomitare. In ambulanza capì che aveva fallito un’altra volta e che, d’ora in poi, sarebbe stata Nicoletta la matta, vergogna di tutta la famiglia. Pregava di morire perché le sembrava di averla combinata grossa, peggio delle insufficienze in pagella, ma la morte non sta ai nostri desiderata nè per allontanarla nè per chiamarla e sopravvisse. Ricoveri, operazioni, terapie, psicoterapie, fisioterapie, si scatenò il gioco delle colpe. Clotilde additava la severità di Gervaso per non vivere l’accaduto come la drammatica conferma di quello che dentro aveva sempre sentito: essere una madre inadeguata. Valeria si sentiva in colpa per essere la sorella di successo, pesante confronto per Nicoletta. La famiglia stava per disintegrarsi, se non fosse stato per la necessità di fornire assistenza a Nicoletta che, forse, non avrebbe più camminato da sola per tutta la vita.

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Andarono insieme in terapia familiare e la diagnosi tranquillizzò tutti: Nicoletta aveva un disturbo borderline di personalità, che significava che stava in bilico tra la normalità e la follia. Era una questione di carattere, non sarebbe mai cambiata e avrebbe reso burrascose le relazioni con gli altri. Per conto loro non potevano far altro che camminare per la loro strada senza farsi intralciare dai tentativi di Nicoletta di richiamare l’attenzione, come aveva fatto con il tentato suicidio. Se non era morta evidentemente non ne aveva intenzione e voleva solo farli sentire in colpa, se avessero concesso maggiori attenzioni avrebbero involontariamente rafforzato questi comportamenti clamorosi e isterici.

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La ragazza lentamente si era ripresa e, pur non avendo mai smesso la fisioterapia, riusciva a camminare senza bastone.

Trova lavoro prima in un call center e poi come segretaria in uno studio medico e viene sempre apprezzata. Lo scarso movimento causa, negli anni successivi, un sensibile sovrappeso che offusca la sua fresca e discreta bellezza. 

Per Nicoletta tutto ciò faceva parte di un’ anamnesi patologica della quale non amava parlare e che ricordava come “l’incidente”, una parentesi chiusa e senza significato.

Anch’io mi sentivo come un curioso non autorizzato, un voyer, a occuparmi di quegli eventi passati che pure mi sembravano importanti. Peraltro, superato il trauma dell’inaspettata separazione, Nicoletta è tutt’altro che una persona cupa e triste: appare sorridente, con una grande facilità ad istaurare rapporti positivi che possono essere cordiali e superficiali, ma anche profondi.

La prima terapia con Nicoletta si concluse felicemente e di comune accordo quando lei era giunta alla soglia dei trent’anni. Aveva cessato tutti i comportamenti di stalking nei confronti di Stefano, che continuava a vivere negli Stati Uniti, si era laureata in giurisprudenza e collaborava presso uno studio legale, aveva molte amicizie, viaggiava molto e non le mancavano relazioni affettive significative, né una soddisfacente vita sessuale.

Sembrava convinta che la storia con Stefano fosse stata meravigliosa, ma davvero finita.

Per alcuni anni il ricordo di Nicoletta lo riposi nel cassetto delle terapie concluse con successo in cui vado a scartabellare quando le cose non vanno troppo bene e viene il dubbio di essere un incapace. Quando mi richiamò temetti di doverle cambiare cassetto e ciò mi procurò fastidio. Era guarita, ora cos’altro c’era? In realtà era in un’altra fase di vita, aveva trentotto anni e si preoccupava di non riuscire ad avere un figlio.

Mentre per me stava nel cassetto dei “casi risolti”, aveva avuto tre storie importanti e, finalmente, anche con nomi diversi da Stefano, ma si trattava sempre di uomini che non potevano darle dei figli: Roberto era sposatissimo con due figli piccoli, Mauro un compagno di lavoro, la amava ma non riusciva a prendere nessuna più piccola decisione per la sua vita e Alfredo aveva persino frequentato la famiglia di Nicoletta  mostrando le più serie intenzioni ma, con imbarazzo di tutti, aveva messo incinta Valeria e ora conviveva con lei ed il piccolo Luca di due anni. Numerosi erano gli uomini che ne decantavano le doti, aspiravano ad una relazione e avevano una sistematica vita sessuale con lei, ma non mostravano nessuna intenzione matrimoniale o di genitorialità condivisa. Convinta Nicoletta che la teoria della sfortuna e, dunque, di aspettare l’anima gemella non ci avrebbe condotto da nessuna parte, iniziammo a considerare come andavano le cose.

I motivi apparvero subito di due tipi. In primo luogo, quello evidente anche nella relazione con me: Nicoletta si era sempre sentita indegna e di poco valore ed oggi ancora di più a motivo dell’handicap di cui colpevolmente soffriva. Per questo, non poteva pretendere nulla dal partner, l’unico modo che aveva per tenerselo almeno un po’ vicino era di non fare richieste e di assecondarlo in tutti i desideri, accettare ogni condizione e non porne alcuna.

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Manifestava un quadro maestoso di un disturbo dipendente di personalità, per certi versi ricordava  “Agrado”,  il transessuale protagonista del film “Tutto su mia madre” di Almodovar che ha, nel nome, il destino di far contenti gli altri chiunque essi siano e a qualsiasi condizione. Semplicemente il desiderio di maternità non lo aveva mai espresso.

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Ci si potrebbe chiedere perché però non fosse mai venuto in mente ai suoi partner e qui emerge il secondo tema, che mette in dubbio la collocazione nel cassetto da me fatta: lei si era sempre scelta degli uomini inaffidabili, spaventati dalle responsabilità o già impegnati, forse per senso di indegnità e per punirsi? Peggio. Con un certo imbarazzo, che il mio sguardo lampeggiante non deve aver diminuito, Nicoletta ammette: finchè non mi lego definitivamente è sempre possibile che Stefano lasci la moglie e torni da me. Il figlio di un altro sarebbe un intralcio, del resto che i figli di altri costituiscano un ostacolo insormontabile fa parte della storia familiare di Nicoletta.

Quando mi elenca le prove certe, che ha, del prossimo fallimento del matrimonio americano di Stefano è delirante e contemporaneamente parzialmente critica. Il mio sguardo, che unisce pena per lei e frustrazione per me, sottolinea i bias confermazionisti e lei capisce e annuisce come a dirsi “me la racconto vero?”. La produzione scientifica di Stefano è diminuita a riprova dei problemi che sta attraversando, non ha ancora un figlio, il che certifica l’assenza di rapporti sessuali e, in tutti questi anni non si è mai fatto vivo perché sente che, anche un contatto fugace, manderebbe all’aria la sua esistenza americana. Nel suo blog parla di ecologia, che era un argomento di cui erano appassionati insieme, l’elezione di Obama è un segno che lui le ha mandato per dirle che negli USA c’è spazio per tutti e anche lei sarà ben accolta, quando lo raggiungerà. La madre di Stefano, sempre di ostacolo alla loro relazione, è finalmente morta e, anche in quest’occasione, Stefano non è tornato in Italia per sfuggire alla tentazione che lei rappresenta.

Senza indugi apro il cassetto e le prescrivo dei neurolettici, mentre le spiego che è davvero troppo matta e spero che le medicine possano ciò che la psicoterapia non ha potuto. E’ come se le avessi dato una testata sul naso, in  fondo lo farei volentieri, odio i pazienti che non “mi” guariscono e, peggio, quelli che sembravano guariti e non lo sono.

Decido di riesaminare passo per passo il rapporto con Stefano.

Questa sarà per lei la parte più straziante della terapia e più volte ho temuto un suicidio. Nicoletta, già con la prima terapia, aveva rinunciato all’idea di tornare con Stefano ma non ad un’ idea ancora più importante e narcisistica: lei e Stefano avevano vissuto la storia d’amore più grande che il mondo avesse mai conosciuto e questa esperienza, unica e assoluta, nessuno poteva mai togliergliela anche se non fossero più stati insieme. Partimmo alla ricerca delle ragioni per cui Stefano non aveva mai detto nulla delle sue difficoltà fino al giorno del rogito; non diceva nulla perché aveva paura delle reazioni di lei, Stefano era un bambino spaventato da una madre che minacciava di uccidersi se lui non avesse obbedito.

Con questa chiave di lettura rilesse tutta una serie di avvenimenti della loro storia in cui il forte disaccordo tra i due  veniva seppellito fingendo una falsa alleanza per evitare il conflitto e la temuta separazione, intollerabile per la abissale dipendenza di entrambi che nulla aveva a che fare con un effettivo amore. Pensò che Stefano doveva averla profondamente odiata e doveva essersi sentito perseguitato non solo durante lo stalking, seguito alla separazione, ma anche durante la convivenza.

 Contemporaneamente Nicoletta ebbe accesso a ricordi sgradevoli della loro relazione che non erano mai emersi prima. Trovava insopportabile Stefano quando elencava agli amici tutto ciò che faceva per aiutarla nel suo handicap, era irritata dal suo occuparsi della cucina solo in presenza di estranei, non tollerava che fosse a totale disposizione dei capricci della madre e che non la difendesse mai quando la vecchia ubriacona risollevandosi dalle pozzanghere di vomito in cui cadeva accusava “quella povera infelice sciancata” di essere la causa di tutti i suoi dispiaceri e del conseguente ricorso all’alcool, provava disgusto per le approssimative abitudini igieniche di Stefano e per l’abitudine di masturbarsi ripetutamente mentre stava a letto con lei.

Avere accesso a questi contenuti demolì l’idea narcisistica di “storia d’amore unica e perfetta” che aveva voluto mantenere anche dopo aver perduto Stefano. Il suo umore cadde in picchiata, ma mi trattenni dal prescrivere antidepressivi, quell’infinita tristezza era il deserto che andava attraversato per raggiungere la terra promessa della normalità, lasciandosi alle spalle le narcisistiche cipolle d’Egitto.

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Nessuna delle successive relazioni erano state paragonabili a quella con Stefano, che risultava sempre vincente. Ora, invece, iniziava ad apprezzare relazioni in cui non ci fosse una sola persona ma due, che potevano anche essere in disaccordo, scontrarsi e persino allontanarsi un po’. Non credo per principio alla significatività delle coincidenze, ma restammo colpiti quando in una delle ultime sedute scoprimmo che il neurochirurgo che miracolosamente e contro ogni aspettativa le aveva salvato la vita dopo il volo dal quinto piano, era lo stesso che si era occupato del mio cervello, nella pausa intercorsa tra la prima e la seconda psicoterapia.

Ho rimesso Nicoletta nel cassetto dei casi risolti.

Il fatto di averla nuovamente sentita in occasione del battesimo di suo figlio, che porta il mio nome, mi conferma che sia la collocazione giusta. 

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