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Rifugiati

La storia dei rifugiati è quasi sempre una storia di sofferenza, di traumi precoci, estremi e continuativi; questo rappresenta una sfida per gli operatori

A definire lo status di rifugiato è l’articolo 1A della Convenzione di Ginevra del 1951. Qui leggiamo che il rifugiato è colui “che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”.

È dunque immediato comprendere come la storia dei rifugiati sia quasi sempre una storia di sofferenza, una storia costellata di traumi precoci, estremi e continuativi; primi tra tutti: le torture a cui spesso i rifugiati sono sottoposti.

Diamo uno sguardo ad alcuni dati che delineano una situazione allarmante: la tortura è attualmente praticata da 102 Paesi, Italia compresa; tra il 20% e il 25% dei richiedenti asilo ha subito torture e in Europa attualmente vivono circa 600.000 rifugiati sopravvissuti a torture, di cui solo 30.000 hanno potuto avvalersi di cure specialistiche adeguate (Chiej, 2014).

La salute mentale nei rifugiati

L’ONG Medici senza frontiere, in accordo con il Ministero della Sanità, ha elaborato una serie di strumenti per la valutazione della salute mentale e la cura per i richiedenti asilo di recente arrivo in Sicilia. Grazie a questo si è riusciti a svolgere uno studio (Crepet A. et al. 2017) sui richiedenti asilo arrivati alla frontiera di Lampedusa nel biennio 2014-15 che documenta le condizioni della salute mentale, gli eventi potenzialmente traumatici e le difficoltà di vita post migratorie sperimentate dai richiedenti asilo nel programma di Medici senza frontiere.

Le diagnosi più comuni di erano: il disturbo da stress post-traumatico (31%) e la depressione (20%). Eventuali eventi traumatici sono stati riscontrati frequentemente nel paese di origine (60%) e durante la migrazione (89%). Essere in una situazione di conflitto e/o rischio di morte, dopo essere stati testimoni di violenza o di morte e di essere stati in detenzione, sono stati i traumi principalmente rilevati.

Un altro studio (Steel J.L. et al., 2017) ha cercato di fornire stime di traumi pre-emigrazione, stress post-migrazione e conseguenze psicologiche su immigrati e rifugiati provenienti dall’Africa (prevalentemente subsahariana) che sono stati accolti in Svezia. Sono stati presi in considerazione come variabili la salute mentale post-immigrazione ma anche elementi socioculturali come il grado di alfabetizzazione raggiunto nel paese ospitante. Dai risultati emerge che l’80% dei partecipanti ha riportato almeno un’ esperienza traumatica prima dell’ emigrazione. Il 44% dei rifugiati ha riportato PTSD clinicamente significativo e il 20% ha riportato sintomi depressivi clinicamente significativi. I maschi hanno riportato un numero significativamente maggiore di eventi traumatici e una maggiore quota di stress post-migrazione rispetto alle femmine, che invece hanno riportato una maggiore prevalenza dei sintomi depressivi rispetto ai maschi.

Rifugiati, trauma migratorio e Disturbo Post-Traumatico Complesso

Sentirsi impotenti di fronte a gravi minacce alla propria vita o incolumità fisica è una situazione che la mente umana non può tollerare a lungo e che genera l’innesco di strategie di sopravvivenza che rischiano di rimanere attive anche molto tempo dopo il superamento del pericolo: stati di allerta persistenti, flash back, reazioni intense di collera e reazioni sproporzionate anche a stimoli ambientali di lieve pericolo e minaccia. La cronicizzazione di queste reazioni è responsabile dello sviluppo di disturbo da stress post-traumatico e di PTSD complesso, situazioni cliniche che se prolungate nel tempo aumentano la probabilità di compromettere la salute fisica e mentale delle vittime nell’arco di vita: depressione maggiore (48%), fobie specifiche (30%), abuso di alcol (51,9%), abuso di droghe (34,5%), disturbi della condotta (43,3%); a queste si aggiungono sul piano della salute generale una maggiore incidenza di malattie autoimmuni, infezioni croniche e un’alterata sensibilità al dolore che può manifestarsi con sindromi da dolore cronico molto invalidanti nella vita quotidiana.

I ricercatori (Danon M., Miltenburg A., 2001) parlano proprio del trauma migratorio, ovvero di quel tipo di trauma caratterizzato da viaggi lunghissimi e drammatici, malnutrizione, malattie non curate, aggressioni, talvolta morte dei compagni di viaggio, sfruttamento, violenze, comprese quelle sessuali; molto spesso i paesi di frontiera detengono le persone per lungo in campi profughi o li respingono violando la convenzione di Ginevra (Benvenuti M., 2006).

I traumi estremi, interpersonali e continuativi, che portano a manifestare il Disturbo Post-Traumatico Complesso (differente dal PTSD) hanno un impatto particolarmente dirompente, frammentante e annichilente e provocano alterazioni profonde delle funzioni associative della psiche.

Di fronte ad esperienze così estreme quali quelle vissute dai rifugiati, può capitare che le normali difese della persona non siano più in grado di funzionare ed entrino in gioco difese primitive, dissociative. I frammenti inelaborabili del trauma restano confinati all’interno di una o più parti di personalità che acquista caratteristiche dissociative. Le parti dissociative sono psichicamente attive, se pure frammentate e tendono a riapparire automaticamente in situazioni stressanti, condizionando pesantemente il funzionamento dell’Io che si impoverisce.

Oltre a ciò, il Disturbo Post-Traumatico Complesso è caratterizzato, come abbiamo visto, da alterazioni nell’identità e nelle relazioni, sintomi cognitivi e alterazioni della memoria, sintomi depressivi e alterazioni della sfera affettiva, sintomi da iper o ipo-arousal, sintomi ansiosi e sintomi somatici. La dissociazione, tuttavia, è il nucleo centrale e specifico della traumatizzazione e tende ad aggravarsi con la sequenzialità dei traumi, come dimostra anche una ricerca su rifugiati del Camerun e del Ciad presentata da Germani.

La ricerca mette in evidenza anche l’importanza del periodo post-traumatico che inizia con la fuga dal paese d’origine, non solo in termini di traumatizzazione secondaria (così frequente durate la fuga) ma anche intesa come situazioni e contesti destabilizzanti nei paesi di arrivo.

Interventi medici, psicologici e psicoterapici con i rifugiati

Il tema dei rifugiati e richiedenti asilo pone difficoltà e sfide peculiari per operatori, psicologi, psichiatri e in generale per tutte le figure che a vario titolo sono chiamate ad occuparsi di situazioni così al limite.

Sappiamo che l’essere esposti a tali eventi è un fattore di rischio importante per lo sviluppo di psicopatologia. In questo senso tutti i richiedenti asilo sono potenzialmente vulnerabili, ma certamente ci sono categorie che diventano effettivamente vulnerabili (anziani, disabili, donne in gravidanza, minori) o altamente vulnerabili (vittime di tortura, stupro, traumi estremi) che devono essere identificati per poter fornire loro cure adeguate.

Riconoscere precocemente i segnali che indicano la presenza di fattori di rischio è di cruciale importanza per una presa in carico adeguata che consenta l’integrazione nel nuovo contesto e l’uscita verso una nuova autonomia.

Tuttavia c’è ancora poca ricerca sui bisogni dei rifugiati e richiedenti asilo, in particolare sul loro accesso alle cure mediche appropriate. La ricerca arriva principalmente dal Canada, dall’Australia e dalla Nuova Zelanda.

Le linee guida (Pottie et al., 2011) ci informano che gli immigrati dovrebbero essere dotati di vaccinazione e screening medico di routine. C’è un grande bisogno di continuare a fornire servizi di assistenza ai rifugiati per la formazione professionale, l’accesso al mercato del lavoro e la consulenza per i traumatizzati (Maximova & Krahn, 2010). Una meta-analisi ha evidenziato che le molteplici dimensioni dell’integrazione dei rifugiati non possono essere comprese senza tener conto di una vasta gamma di fattori di stress pre e post-migrazione (Porter & Haslam, 2005; Ringold, Burke, e Glass, 2005).

Gli ostacoli alle cure e le sfide degli operatori

Questi processi sono però ostacolati da alcuni fattori: la prima difficoltà, descritta nel 2001 Burnett e Peel, è comprendere la procedura di registrazione con un medico di medicina generale. La lingua è la barriera più importante che ostacola i rifugiati nell’accesso ai servizi sanitari.

Studi australiani e neozelandesi hanno esplorato altri ostacoli incontrati dai rifugiati nell’accesso ai servizi sanitari, e le sfide affrontate dagli operatori. Il problema principale sono le gravi esigenze di salute fisica dei rifugiati a causa della malnutrizione, della povertà, degli abusi, del sovraffollamento dei campi profughi e dell’inadeguata fornitura di assistenza sanitaria. La seconda sfida sono i problemi di salute mentale e il disagio psicologico dei rifugiati, che hanno sperimentato o assistito a tortura, violenza, stupro e morte. Inoltre, alcuni rifugiati possono non riferire i loro problemi nei servizi di consulenza psicologica, perché nella loro cultura il silenzio e l’oblio sono i meccanismi di gestione più comuni (Burnett & Peel, 2001).

La letteratura dice che i farmacisti sono spesso i primi operatori sanitari che aiutano i nuovi arrivati ​​con i loro bisogni di assistenza sanitaria e anche in questo caso le linee guida confermano l’importanza delle farmacie per la cura degli immigrati e rifugiati (Ingar, Farrell, e Pottie, 2013). Un’altra linea di assistenza primaria è fornita dagli Istituti caritatevoli, società senza scopo di lucro progettate per fornire servizi sanitari di base a prezzi accessibili e adeguati (Lawrence & Kearns, 2005). L’assistenza sanitaria è un processo fondamentale per consentire ai gruppi di rifugiati una piena integrazione nei paesi ospitanti (Mortensen, 2008).

Un altro filone della letteratura affronta le sfide che devono affrontare gli operatori che lavorano con i rifugiati,  tra cui la lingua, la pressione del tempo e le differenze culturali (Burnett & Peel, 2001). Gli operatori hanno bisogno di una formazione specifica per sapere prendersi cura dei rifugiati e degli immigrati. Dovrebbero conoscere la storia degli immigrati. Domande semplici, come ad esempio “Come vi aiuterebbe un farmacista nel vostro paese?” possono fare la differenza quando si inizia una valutazione di un paziente immigrato (Pottie et al., 2011).

Far fronte a disturbi emotivi e mentali è una competenza primaria per gli operatori sanitari per aiutare i nuovi arrivati. I problemi di salute emotiva e mentale mettono sotto pressione i servizi di cure primarie e secondarie locali, dato che l’isolamento sociale e la solitudine dei rifugiati ha portato a problemi emotivi, sociali e mentali.

Gestire la sfida di lavorare in un programma con i rifugiati e gli immigrati richiede molte abilità. Non può essere trascurato il bisogno di corsi specializzanti, progettati per preparare le persone a lavorare nel campo dell’assistenza umanitaria (Harrel-Bond, 2002; Walkup, 1997). Al momento attuale i medici di base hanno poche risorse, sia a livello individuale che a livello strutturale, per fornire cure efficaci e gestire le condizioni di salute per i rifugiati (Johnson, Ziersch, e Burgess, 2008). La competenza transculturale è necessaria per offrire una valutazione e un trattamento completi e fa la differenza in termini di soddisfazione del paziente (Koehn, 2005).

È dunque opportuno, alla luce di tutti questi fattori di rischio e di fragilità che espongono maggiormente i migranti alla possibilità di sviluppare disturbi mentali, realizzare percorsi strutturati che coinvolgono équipe multidisciplinari (etnopsichiatri ed etnopsicologi, medici, mediatori linguistico culturali) che possano affrontare un fenomeno tanto complesso quanto collettivo. I beneficiari di questi interventi non possono essere solo i diretti interessati nella migrazione ma anche le generazioni successive poiché i fattori di rischio per il disagio psichico non si esauriscono alla prima generazione ma possono avere ripercussioni fino alla terza generazione (L. Grinberg, R. Grinberg 1990).

Psicoterapia per rifugiati: la Terapia dell’Esposizione Narrativa

Uno dei metodi attualmente utilizzati e integrabili nei servizi che si occupano di gestire l’emergenza migranti, potrebbe essere proprio quello proposto nel recente manuale sulla Terapia dell’Esposizione Narrativa (NET) di Schauer, Neuer, Elbert (2014). Questo metodo terapeutico offre un protocollo breve per intervenire sulle situazioni sopra descritte e che utilizza la narrazione degli eventi traumatici come strumento terapeutico per ottenere un duplice risultato clinico: ridurre sintomi trauma-correlati e offrire la possibilità di una ricostruzione coerente della propria storia, che possa essere utile a recuperare dignità personale e consapevolezza della violazione dei diritti umani subita. Il trauma infatti rende la memoria frammentata e questo rischia di alterare i ricordi o la loro precisa collocazione nel tempo, generando inevitabile confusione nella vittima, dubbi sulla veridicità degli eventi e sulle responsabilità degli stessi, elementi che sul piano clinico possono mantenere e peggiorare il malessere psicologico.

Nella NET il paziente parla ripetutamente di ogni evento traumatico in dettaglio, mentre fa di nuovo esperienza delle emozioni, delle cognizioni, delle sensazioni fisiologiche e sensoriali e dei comportamenti associati all’evento. Allo stesso modo il paziente racconta le esperienze positive. Con l’aiuto e la guida del terapeuta, il paziente costruisce una narrazione della sua vita, focalizzandosi sui dettagli del contesto relativi alle esperienze traumatiche, così come sugli elementi importanti delle reti emozionali e su come tutte queste parti siano tra loro connesse. Il processo narrativo permette di riconoscere che la rete della memoria incentrata sulla paura, che nel presente provoca i sintomi allerta, viene da esperienze passate e che la sua riattivazione nel racconto è nient’altro che un ricordo di quelle esperienze. Attraverso la narrazione ripetuta i pazienti perdono la risposta emotiva al ricordo degli eventi traumatici, il che porta alla lenta remissione dei sintomi post-traumatici. Allo stesso tempo guadagnano l’accesso ai ricordi passati e sviluppano un senso di coerenza, controllo e integrazione.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

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SITOGRAFIA:

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