Salute mentale in rifugiati e migranti di tutto il mondo
Violazioni continue dei diritti umani, guerre e violenze di massa stanno provocando, secondo l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (UNHCR), un crescente aumento di profughi e sfollati nel mondo, con oltre 117 milioni di rifugiati e richiedenti asilo a fine 2023. Questo significa che 1 persona su 69 è attualmente costretta a spostarsi sulla Terra.
Con quali esiti sul piano psicologico? Studi condotti su rifugiati e richiedenti asilo provenienti da Medio Oriente, Asia, Europa, Africa, Stati Uniti, Canada e Nuova Zelanda rivelano indici più elevati di disturbi mentali in queste popolazioni, tra cui (Blackmore et al., 2020; Patanè et al., 2022):
- disturbo post traumatico da stress (31% circa, contro il 3,9% nella popolazione generale)
- disturbo depressivo maggiore (32% circa vs 4,4% nella popolazione generale)
- disturbo borderline di personalità (5% vs 2,5%)
- disturbi d’ansia, in particolare la forma adulta del disturbo d’ansia da separazione (Tay et al., 2015; 2016).
Quali sono i traumi più comuni vissuti dalle popolazioni sfollate? Possiamo distinguere tra traumi pre-emigrazione e traumi post-emigrazione. Tra i primi, ricordiamo guerra, repressione politica nel Paese d’origine, violenza individuale e istituzionale; tra i secondi, invece, possono esservi incertezza sull’esito delle domande di asilo, rischio di rimpatrio, mancanza di permessi di lavoro, difficoltà nell’accesso ai servizi sociosanitari ed educativi e separazione dalla famiglia (Knipscheer et al., 2015; Fegert et al., 2018; Silove, 2004). E mentre la scena internazionale dibatte sull’opportunità o meno di utilizzare come sinonimi le etichette “migrante” e “rifugiato” correndo il rischio di politicizzare gli aiuti umanitari, la ricerca psicologica suggerisce che fame e povertà, sperimentate non solo in terra d’origine ma anche nei Paesi di reinsediamento, possono costituire fattori altrettanto traumatici, al pari di bombe e torture (Reumert, 2016; Kamelkova et al., 2023).
Barriere nell’utilizzo dei servizi di salute mentale
Esiste un ampio divario tra lo stato di salute mentale di rifugiati e migranti e le risorse globali disponibili per soddisfare i loro bisogni di cure in modo equo (Patel et al., 2010). La sfida è ancora più ardua se si considera che la maggior parte di tali popolazioni è distribuita in paesi a basso e medio-basso reddito, dove le risorse per la salute mentale restano ancora rudimentali (Silove et al., 2019). Gran parte di queste persone vive in contesti inaccessibili o complessi. Un esempio è costituito dai cosiddetti sfollati interni – internally displaced people – che non rientrano nel raggio d’intervento dell’UNHCR, o coloro che sono sfollati in località remote, dispersi in contesti urbani densamente popolati e poveri, o trattenuti in luoghi di confinamento e detenzione (UNHCR, 2018).
La recente e crescente attenzione alle condizioni di salute mentale di rifugiati e migranti ha spinto la ricerca a individuare possibili fattori in grado di ostacolare la messa in campo di azioni specifiche e servizi per la cura e la tutela del benessere psicologico di queste popolazioni.
Secondo la letteratura (Byrow et al., 2020) esistono vari tipi di barriere che possono impedire a rifugiati, richiedenti asilo e migranti di accedere ai servizi di salute mentale:
- barriere pratiche, come difficoltà finanziarie, di trasporto, alloggi non sicuri, difficoltà nel reperire informazioni sui servizi, mancata conoscenza del sistema sanitario accogliente e dei relativi servizi, difficoltà nel ritardo o nella pianificazione degli appuntamenti;
- barriere linguistiche, in particolare mancanza di interpreti professionisti e mediatori linguistici;
- barriere culturali, che attengono la stigmatizzazione della malattia mentale, dell’uso dei servizi di salute mentale e la sfiducia verso i professionisti del settore.
Uno studio condotto su rifugiati e residenti in Germania, ad esempio, ha riscontrato che i rifugiati hanno rifiutato la possibilità di accedere a un trattamento psicologico più dei tedeschi stessi (Schlechter et al., 2023).
Inoltre, alcuni gruppi di rifugiati non occidentali sembrano sviluppare una diversa comprensione delle questioni riguardanti la salute mentale, spiegando cause e sintomi in virtù di fattori soprannaturali o religiosi, in grado di indurli a rifiutare di ricevere informazioni sui servizi di cura o di accedervi (Byrow et al., 2020).
In taluni casi, i problemi di salute mentale implicano connotazioni negative e possono provocare vergogna, ostilità della famiglia e paura di essere discriminati dalla comunità di riferimento. In altri casi, invece, è assente nell’assetto culturale di provenienza un vero e proprio lessico psicologico specifico; alcuni rifugiati, infatti, usano il termine “dolore” per descrivere i loro stati emotivi (Byrow et al., 2020).
Ulteriori sfide culturali possono riguardare le convinzioni negative in merito all’efficacia dei trattamenti di psicoterapia e farmacologici: adolescenti rifugiati somali residenti negli Stati Uniti hanno mostrato di non accettare i fornitori di servizi di salute mentale (all’infuori dei consulenti scolastici), preferendo pregare per la persona bisognosa di cure mentali o chiedere consiglio a membri della propria comunità, familiari e amici (Ellis et al., 2010). Per alcuni rifugiati, i servizi di salute mentale dei Paesi ospitanti potrebbero non essere appropriati o efficaci, in quanto gli erogatori non sarebbero in grado di comprendere i loro problemi a causa del divario culturale (Byrow et al., 2020). Altri studi indicano che i pazienti migranti trovano la psicoterapia e le domande di assessment prive di significato e inefficaci per il miglioramento (Jarlby et al., 2018).
Quali psicoterapie per quali pazienti
Alla luce di tali considerazioni, un filone di ricerca suggerisce una personalizzazione dei metodi di trattamento psicoterapico standardizzati, in quanto potrebbero risultare culturalmente inappropriati per i pazienti non occidentali, nonché l’adozione di trattamenti e strumenti culturalmente sensibili e approcci metodologici combinati (Ziyachi & Castellani, 2024).
Un esempio a tal proposito è rappresentato dalla guida redatta nel 2019 dall’American Psychiatric Association, per la specifica presa in cura di donne migranti o rifugiate vittime di violenza da parte del proprio partner (Intimate Partner Violence).
Un’ulteriore considerazione riguarda la possibilità di estendere il focus degli interventi di psicoterapia dal singolo individuo alla famiglia o alla comunità di riferimento. I traumi del conflitto di massa possono portare a un effetto a cascata all’interno delle famiglie, con un impatto su partner intimi e figli, innescando così potenziali effetti transgenerazionali a lungo termine (Rees et al., 2015; Tay et al., 2017). Riconoscendo la portata di questi effetti moltiplicatori, i servizi specializzati per i rifugiati spesso estendono gli interventi oltre l’individuo per includere il partner e i figli. Tuttavia, al momento, pochi di questi approcci sono stati sottoposti a valutazione scientifica (Silove et al., 2019).
Promuovere l’accesso ai servizi per la salute mentale
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha individuato cinque temi chiave che ciascun sistema sanitario dovrà affrontare per migliorare l’accesso ai servizi per la salute mentale da parte di rifugiati e migranti:
- Sostegno della comunità: essere inclusi in una comunità con un background comune e frequentare la scuola sono fattori associati a tassi più bassi di disturbi mentali.
- Bisogni di base e sicurezza: garantire il soddisfacimento di tali bisogni migliora la salute mentale.
- Stigma: esperienze di razzismo, vittimizzazione e discriminazione hanno impatto negativo sulla salute mentale.
- Avversità e traumi: traumi come la reclusione prolungata sono associati a tassi più elevati di depressione e disturbo da stress post traumatico.
- Accesso ai servizi: favorire la conoscenza dei servizi disponibili gratuitamente, abbattere barriere linguistiche e informare in merito alla riservatezza dei trattamenti ricevuti.
Soddisfare il bisogno urgente di assistenza nel campo della salute mentale di migranti e rifugiati implica, inoltre, adottare un approccio che tenga conto di determinanti socioculturali, imprescindibili sia nella relazione terapeutica sia nell’implementazione della rete dei servizi. Che si tratti di migranti, rifugiati, sfollati o richiedenti asilo, ognuno di questi esseri umani affronta sfide, drammi e traumi unici che meritano un’assistenza centrata sulla persona, attenta e rispettosa delle differenze culturali (Rivera, 2022).