Tra rape culture e victim blaming
La rape culture, “cultura dello stupro”, viene definita come “un’ideologia pervasiva che effettivamente sostiene o giustifica la violenza sessuale” (Burt, 1980, p. 218), oltre che ad “un continuum di violenza minacciata che spazia dai commenti sessuali alle molestie fisiche fino allo stupro stesso” (Buchwald et al., 1993). La cultura dello stupro deriva da una società di natura patriarcale, e viene quotidianamente messa in atto tramite l’utilizzo di un lessico misogino, i tradizionali ruoli di genere, l’accettazione della violenza interpersonale e l’oggettivazione sessuale dei corpi femminili (Burt, 1980; Buchwald et al., 1993), che oggi viene principalmente operata dai social media. Questa costante minaccia, percepita intensamente dal genere femminile, è in grado di influire negativamente sullo stile di vita e sulla libertà delle donne, in quanto genera in loro estremo timore per delle semplici attività, come ad esempio camminare da sole per strada e sui mezzi di trasporto o fare uso di alcolici.
Intrinsecamente collegato alla rape culture, troviamo il victim blaming, un fenomeno di vittimizzazione secondaria, dove alla vittima viene attribuita una parte di responsabilità per la violenza subita. Indirettamente, mediante commenti riguardanti, ad esempio, l’abbigliamento indossato, la quantità di alcol assunta e il numero di partner sessuali avuti durante l’arco di vita, viene sottinteso che la vittima abbia contribuito all’evento spiacevole, che “se la sia cercata”. In questo modo, il victim blaming, non solo ostacola e disincentiva le donne che hanno subito violenza a denunciare l’aggressore, ma influisce anche notevolmente sul sistema giudiziario e di conseguenza sugli esiti giudiziari stessi, inficiando così le modalità di trattamento delle vittime di stupro (Thacker, 2017).
La vera motivazione sottostante al victim blaming?
È stato osservato che la tendenza ad incolpare la vittima derivi dalla profonda necessità di credere che il mondo sia un posto buono, giusto e sicuro. Se non ci aggrappassimo a questa concezione sicura del mondo, vivremmo in una perenne condizione di paura e terrore, per cui queste convinzioni positive sul mondo risultano necessarie per vivere una vita felice ed il più possibile serena (Janoff-Bulman, 2010).
Lo psicologo Melvin Lener ha condotto una ricerca pioneristica (Lerner, 1980) che ha dimostrato come la necessità di credere che il mondo sia un posto buono e giusto risulti la principale causa della colpevolizzazione delle vittime. Quando eventi particolarmente spiacevoli accadono a persone a noi simili, tendiamo a realizzare che lo stesso episodio potrebbe presentarsi anche a noi. Per evitare di farci sovrastare dalla sensazione di paura e pericolo verso il mondo che ci circonda, ci allontaniamo psicologicamente dalla vittima e cerchiamo di autoconvincerci che sicuramente quella persona ha messo in atto comportamenti sbagliati che l’hanno portata in quella situazione. Così facendo ci convinciamo che a noi non può succedere nulla di simile, che certe cose non le facciamo e che di conseguenza il mondo rimane un posto sicuro e giusto.
A questo proposito, lo psicologo Lerner ha voluto condurre un altro esperimento (Lerner & Simmons, 1966) per confutare quanto scoperto in precedenza. È stato quindi chiesto a delle donne di osservare attraverso uno schermo il video di una persona mentre eseguiva un compito di memorizzazione delle parole e che riceveva delle scosse elettriche, apparentemente dolorose, come punizione ogni volta che sbagliava risposta. A questo punto, ad un gruppo di partecipanti è stata data la possibilità di votare per interrompere le somministrazioni di scarica elettrica e di risarcire il soggetto con un premio ogni qualvolta avesse fornito la risposta giusta, così da poter ripristinare un sentimento di giustizia, far tornare il mondo buono e giusto. Invece, all’altro gruppo, è stato chiesto di osservare la scena, senza poter intervenire sulla sofferenza della persona. Quando alla fine è stato chiesto a tutte le donne di esprimere una personale opinione sulla vittima, i risultati hanno rilevato differenze significative tra i due gruppi: il gruppo che aveva avuto la possibilità di ristabilire giustizia vedeva la vittima come una persona buona, mentre coloro che erano stati costretti ad osservare inermi la situazione, hanno espresso pareri di disgusto verso la vittima, considerandola meritevole del suo destino. Secondo Lerner, questa reazione è il risultato del loro tentativo di autoprotezione, che si è attivato nel momento in cui il mondo è apparso ai loro occhi come pericoloso ed ingiusto. Colpevolizzando la vittima hanno mantenuto una visione del mondo positiva: quella persona si meritava di ricevere la scossa, il modo stava agendo correttamente.
Riusciremo mai a debellare il victim blaming?
Secondo una ricerca di Aderman e colleghi (1974), la soluzione al victim blaming è l’empatia. Hanno replicato l’esperimento di Lerner e Simmons, ma invece di chiedere alle donne di osservare senza poter intervenire, hanno chiesto loro di immaginare come si sarebbero sentite se avessero vissuto la stessa esperienza della vittima. I risultati hanno mostrato come la risposta empatica di queste donne sia riuscita ad eliminare la tendenza delle partecipanti a puntare il dito sulla vittima.
Anche un altro studio (Sakallı-Uğurlu, 2007) si è posto come obiettivo quello di indagare quanto l’empatia riesca a modulare il victim blaming. Nella ricerca sono stati misurati i livelli di empatia di alcuni studenti universitari e i risultati hanno dimostrato che le persone con dei livelli di empatia maggiori valutavano più positivamente i sopravvissuti ad uno stupro, mentre chi presentava dai livelli bassi di empatia valutava in maniera più negativa i sopravvissuti.
Nel tentativo di non far sentire sbagliata una vittima, le prossime volte che saremo tentati di domandarci se quella persona sia responsabile della propria tragedia, mettiamoci in discussione e domandiamoci come ci sentiremmo al posto suo. Questi studi suggeriscono che mediante l’empatia è possibile cambiare questi comportamenti.