La memoria autobiografica viene appresa attraverso le interazioni con gli adulti e quindi nella relazione bambino-caregiver.
Lo sviluppo della memoria autobiografica
Numerose ricerche sono state condotte nell’ambito sia della prospettiva dell’attaccamento sia degli studi sulla memoria e hanno indagato lo sviluppo del linguaggio all’interno della diade bambino-caregiver.
Durante l’infanzia lo sviluppo della memoria autobiografica avviene attraverso una sorta di “collaborazione sociale” tra gli adulti e il bambino, il linguaggio consente al bambino di mettere in parole le proprie esperienze, di narrarle a se stesso e agli altri.
La rappresentazione mnemonica del bambino è influenzata dalla capacità dello stesso di discutere un evento quando esso accade e dalla modalità con cui ne discute con il caregiver: tali caratteristiche influenzano la modalità con cui tale evento viene rappresentato.
Il bambino internalizzerebbe la struttura narrativa delle conversazioni condivise e le utilizzerebbe per guidare il proprio richiamo delle esperienze significative precedenti.
Tali conversazioni tra bambino e genitori vengono considerate cruciali per il processo di sviluppo della memoria autobiografica, conversazioni dette “memory talk” (Farrar et al., 1997).
La teoria dell’attaccamento può quindi costituire una cornice per un esame più dettagliato del legame tra la relazione bambino-genitore e lo sviluppo della memoria autobiografica.
I Modelli Operativi Interni (MOI) sono regole che guidano non solo i comportamenti e le intenzioni, ma anche l’attenzione (Marschark et al., 1987).
Numerose ricerche hanno ipotizzato che la natura delle memorie autobiografiche da una parte possa differire in funzione dei modelli operativi che riflettono la relazione di attaccamento, dall’altra sia un agente attivo nella costruzione di tali modelli (Main et al., 1985).
La comunicazione all’interno della diade bambino–caregiver, quindi, svolge il ruolo fondamentale non solo di scambio di informazione e di mantenimento della relazione, ma anche di creazione di una realtà condivisa; quindi le interazioni genitore-bambino, in generale, e le conversazioni diadiche tra essi, in modo più specifico, costituiscono un importante contesto di sviluppo (Laible, 2004).
Le conversazioni riguardanti gli stati interni come, ad esempio, emozioni, desideri e valutazioni rivestono un ruolo importante nello sviluppo di competenze socio-cognitive, tra cui la teoria della mente (Adriàn et al., 2007), la competenza emotiva (Taumoepeau et al., 2006), i comportamenti pro-sociali e le relazioni positive, oltre ad una maggior comprensione di sé (Reese et al., 2007).
Raccontare ricordi ed esperienze vissute assieme, pratica chiamata reminiscing, migliora nel bambino la memoria autobiografica e la competenza emotiva.
È importante notare come le conversazioni siano favorite dallo sviluppo della competenza linguistica e narrativa del bambino che gli permettono di narrare e organizzare le proprie memorie, imparando forme adeguate per raccontare la propria esperienza e per rappresentarla a se stesso.
Il linguaggio, quindi, nel bambino è utile per la costruzione delle proprie relazioni interpersonali e ha un’altra funzione essenziale: nel caso in cui i processi di deformazione e di esclusione difensiva divengano pervasivi, “il linguaggio serve a distorcere la comunicazione e a creare discordanze e confusioni” (Bretherton, 1993).
Memoria autobiografica e stile di attaccamento
Guardando alla relazione tra attaccamento e memoria autobiografica possiamo vedere come questa sia bidirezionale, se per un lato l’attaccamento influenza i tipi di conversazioni che genitori e bambino hanno rispetto al passato, dall’altro queste conversazioni e altri pattern interattivi e comunicativi possono a loro volta contribuire allo stabilizzarsi della relazione di attaccamento (Farrar et al., 1997).
Tra le numerose ricerche sul legame tra stile di attaccamento e memoria autobiografica, una in particolare ha messo in luce come persone con stili di attaccamento differenti ricordino in maniera più specifica episodi conformi alle proprie relazioni con i caregiver rispetto ad episodi divergenti (Koh-rangarajoo et al., 1991).
I modelli operativi, quindi, oltre a selezionare le informazioni, influenzano l’accesso all’informazione da richiamare.
Questa ricerca, inoltre, evidenzia come la memoria autobiografica sia una capacità appresa attraverso le interazioni con gli adulti, e quindi, anche le strategie della memoria siano acquisite in tal modo e soggette a tali variazioni.
La ricchezza della conoscenza di sé e le narrative autobiografiche sembrano quindi essere mediate dai dialoghi interpersonali con cui vengono co-costruite le narrative sugli eventi esterni e sull’esperienza soggettiva interna (Siegel, 1999).
Ricerche nell’ambito dell’attaccamento hanno mostrato che il modo con cui i genitori raccontano le proprie esperienze infantili è predittivo del modello di attaccamento che il figlio mostrerà intorno al secondo anno di età.
La struttura della narrazione permette di prevedere la capacità di un adulto di sviluppare un sano legame di attaccamento con il proprio figlio.
Le memorie autobiografiche, quindi, si esprimono attraverso le conversazioni e sono forgiate dalle stesse (Hirst e Manier et al., 1995).
Guardando a queste ricerche, emerge come i dialoghi e le esperienze con i caregiver abbiano un ruolo cardine nella co-costruzione delle narrative sugli eventi autobiografici; inoltre, le stesse esperienze di attaccamento influenzano la propria storia autobiografica.
L’evento che poi diventa ricordo dell’evento è filtrato dalla memoria, dalla fantasia, da fattori emotivi e cognitivi che determinano la loro elaborazione e utilizzazione nella vita.
Non si può non tener conto che la sfumatura emotiva di un ricordo muta nel tempo e quindi, le emozioni del momento vanno poi a guidare la ricostruzione del ricordo.
Memoria autobiografica ed esperienze traumatiche
Appare doveroso chiedersi come le esperienze infantili di maltrattamento e abuso influiscono sulla memoria autobiografica e quali sono i possibili esiti del processamento di eventi traumatici.
Lo studio condotto da Brewin, Dalgleish e Joseph nel 1996 propone una teoria della rappresentazione duale di un evento traumatico: memorie accessibili verbalmente, narrative e richiamabili volontariamente, e memorie accessibili contestualmente, evocate automaticamente da stimoli ambientali. Secondo gli autori vi sono tre possibili esiti del processamento di un evento traumatico: un’integrazione completa, un cronico processamento del trauma oppure una prematura inibizione del processamento.
Nel processamento cronico la persona è permanentemente preoccupata per le conseguenze del trauma e per le memorie intrusive, presentando ciò che è definibile un cronico disturbo da stress post-traumatico.
L’inibizione cronica del processamento, invece, riguarda l’utilizzo, che col tempo diviene automatico, di strategie di evitamento di pensieri ed emozioni riguardanti il trauma: l’utilizzo di tali “schemi evitanti” può portare la persona a mostrare anche un evitamento fobico delle situazioni connesse al trauma e ad un danneggiamento della memoria (Brewin et al., 1996).
Traumi estremi possono, quindi, comportare deficit nella capacità di simbolizzare (trasformazione di materiale “rozzo” in simboli mentali a differenti livelli) e di mentalizzare (processo sottostante all’organizzazione della mente, riguarda la possibilità del soggetto di discernere i propri e altrui stati mentali identificandoli come rappresentazioni che sono distinte dalla realtà esterna e che influenzano in modo determinante il comportamento) (Fonagy e Target, 1997).
Questa ricerca mostra come il trauma costituisca una sorta di rottura temporale all’interno della soggettività della persona.
Le numerose ricerche tra il ruolo del trauma, soprattutto, in età infantile e la memoria autobiografica rimandano ad altrettante numerose domande che potrebbero essere affrontate partendo dall’interrogativo che Gabriele Garcia Marquez si pone nella sua biografia, ovvero: “…Non è forse vero che la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla?” (Garcia Marquez, 2002).