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Anginofobia: quando deglutire fa paura

L'anginofobia è la paura sproporzionata del rischio di soffocare. L’incoercibilità del sintomo e il suo evitamento hanno un costo elevato per chi ne soffre

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 03 Gen. 2023

Aggiornato il 05 Gen. 2023 16:05

L’anginofobia si riferisce a un’intensa paura di deglutire –si tratta di ingestione di piccoli oggetti, di parti di cibo non ben masticate, talvolta persino della saliva– nella convinzione che, nello stesso atto della deglutizione, possa insorgere il soffocamento. 

 

Introduzione

 La sintomatologia dell’anginofobia, affine a quella dei disturbi fobici, presenta una paura sproporzionata del rischio, l’incoercibilità del sintomo e l’evitamento dello stimolo ansiogeno. Quest’ultimo in particolare viene attuato tramite l’esercizio reiterato di condotte protettive. L’anginofobico tende a selezionare le qualità del cibo al fine di individuare quelle caratteristiche peculiari –consistenze, densità, modalità di cottura e condimento– in grado di aggirare o quantomeno ridurre il rischio di soffocamento. Alcuni soggetti si rifiutano di assumere cibo solido, alimentandosi soltanto con yogurt o omogeneizzati, altri triturano il boccone prima di introdurlo in bocca, altri ancora richiedono la presenza di un caregiver durante l’atto della deglutizione, per scongiurare il rischio di trovarsi privi di un soccorritore nel caso in cui se ne presentasse la necessità; ruolo, quest’ultimo, spesso ricoperto da mariti, genitori o altri componenti della famiglia.

La componente fobica contribuisce a privare il cibo di ogni altro valore (nutritivo, conviviale, relazionale) che non sia strettamente connesso a un’angoscia di morte. Il costo esistenziale si rivela quindi oneroso e di difficile gestione in tutti gli ambiti.

La dimensione socio-relazionale risulta fortemente limitata, data la tendenza a evitare qualsiasi occasione di alimentarsi fuori casa, complice il senso di vergogna suscitato dalle strategie di evitamento. Gli stessi ritmi di alimentazione subiscono una sostanziale modifica, essendo richiesta una maggiore quantità di tempo non soltanto per la preparazione del pasto (sono necessari triturazioni e tagli sottilissimi), ma anche per la masticazione –molto più lunga– e per la deglutizione, che spesso avviene solo dopo numerosi tentativi andati a vuoto.

L’aspetto nutrizionale può risultare danneggiato dal reiterarsi delle condotte selettive, talvolta così intransigenti da comportare l’eliminazione di alcuni cibi dal piano alimentare, con grave rischio per la salute.

Da un punto di vista cognitivo l’anginofobia causa il consolidamento di credenze erronee e fuorvianti, cui consegue la maturazione di pensieri irrealistici e totalmente condizionati dal funzionamento fobico. L’associazione della deglutizione al rischio di soffocamento viene progressivamente automatizzata e resa più intensa nelle sue componenti patologiche: si può arrivare a credere che persino l’ingestione di un piccolo boccone potrebbe avere conseguenze fatali.

L’aspetto emotivo presenta vissuti di profonda insicurezza e sfiducia nel Sé, cui si associano stati di dipendenza, impotenza e mancanza di assertività, che spingono a credere di non poter far nulla da soli, neppure mangiare.

L’anginofobia si presenta spesso in comorbilità con disturbi dello spettro depressivo, allo stesso tempo il comportamento ritualistico implicato nelle condotte di evitamento può agevolare l’insorgenza di patologie affini allo spettro ossessivo.

Il sintomo può manifestarsi anche in presenza di situazioni a intenso carico stressogeno o traumatico, di cui potrebbe rappresentare la condotta reattiva disfunzionale, e può egualmente costituire la conseguenza di un trauma vicario, in cui l’aver assistito a un episodio di soffocamento –consumato o potenziale– durante l’ingestione di cibo, può suscitare l’intensa paura di trovarsi a dover vivere la stessa situazione, da cui le condotte di evitamento e protezione.

È necessario precisare che di fronte all’insorgere del sintomo è in primo luogo necessario escludere ogni coinvolgimento organico. Sono infatti numerosi i disturbi neurologici degenerativi che comprendono, nei rispettivi quadri sintomatici, una compromissione della deglutizione, per esempio: la Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), la sclerosi sistemica, il morbo di Parkinson, malattie sistemiche autoimmuni, la cui insorgenza può essere associata a un danno nella funzionalità oro-faringea. L’esclusione di questa eventualità rende plausibile l’attribuzione del sintomo a un disagio emotivo somatizzato, direzionando in tal senso anche l’indagine psicodiagnostica.

Paura di deglutire come “angoscia introiettiva”

Secondo un’interpretazione psicodinamica, il profondo disagio percepito nell’atto della deglutizione potrebbe risultare dalla simbolizzazione di una sottesa angoscia introiettiva, il cui fine è quello di difendere i confini del Sé dall’invasione di elementi “estranei” potenzialmente distruttivi, perché contenuti all’interno di un contesto esistenziale altrettanto negativo, da cui l’anginofobico non vuole lasciarsi contaminare (Naldi, 2022). Una sorta di elementi beta, non deglutibili e letteralmente “indigeribili” (Bion, 1962).

L’anginofobico teme di venir invaso da elementi esterni da cui sa di non potersi difendere. Nulla riesce a superare questo vissuto di diffidenza persecutoria che limita l’apertura, la conoscenza, e più generalmente l’introiezione, in ogni suo aspetto.

Questa angoscia introiettiva potrebbe rappresentare il retaggio mnestico di microinterazioni disfunzionali occorse all’interno del legame diadico, e in seguito relegate nell’inconscio non rimosso assieme al coacervo di esperienze presimboliche sperimentate con l’oggetto materno. A testimonianza di ciò, vediamo come al disturbo anginofobico si associno connotati simbolici regressivi profondamente rievocativi del contesto diadico: la masticazione reiterata, simile a quella dello svezzamento, la paura di alimentarsi senza la presenza di un oggetto rassicurante al proprio fianco, l’importanza fornita all’aspetto della sensorialità del cibo, selezionato in base a consistenze, colori, sapori, quantità –sono tutti richiami latenti ad un’alimentazione gestita all’interno della diade, e regolata dalla presenza di un oggetto materno salvifico dal quale è rischioso separarsi (Naldi, 2022; Spitz, 1958).

In linea generale, l’anginofobico mostra atteggiamenti di profonda diffidenza e sospettosità nei confronti dell’ambiente. Non essendo stato adeguatamente tenuto o contenuto dal contesto accuditivo/educativo, egli presenta un Sé vulnerabile e una dimensione egoica altrettanto debole. Ed è proprio questo deficit di funzionalità egoica a impedire il consolidarsi di un rapporto aperto e accogliente con la realtà, un approccio sicuro e securizzante, in cui la novità non viene percepita come una potenziale minaccia, ma come un’esperienza conoscitiva e di sicuro arricchimento.

L’origine del conflitto e l’equivalenza cibo-madre

Anna Freud (1967) ha osservato come, nelle fasi primordiali dell’esistenza, la madre venga totalmente equiparata al cibo. Le identità di questi due elementi vanno a fondersi in una fantasia indifferenziata che, nella dimensione intrapsichica del bambino, rende la madre una sorta di nutrimento e quest’ultimo un elemento non dissimile dall’oggetto materno.

Le ragioni risultano piuttosto evidenti: è la madre a gestire totalmente l’aspetto nutrizionale del bambino (attraverso il ritmo e la frequenza della poppata), ed è sempre la madre a fornirgli il cibo essenziale per la sopravvivenza. Il suo ruolo di regolazione la rende una sorta di “legislatore esterno” (Freud, 1967) dalla cui presenza – vitale e affettiva – non è possibile prescindere.

Ove non si mostri in grado di organizzare funzionalmente questo aspetto, la madre e tutto ciò che da lei proviene assumeranno una valenza minacciosa, quasi “tossica” agli occhi del bambino, spingendolo a rifuggire l’oggetto materno e il cibo in egual modo. In particolare, il bambino può avvertire l’esigenza di distaccarsi da una madre invasiva, opprimente o abbandonica che non lo nutre a sufficienza o nel modo adeguato – che diviene ai suoi occhi un oggetto persecutorio da sfuggire (Crocetti, 1997). A testimonianza di ciò, si veda come disturbi della deglutizione infantile – o i disturbi alimentari più in generale – si verifichino spesso durante la fase dello svezzamento, inteso come distacco, abbandono, separazione dall’oggetto materno al contempo desiderata e temuta (Freud, 1967).

La fobia della deglutizione in adolescenza: rifiuto di un ambiente oppressivo…

L’identificazione cibo-madre, di per sé destinata a esaurirsi al termine della fase fallica, può tornare a presentarsi in corrispondenza di quelle fasi esistenziali a intensa attivazione pulsionale, e per questo altamente stressogene, che comportano una gestione egoica a carattere regressivo (Freud, 1967). Esattamente come nell’infanzia, la fobia di deglutire può di nuovo rappresentare lo spostamento di una pulsione angosciosa nutrita verso un oggetto affettivo primario o verso una situazione disagevole (e impossibile da mandar giù) che si è costretti a vivere.

 Ad esempio, in fase adolescenziale la fobia della deglutizione può simboleggiare il rifiuto verso un ambiente familiare invasivo e limitante, teso a disconfermare ogni possibile svincolo identitario, o da un contesto educativo intransigente e severo, volto a impedire l’appagamento di ogni pulsione.

Il cibo è parte integrante di questo ambiente. Probabilmente gestito e regolato dai genitori, e comunque pervaso dalla loro identità invasiva, esso diventa il correlato di una genitorialità narcisistica che merita di essere disinvestita, de-idealizzata, in favore della scoperta del vero Sé. Esattamente come nello stadio infantile, la pulsione rifiutante verso l’ambiente genitoriale viene dunque spostata sul cibo, al fine di liquidare la componente angosciosa strettamente collegata alla stessa.

…o  rifiuto della pulsione orale?

Alternativamente al rifiuto di un ambiente oppressivo e soffocante, la fobia della deglutizione potrebbe risultare la metafora dell’opposizione verso uno stato pulsionale endogeno. Nello specifico un’oralità che nell’adolescenza torna a fare la propria comparsa, destabilizzando gli equilibri sublimanti realizzati durante la latenza (Freud, 1974).

In questo stadio della vita, la pulsione orale rappresenta un’avidità introiettiva, a sua volta metafora di un profondo desiderio di conoscenza, di esplorazione, di introduzione di elementi nuovi all’interno del Sé. Il tutto in ottemperanza a un desiderio di scoperta che impone il distacco dagli investimenti infantili per sancire l’inizio di un percorso identitario autonomamente gestito (Blos, 1977).

Questa necessità di distacco dal proprio ambiente familiare alla ricerca di oggetti esterni su cui investire, viene tuttavia percepita nella sua duplice connotazione generativa e distruttiva. Non diversamente da quanto accadeva nelle fasi arcaiche della vita. E tuttavia, con una differenza non trascurabile: se nel periodo infantile la carica orale non aveva incontrato decisa opposizione da parte delle altre istanze psichiche (Io ancora troppo debole e il Super-Io non ancora formato), in questa età evolutiva è invece costretta a fronteggiare intense manovre egoiche a loro volta provocate da un Super Io stabilmente introiettato: “l’IO infantile era capace di ribellarsi improvvisamente al mondo esterno e di allearsi con l’Es per ottenere un soddisfacimento pulsionale, mentre l’Io dell’adolescente, così facendo, si troverebbe in terribile contrasto con il Super Io” (Freud, 1936, p. 152).

L’istanza superegoica si è tramutata in una solida componente caratteriale, e assecondarne la volontà proibitiva risulta gratificante oltre che necessario. Si aggiunga che le rigide connotazioni del Super Io adolescenziale potrebbero risultare amplificate dalla presenza di un contesto educativo altrettanto severo e coercitivo, in cui qualsiasi gratificazione pulsionale (persino quella alimentare) viene equiparata alla violazione di un dovere morale. Da questo punto di vista la fobia della deglutizione rappresenta la simbolizzazione di un’angoscia di appagamento, di gratificazione piena e goduta del Sé, impedita dalle briglie coercitive di un Super Io che relega, imprigiona, soffoca letteralmente.

Dietro ad ogni attività inibita per cause nevrotiche si nasconde un desiderio pulsionale (Freud, 1936, p. 107).

Ovviamente anche la pulsione introiettiva, intesa come inserimento del “nuovo”, viene desiderata e al contempo osservata con diffidenza: nella novità c’è qualcosa di affascinante e tuttavia minaccioso, perché quello stesso elemento sconosciuto che tanto attira potrebbe rivelarsi fautore di un’inattesa distruzione, un annichilimento che l’adolescente dovrebbe per di più affrontare senza il supporto del genitore salvifico, ormai de-idealizzato.

A seguito dell’introiezione di oggetti appaganti (il cibo) potrebbe far seguito una vendicativa rappresaglia superegoica (il soffocamento). Ecco il grande rischio connesso all’oralità.

Di fronte alla necessità di difendersi da questo pericolo, l’Io mette in atto uno spostamento pulsionale finalizzato a gestire un’angoscia altrimenti incontrollabile. È così che l’angoscia di introdurre il “non conosciuto” viene esteriorizzata nella paura di deglutire, e la paura di deglutire rievoca il timore di lasciarsi contaminare dalla misteriosa presenza del nuovo. Del diverso. Dell’altro da Sé.

Trattare il disturbo nel setting

Il disturbo di deglutizione sta mostrando una diffusione crescente, soprattutto all’interno del genere femminile (donne tra 20 e 40 anni e soggetti in età adolescenziale in particolare).

Tratti ansiogeni della personalità e fattori di stress ambientale, uniti a un’attenzione alimentare sempre più diffidente e selettiva, rendono il cibo il condensato simbolico di un’angoscia diretta verso l’esterno, il nuovo e l’altro da Sé, che trova in una strenua difesa introiettiva la propria funzione catartica (Freud, 1896).

Come tutte le altre psicopatologie, il disturbo richiede una presa in carico consapevole, svolta all’interno di un setting terapeutico che sappia integrare il sintomo nella sfera esistenziale diminuendone al contempo l’impatto limitativo.

Trattandosi di un disturbo fobico, una psicoterapia di matrice cognitivo comportamentale potrebbe rivelarsi la scelta d’elezione, perché in grado di costruire un focus terapeutico in cui la gestione del sintomo viene attuata direttamente dal paziente, con conseguente restituzione di agency, autoefficacia, padronanza del Sé e dello stimolo stressogeno. Il tutto in un tempistica generalmente contenuta.

Molto utile potrebbe rivelarsi anche una terapia ad indirizzo psicosomatico –con l’eventuale consulenza di un nutrizionista– data la necessità di trattare la disfunzionalità del rapporto psiche-soma e di ripristinare una correttezza alimentare probabilmente danneggiata dal reiterarsi delle condotte selettive.

Anche la psicoterapia ad indirizzo psicoanalitico potrebbe costituire un valido aiuto, specie ove fondata su elementi espressivi, al fine di identificare le componenti inconsce del sintomo fobico e di rielaborare lo spostamento difensivo alla base dello stesso. Il tutto cercando al contempo di corroborare i contenuti del nucleo identitario, rendere meno opprimente il carico superegoico e consentire un adeguato potenziamento dell’Io, che in questo disturbo mostra caratteristiche di eccessiva e irrisolta vulnerabilità (Gabbard, 2015).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bion, W. ( 962).  Apprendere dall’esperienza. Armando.
  • Blos, P. (1962). L'adolescenza. Un'interpretazione psicoanalitica. Franco Angeli.
  • Crocetti, G. (1997). Legami imperfetti: psicodinamica delle relazioni d’amore. Armando.
  • Fenichel, O. (1951). Trattato di psicoanalisi della psicosi e della nevrosi. Astrolabio.
  • Freud, S. (1896). Etiologia dell’isteria, in OSF vol. 2, Boringhieri, Torino, 1977, pp. 333-360.
  • Freud, A. (1936). L’io e i meccanismi di difesa. Giunti.
  • Freud, A. (1967). Normalità e psicopatologia nel bambino. Una visione psicodinamica. Feltrinelli.
  • Freud, A. (1974). Infanzia e adolescenza. Bollati Boringhieri.
  • Gabbard, G. O. (2015). Le psicoterapie. Raffaello Cortina.
  • Naldi, A. (2022). Seminario Disagi Evolutivi 2022, Scuola di specializzazione psicoterapia psicoanalitica C.I.PS.PS.I.A.
  • Spitz, R. (1958). Il primo anno di vita del bambino. Giunti.
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